In ricordo di Francesco Masala scomparso il 23 gennaio del 2007

FRANCESCO MASALA

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti” (1916-2007)

Nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916. Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di  Pirandello.

Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto  insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna”  con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.

Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.

Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.

Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.

Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di  Ceux d’Arasolè).

Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.

Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni –  il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.

Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.

 

 

Presentazione del testo [tratto dal romanzo Quelli dalle labbra bianche, Feltrinelli editore, Milano 1962, pagine 11-15].

 

Quelli dalle labbra bianche sono i poveri: affamati, denutriti e anemici, che non portavano le labbra coralline ma bianche appunto, perché hanno sempre mangiato il prodotto di piante frumentacee e poca carne e pesce, destinati ai piatti dei ricchi.

Il romanzo è la storia di nove sardi caduti nella steppa russa: in guerra. Sardi – dirà Masala –  cattivi banditi in tempo di pace, ma eroi buoni in tempo di guerra: in guerre nelle patrie trincee, in pace nelle patrie galere.

Fra le pareti di una piccola chiesa, durante la celebrazione di una messa funebre in memoria dei nove sardi defunti, rivivono le loro vicende. Raccolto all’ombra del campanile, Arasolè – nome poetico e immaginario del paese nativo dello scrittore – villaggio sardo dimenticato e sperduto, ricorda, per il tempo presente e futuro, gli orrori della guerra, ammonendo tutti a non dimenticare.

 

SERAFINA PESTAMUSO

“Serafina, la vedova del caporale Efisio Pestamuso, sta rigida da­vanti al candelabro del defunto marito. Non ha alcuna voglia di sen­tire quello che grida Prete Fele.

Non le interessano le ferite riportate dal Cristo nero. Quelle di suo marito nessuno le ha contate. Grigia, secca, pelosa, rugosa, Sera­fina guarda il figlio Battista, accanto a sé, già in età di fare il soldato, nero e grosso come il padre, buonanima. Serafina ha un chiodo fisso in testa, da venti anni. Con gli occhi bovini che girano lenti e aridi, Serafina guarda tenacemente il figlio accanto a sé.

Tutti lo sappiamo ad Arasolè, Serafina da venti anni ha un chiodo fisso in testa: la cartolina rossa1.

Fu la prima domenica di giugno di venti anni fa che arrivò la cartolina rossa per il marito Efisio Pestamuso, la cartolina rossa di richiamo del Distretto Militare. La cartolina rossa si portò via il ma­rito. Efisio non è più tornato. Tutto qui per Serafina Pestamuso.

Quella domenica di giugno, appunto, stavo attraversando la piaz­zetta per andare a suonare la campana della seconda Messa, quando il vecchio Pasquale Corru2, il postino, mi fermò e mi consegnò la cartolina rossa di richiamo arrivata per me dal Distretto.

Efisio Pestamuso, dalla porta della sua nera fucina di fabbro ferraio, mi gridò:

“Ehi, Daniè, fregati siamo”.

E mi sventolò la sua cartolina rossa.

Guardai ancora la mia cartolina e gli gridai:

“Va be’, ora, Prete Fele se le suona lui le campane”.

E voltai le spalle al campanile.

In quel momento, Antonio Nèula, noto Mammutone3, brutto ma, in verità, il miglior ciabattino di Arasolè, si alzò dal deschetto4 del suo stambugio5 e si affacciò sulla piazzetta con la sua cartolina rossa in mano. Ci sputò sopra e gridò:

“La malasorte, è la nostra classe, l’ultima volta che è venuta, questa carota ci è costata tre anni di naia6”.

Poi arrivò nella piazzetta Peppe Brinca, noto Automedonte7, fan­tino e domatore di cavalli, nonché caporalmaggiore, dopo l’ultimo richiamo:

“Be’, niente male, evviva la naia, scarpe di governo, vestito gratis, ingrassa povero”.

Subito dopo Gavino Malía, il venditore ambulante, noto Tric-trac8, sbucò nella piazzetta con il suo carrettino carico di angurie.

“Venite, aiò, venite all’anguria, venite, aiò, quando la tagli fa tric-trac, che cosa bella, venite all’anguria, è rossa e non è fuoco9, è acqua e non è fontana, è tonda e non è mondo, aiò10, venite, aiò, venite, tric-trac, tric-trac, tric-trac…”

Ma in quella sopraggiunse la moglie Teodora con la cartolina rossa in mano e gliela mise sotto il naso. E Gavino Malía, noto Tric­trac, divenne pallido come un fazzoletto della domenica, lasciò an­dare le stanghe del carretto e le angurie si misero a rotolare nella piazzetta fino alla fucina di Efisio Pestamuso.

Giunsero, allora, nella piazzetta gli altri richiamati, tutti con la cartolina rossa in mano: Michele Girasole, il muratore, noto Sciarlò, con i capelli neri con la riga in mezzo e il viso pallido, sempre rivolto al cielo come per parlare con gli uccelli; il contadino Salvatore Mè­rula11, noto Animamèa, con la barba cespugliosa sempre lunga e le mani grandi e piene di calli; i fratelli gemelli Matteo e Andrea Cocòi12, caprai, uno masticando tabacco e sputando, l’altro fumando il sigaro col fuoco dentro la bocca per consumarlo di meno13; e, infine, il pro­prietario Don14 Adamo, il principale di Orvenza, che arrivò nella piaz­zetta e gridò:

“Viva la classe di ferro!”

“La classe dei fessi,” sibilò Pestamuso.

Allora, uscì dalla chiesa Prete Fele, adirato perché non aveva sentito ancora suonare la campana della seconda Messa. Vide le car­toline rosse, sollevò le sue lunghe e magre braccia e cominciò:

“Iddio Sabaotto15…”

Ma intervenne zio16 Pasquale Corru, il vecchio postino, che era allo stesso tempo usciere, guardia comunale, fontaniere17 e becchino di Arasolè, interrompendo l’inizio di predica di Prete Fele.

“Guerrieri,” ci disse sorridendo con la bocca furba e sdentata, “guerrieri, se non volete perdere il treno, andate a casa e preparatevi il fazzolettone18. Il treno passa a mezzogiorno in punto”.

E a mezzogiorno in punto la classe di ferro era tutta riunita nella stazioncina ferroviaria, isolata in aperta campagna, a mezzo chi­lometro da Arasolè, fra siepi di fichidindia19.

Ciascuno di noi portava in mano il fazzolettone involto a qual­cosa da mangiare. Quei fazzolettoni a quadrati rossi e blu con cui i braccianti a giornata di Arasolè avvolgono il pane e il formaggio per il pasto di mezzogiorno in campagna: quei fazzolettoni grandi, così grandi che, con una dozzina di essi, puoi coprire un’intera vigna di qualche povero nei salti sassosi di Caràde. Il principale di Orvenza aveva dietro un servo che portava sulle spalle una grande e pesante valigia di cuoio.

C’erano anche le nostre donne: Caterina, mia moglie; Serafina, la moglie di Pestamuso con il piccolo figlio in braccio; Maria Girasole, la lavandaia, madre di Sciarlò; Giovanna la Rossa, moglie di Mammu­tone; Rosa Fae, la fidanzata di Sciarlò; Teodora, moglie di Tric-trac; Mariantonia, moglie di Salvatore Animamèa; Lillía, madre di Peppe Brinca; e la nobile Donna Filiàna di Orvenza, moglie di Don Adamo.

Sul binario aspettava il trenino di fumo che aveva in coda un carro bestiame, “cavalli 8, uomini 4020.”  Tric-trac, il venditore ambu­lante, disse subito:

“ Niente male, cinque uomini per un cavallo”

Sul carro bestiame fummo fatti salire noi, i richiamati. Le donne cominciarono il pianto. Efisio Pestamuso, sporgendosi fuori dal carro, si fece dare dalla moglie il figlioletto per un ultimo bacio. In quel momento il treno si mosse.

Serafina gridò:

“Efisio, Efisio, il bambino, dammi il bambino!”

Ma il fabbro ferraio non poteva fare niente. Efisio, col figlioletto fra le braccia, guardava esterrefatto il treno che aumentava la sua corsa e la moglie che tendeva invano le sue mani.

Non ci fu niente da fare. Il figlio di Serafina rimase, sorridente e divertito, fra le braccia del padre, dentro il carro bestiame del tre­nino di fumo che trasportò i richiamati di Arasolè alla città da dove erano partite le cartoline rosse.

Alla porta del Distretto Militare si presentò un richiamato in più, un soldato di un anno senza cartolina rossa.

L’Ufficiale di picchetto rimase di stucco quando vide il grosso Efisio entrare in caserma con un poppante in braccio. Successe il finimondo. Da tutte le camerate, da tutti i magazzini, da tutte le fure­rie21, soldati, ufficiali, sottufficiali vennero a vedere il richiamato in fasce.

Venne anche il colonnello comandante.

Efisio Pestamuso, sull’attenti, spiegò:

“Signor colonnello, il treno è partito e questo coso mi è rimasto fra le braccia.”

Il coso, fra le braccia del padre, rideva imperturbato in faccia al colonnello.

“Questo non è un asilo infantile, io non sono una balia asciutta22,” urlò il colonnello.

Ma era commosso si vedeva. Aveva perduto la testa anche lui. Non sapeva cosa fare. Per un momento si chiese se era militarmente decoroso fare una carezza al figlio di un soldato raso23. Infine, fu chiamato il cappellano. Il prete si prese il bimbo e lo portò nel suo alloggio.

Il giorno dopo, Serafina prese lo stesso trenino di fumo dalla stazioncina di Arasolè per recarsi alla città del Distretto Militare.

Tutto andò bene lungo il viaggio, ma Serafina non era mai stata in città.

Quando, uscita dalla stazione, si trovò davanti ad un semaforo con la guardia in guanti bianchi che fischiava continuamente, Sera­fina cominciò a dubitare di poter riprendersi suo figlio. Quando voleva passare, l’uomo dai guanti bianchi fischiava e la faceva tornare indie­tro; e quando poteva passare, Serafina stava lí, ferma, a guardare preoccupata il nero semaforo che sembrava un morto con tre occhi.

Dopo molti infelici tentativi, Serafina scoppiò in lacrime24.

Un’altra volta sola, in vita sua, Serafina aveva pianto.

Era successo il giorno dopo le nozze. La domenica mattina, come è consuetudine ad Arasolè, solo la prima domenica dopo le nozze, Efisio Pestamuso accompagnò la moglie in chiesa. Arrivati alla soglia della vecchia chiesa di Prete Fele, mentre Serafina varcava il portone di legno scolpito e tarlato, Efisio si voltò verso gli amici seduti nella piazzetta e, indicando il sedere della sposina, gridò

” Donna meglio vestita di mia moglie ne entrerà, oggi, in chiesa, ma meglio contentata, no.”

Serafina aveva sentito, era diventata rossa come un peperone ed era scoppiata in lacrime.

Ora, per la seconda volta in vita sua, Serafina piangeva davanti al semaforo. Quel mostro con tre occhi: uno rosso come l’occhio25 del cinghiale, l’altro verde come l’occhio della lucertola, il terzo giallo come l’occhio della capra.

Serafina piangeva e guardava ora i tre occhi ed ora la terribile guardia dai guanti bianchi. Poi, il fischietto del vigile si inceppò e Serafina passò.

Colei che aveva superato il diavolo con tre occhi non ebbe più paura di niente.

Girò, domandò, interrogò e trovò il Distretto Militare.

Scovò il figlio nella stanza del cappellano e se lo riprese come una furia.

E, senza nemmeno vedere il marito, se ne tornò ad Arasolè.

Serafina, ora, è qui, grigia, invecchiata, pelosa e rugosa, davanti al candelabro funebre del defunto marito. Il figlio le sta accanto, nero e grosso come il padre, buonanima. È già in età di fare il soldato. Serafina non ha alcuna voglia di ascoltare ciò che dice Prete Fele. Con occhi bovini, lenti e aridi, essa guarda tenacemente suo figlio. Tutti lo sappiamo ad Arasolè, Serafina da venti anni ha un solo pen­siero, una sola paura, un chiodo fisso in testa: la cartolina rossa, un’altra cartolina rossa per il figlio”.

 

Note

1. cartolina rossa: è la cartolina precetto che obbliga alla guerra; cartolina di chiamata alle armi, detta rossa per il colore.

2. Pasquale Corru: non a caso il postino si chiama Corru: in italiano significa corno, e il corno è il fregio, lo stemma delle poste.

3. Mammuthone: una caratteristica dei villaggi sardi è il soprannome, per cui uno è conosciuto quasi esclusivamente col nomignolo; in questo caso Mammuthone, perché brutto, simile alla maschera nera, bisèra, usata a Ma­moiada, simbolo del carnevale, ma legata ai riti del mondo agricolo-pastorale

4. deschetto: tavolino dei calzolai.

5. stambugio: stanzino buio.

6. Questa carota…naia: carota indica il colore rosso della cartolina e naia, in gergo è così chiamata la vita militare.

7. Brinca… Automedonte: anche in questo caso cognome e soprannome derivano dal mestiere, fantino e domatore di cavalli (va detto che la maggior parte dei cognomi sardi sono di origine agricola-pastorale); Brinca, salta, dal logudorese brincàre (campidanese brincai) = saltare, saltellare. Automedonte, era il guidatore del cocchio d’Achille.

8. Tric-trac: voce onoma­topeica, che imita il suono, in questo caso dell’anguria quando viene tagliata.

9. … e non è il mondo: si tratta di un indovinello comune in tutta l’isola, in campidanese suona così: « Est birdi e no’ est erba / Est arrubiu e no’ est fogu / Est acqua e no’ penètrada», verde e non è erba, è rosso e non è fuoco, è acqua e non penetra).

Grazia Deledda, nel 1894, pubblicò l’indovinello nella Rivista delle tra­dizioni popolari italiane, diretta da Angelo De Gubernatis, naturalmente in nuorese: «Est birde e no est erba, / Est ruju e no est f ocu, / Est tundu e no est mundu ». E’ l’anguria, sa sindria in sardo.

10. Aiò (suvvia, andiamo)

11. Mèrula… Animamèa: Mèrula, merlo: in sardo-logudorese, derivante dal latino, significa merlo, in campidanese è meurra; Animamèa = anima mia.

12. Cocòi:in sardo ha diversi significati: coccòi (con una o due c a seconda del luogo) è un tipo di pane; coccòi vuol però anche dire lumacone; in questo caso il co­gnome Cocòi sta proprio per lumacone senza guscio, ignudo.

13. Consumarlo di meno: secondo l’antropologo Carlo Maxia, fumare il sigaro a fogu a intro (col fuoco dentro), è tipicamente sardo. I sardi della Brigata Sassari, durante la prima guerra mondiale, fumavano a fogu a intro per non essere visti dal nemico. Inoltre il sigaro col fuoco in bocca permette al pastore che deve sorvegliare il gregge di non essere individuato da even­tuali ladri di bestiame, godere del piacere del fumo senza che nulla appaia all’esterno e percepire un delizioso tepore in bocca.

14. don Adamo: il don (da dònno = signore) è titolo di origine feudale, riservato ai nobili e ai proprietari, sos prinzipales, (i principali), importato in Sardegna dalla Spagna.

15. Sabaotto: voce ebraica, sàbaot, = degli eserciti o delle virtù, si dice di Dio.

16. zio: così in Sardegna vengono chiamate le persone su con gli anni.

17. fontaniere: addetto all’acquedotto.

18. fazzolettone: la valigia, la borsa dei poveri (e dei vagabondi di tanti films muti e sonori).

19. siepi di fichidindia: molte stazioni ferroviarie distavano chilometri e chilometri dai centri abitati, per cui erano circondate dai fichidindia, tipici frutti della Sardegna.

20. «Cavalli 8, uomini 40»- è il testo del foglio di viaggio compilato dal capostazione per il capotreno.

21 furerie: sono gli uffici amministrativi militari, nei comandi di compagnia, di batteria ecc.

22 balia asciutta (bambinaia)

23 soldato raso: soldato semplice; raso per l’uso di rapare i  soldati semplici, in particolare le reclute.

24 scoppiò in lacrime: l’incontro-scontro con la città immensa, lon­tana dal villaggio, una città popolata da stranieri, da gente che non capisce la civiltà della campagna.

25 … come l’occhio del cinghiale… come l’oc­chio della lucertola… come l’occhio della capra: sono immagini che derivano dalla società e civiltà agro-pastorale sarda.

 

 

 

 

ANALIZZARE

I nove eroi del romanzo, andati a fare la guerra e a “crepare” in Russia, in mezzo al freddo, la fame., i pidocchi, i topi, il tifo e la dissenteria sono i gemelli Matteo e Andrea Cocoi, l’uno che mastica tabacco e sputa e l’altro che fuma il sigaro al contrario, che somigliano a lumache; Beppe il seduttore, Tric-Trac il rivenditore ambulante-fattucchiere; Mammutone, il calzolaio più brutto dei sette peccati capitali; Don Adamo il ricco printzipale; Girasole il muratore; Salvatore il contadino; Pestamuso il fabbro.

Serafina, vedova di quest’ultimo, caduto sotto una betulla nella tragica campagna di Russia della seconda guerra mondiale, nella chiesetta del suo paese, nella ricorrenza del ventesimo anniversario della sua morte, non aveva voglia di ascoltare la predica di prete Fele che “conta le ferite di Cristo sul calvario” perché “nessuno aveva contato quelle di suo marito”. Ha ancora in testa un chiodo fisso: la cartolina precetto con cui il marito era stato chiamato alla guerra.

Nel romanzo si ritrovano ampie analogie e corpose ascendenze da ricondurre sia al neorealismo letterario che a quello cinematografico: un realismo che non teme di mescolarsi con il fantastico più sbrigliato e con un humour nero e paradossale che né Dino Risi né Ettore Scola rinnegherebbero.

Con i protagonisti che ci fanno anche pensare ai personaggi tragici e insieme paradossali, assurdi e grotteschi di Dino Segre (Pitigrilli) come di Pietro Chiara o di Dino Buzzati.

Masala però dosa i suoi effetti: l’assurdità con lui ha qualcosa di delicato. Come nelle Novelle per un anno di Pirandello in cui la derisione la fa da padrone. Come ne La luna e i falò di Pavese in cui si sente un disgusto della frivolezza tragica.

 

 

Letture:

Prima [poesia tratta da Poesias in duas limbas ora in Opere di Francesco Masala, volume II, Alfa editrice, Quartu 1993, pagine 160-163]

 

LITTERA DE SA MUZERE DE SEMIGRADU

Est bènnidu, s’istiu.

Dae ispigas de nèula, in su cunzadu,

est fioridu trigu de chigìna:

has semenadu in mare.

Su ruìnzu e su solòpu han mandigadu pane ‘e fizu tou:

has semenadu in mare.

In malora has postu

sa falche subra santa de sa janna:

has semenadu in mare.

Ohi, iscura s’arzola

chi timet sa frommigia:

has semenadu in mare.

Su entu s’est pesadu ma in sa terra

falat solu paza:

has semenadu in mare.

Prenda mia istimàda,

cando torras, si mai has a torrare,

no mi pèdas ue est s’aneddu ‘e oro:

est diventadu pane a fizu tou.

Prenda mia istimada, coro meu,

t’iscrìo subra sas undas de su mare,

t’iscrìo subra su entu:

ammèntadi de me.

Ohi, cantos fizos

cherìas chi mi naschèren dae su sinu:

ma totu sunu mortos dae cando ses partidu,

in su lettu de paza b’est restadu,

a s’ala tua, unu sulcu chena sèmene.

Prenda mia istimada,

no isco pius proìte ti faèddo,

sos pensamentos mios sunu che s’erva,

ateros che sas nues, ateros che ispinas.

Intro de te haìa fattu nidu,

intro de me haìas fattu nidu.

Isco chi no ses nudda

e deo ancora respìro.

Su coro est grogu

comente binza posca ‘e sa innenna.

 

 

Seconda [poesia tratta da Poesias in duas limbas ora in Opere di Francesco Masala, volume II, Alfa editrice, Quartu 1993, pagine 206-209]

 

 

INNU NOU CONTRA SOS FEUDATARIOS

(A sa manera de F. I. Mannu)

 

Trabagliade, trabagliade,

poveros de sas biddas,

pro mantennere in zitade

tantos caddos de istalla:

issos regollin su ranu,

a bois lassan sa palla.

 

Trabagliade, trabagliade,

petrochimicosoperajos

pro su pane tribulade:

cun su ‘inari ‘e sa Rinaschida

ingrassan sos de Milanu

e a bois lassan su catramu.

 

Trabagliade, trabagliade,

in sa chejas de petroliu

de Sarrok a Portoturre:

sa cadena de trabagliu

cun sa matta mesu piena

est trabagliu de cadena.

 

Trabagliade, trabagliade,

minadores de Carbonia,

in sos puttos de ludràu:

cras bos toccat sa pensione,

unu pagu ‘e silicosi

e unu pagu de cannàu.

 

Trabagliade, trabagliade,

ohi, pastores de Orgosolo,

cun sas ‘amas de arveghes:

no andedas a isbaragliu,

attent’a  s’artiglieria

chi bos lèat a bersagliu.

 

Trabagliade, trabagliade,

emigrados berdularios,

in sas fabricas de gherra

de sos meres de sa terra:

sos dannados de sa terra

cun su famine cuntièrrana.

 

Trabagliade, trabagliade,

cun sa pinna, o literados,

subra foglios impastados,

de catramu e de petroliu:

su salariu est pariparis

a Zuda trinta dinaris.

(Passo tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula,(volume II, di prossima pubblicazione, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, pagine 29-41)

In ricordo di Francesco Masala scomparso il 23 gennaio del 2007ultima modifica: 2013-01-23T09:51:13+01:00da zicu1
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