In ricordo di Salvatore Satta a 111 anni dalla sua nascita

 

SALVATORE SATTA.

L’accademico, il giurista e il narratore di vaglia (1902-1975)

Nasce a Nuoro il 9 Agosto del 1902. Dopo aver frequentato il liceo “Domenico Alberto Azuni” di Sassari, nel 1921 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza della regia Università di Pavia. Prosegue gli studi universitari presso le Università di Pisa e di Sassari e in quest’ultima si laurea nel 1924. Inizia la carriera forense a Nuoro quindi si trasferisce a Milano per esercitare il tirocinio di avvocato. Una malattia lo costringe a interromperlo e a ricoverarsi nel sanatorio di Merano. Da questa triste esperienza nasce la scrittura nel 1925, a soli 23 anni, del suo primo romanzo: La Veranda. Il rifiuto da parte della Giuria del concorso letterario cui lo affidò, probabilmente distolse Satta dal proseguire nella scrittura letteraria per dedicarsi completamente a quella giuridica. L’opera narrativa verrà pubblicata postuma nel 1981, sulla scia del successo dell’opera maggiore: Il giorno del Giudizio.

Da alcuni critici la Veranda è stata accostata alla Montagna incantata di Thomas Mann e a La cura di Herman Hesse.

Ottenuta la libera docenza, negli anni ’30 insegnerà Procedura civile in varie Università italiane: Camerino, Macerata e Padova. Si afferma come giurista di fama internazionale grazie anche a opere come Il contributo alla dottrina dell’arbitrato ((1931), La rivendita forzata (1933), L’esecuzione forzata (1937). Sposatosi nel 1939 si trasferisce a Genova ma con l’inizio della seconda guerra mondiale, a causa dei bombardamenti abbandona la città. In questi anni pubblica Teoria e pratica del processo(1940), Guida pratica per il nuovo processo civile italiano(1941), Istituzioni di diritto familiare (1943).

Dopo varie peregrinazioni e incarichi, nell’anno accademico 1945/46 assume la carica di rettore dell’Università di Trieste, poi fa ritorno Genova, dove sarà anche Preside della Facoltà di Giurisprudenza, e nel 1948 pubblica il suo primo scritto letterario, De profundis: si tratta di un’opera memorialistico-riflessiva, una meditazione parafilosofica, un affresco sulla condizione umana motivato dall’orribile esperienza di quello che è stato il periodo più duro della guerra in alta Italia, specialmente dal 25 Luglio all’8 settembre del 1943. Il romanzo verrà ignorato dal grande pubblico. Lo storico Ernesto Galli della Loggia in un suo saggio, La morte della patria (Ed. Laterza , Roma-Bari 1988) ha definito il romanzo “il libro di più alta e dilaniata riflessione sugli avvenimenti italiani del 1940-45”.

Nel frattempo continua a pubblicare opere giuridiche: Diritto processuale civile (1948) e Nuove disposizioni su processo civile (1951). Dopo dieci anni di insegnamento nell’Università ligure si trasferisce a Roma dove insegnerà Diritto processuale e per un anno, nel 1965, sarà Preside della Facoltà di Giurisprudenza alla “Sapienza”, successore di Francesco Calasso. Nella capitale vivrà fino al 1975, anno della morte. Nel corso di questi anni vengono pubblicati il Commentario al codice di procedura civile (1959-1971 –un’opera veramente monumentale- Soliloqui e colloqui di un giurista (1968), Quaderni del diritto e del processo civile (1969-1973), Diritto fallimentare (1974). Nel 1970 inizia la stesura del romanzo Il giorno del giudizio. Nell’agenda che contiene il manoscritto infatti, in cima alla prima pagina è annotato: Fregene 25 Luglio 1970, ore 18 e poi la sua firma e il titolo. Con molta probabilità nel 1974 il libro aveva già assunto la forma che conosciamo.

Muore a Roma, colpito da un mare incurabile, il 19 Aprile 1975. Nello stesso anno Il giorno del giudizio verrà pubblicato postumo dalla Cedam, una casa editrice di testi giuridici che pubblicherà tutte le sue opere. Il romanzo suscita sconcerto e malcontento, soprattutto a Nuoro: in realtà si rivelerà una delle opere di più alto livello letterario che si siano registrate in Sardegna.

Nel 1979 esce infatti lo stesso libro per i tipi dell’Adelphi. In pochi mesi vende 60.000 copie e conosce subito decine di edizioni. Riconosciuto come un capolavoro della letteratura italiana, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama in campo letterario. . Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza.  

 

Presentazione del testo [tratto dal capitolo primo de Il giorno del giudizio, Adelphi edizioni, Milano, 1979, pagg.11.16].

L’apocalittico titolo del capolavoro di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, è mutuato dalla Bibbia, come del resto anche un altro, De Profundis.

Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina.

Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.

Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere- come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna”, “un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).

Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno  l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. 

 

LA FAMIGLIA SANNA CARBONI

“Don Sebastiano Sanna Carboni, alle nove in punto, come tutte le sere, spinse indietro la poltrona, piegò accuratamente il giornale che aveva letto fino all’ul­tima riga, riassettò le piccole cose sulla scrivania, e si apprestò a scendere al piano terreno, nella modesta stanza che era da pranzo, di soggiorno, di studio per la nidiata dei figli, ed era l’unica viva nella grande casa, anche perché l’unica riscaldata da un vecchio caminetto.

Don Sebastiano era nobile, se è vero che Carlo Quinto1 aveva distribuito titoli di piccola nobiltà agli autoctoni sardi che avevano innestato gli olivastri nel­le loro campagne (la grande nobiltà con tanto di pre­dicato era quasi tutta cagliaritana, ed era praticamen­te straniera all’isola): ma il doppio cognome era solo un’apparenza, altro non essendo il Carboni che il no­me della madre, aggiunto al Sanna, il vero e unico nome di famiglia, un poco per l’usanza spagnola, un poco per la necessità di distinguere le persone, nella poca varietà dei nomi determinata dalla scarsa popo­lazione. Ogni bifolco in Sardegna ha due cognomi, an­che se poi sull’uno e sull’altro prevale di solito un soprannome, che, se la fortuna aiuta, diventa il con­trassegno temuto di una pastorale dinastia. Tipico esempio i Corrales. Il tempo e la necessità han finito col dare una certa legittimità al doppio cognome, e infatti «Sebastiano Sanna Carboni» circoscriveva in lettere tonde lo stemma sabaudo nel timbro ufficiale d’ottone, che Don Sebastiano chiudeva ogni sera gelo­samente in un cassetto della scrivania. Poiché Don Sebastiano era notaio; notaio nel capoluogo di Nuoro.

Chi fosse poi questa Carboni che aveva lasciato il suo nome in un timbro, nessuno avrebbe potuto dire. La madre di Don Sebastiano doveva essere mor­ta presto, e nulla è più eterno, a Nuoro, nulla piú effimero della morte. Quando muore qualcuno è co­me se muoia tutto il paese. Dalla cattedrale – la chie­sa di Santa Maria, alta sul colle- calano sui 7051 abi­tanti registrati nell’ultimo censimento i rintocchi che dànno notizia che uno di essi è passato: nove per gli uomini, sette per le donne, più lenti per i notabili (non si sa se a giudizio del campanaro o a tariffa dei preti: ma un povero che si fa fare su tocco pasau, il rintocco lento, è poco men che uno scandalo). L’in­domani, tutto il paese si snoda dietro la bara, con un prete davanti, tre preti, l’intero capitolo (poiché Nuoro è sede di un vescovo), il primo frettoloso e gratuito, gli altri con due, tre, quattro soste prima del camposanto, quante uno ne chiede, e veramente l’ala della morte posa sulle casette basse, sui rari e re­centi palazzi. Poi, quando l’ultima palata ha concluso la scena, il morto è morto sul serio, e anche il ricordo scompare. Rimane la croce sulla fossa, ma quella è affar suo. E, infatti nel cimitero, meglio nel camposan­to dominato da una rupe che sembra una parca, non c’è una cappella, un monumento. (Oggi non è più così: da quando la morte ha cessato di esistere è tutto pieno di tombe di famiglia: sa’ è Manca2, quella di Manca, così si chiamava, credo dal nome del pro­prietario anticamente espropriato, è diventata oltre le costose muraglie, oltre gli assurdi colonnati, la continuazione della città imborghesita). E così questa Carboni si era dissolta nel nulla, nonostante i cinque figli che aveva messo al mondo, e di lei non ricorda­vano neppure il nome di battesimo, protesi com’erano ciascuno nell’avventura della propria vita. Del resto, oltre questa faticosa avventura, erano vivi essi stessi, sentivano come vive le persone che il destino aveva legato al loro carro, mogli, figli,  servi, parenti?

Don Sebastiano afferrò il lume a petrolio, grande globo bianco su un piede iridato, e s’inoltrò per il vano della scala. I1 buio era immenso, e col passo incerto un occhio tondo di luce vagava rapidissimo sul soffitto. Vent’anni prima egli aveva costruito quel­la casa, su un terreno comprato da certi miserabili napoletani che il vento aveva spinto fino a Nuoro, e il vento aveva respinto chissà dove. L’impresa non era stata semplice, con sette figli maschi da gettare nel futuro, e partendo si può dire da zero, in un mondo che di speranza non voleva assolutamente sentirne. Ma essere notaio in un paese è un privilegio ine­stimabile, perché, come si diceva, una procura fa bol­lire la pentola; e oltre quel ridicolo atto che è la pro­cura (3 lire e 50 di onorari) c’erano i testamenti, c’era­no le vendite che già cominciavano a farsi per iscritto, poiché la parola perdeva valore, c’erano i contratti che quei signori del continente venivano a stipulare per il taglio dei boschi e la devastazione dell’isola. Costoro erano gente meravigliosa, che trasformava in oro quel che toccava (qualcuno però finiva col resta­re nell’isola, preso dalla sua demoniaca tristezza). Non pareva vero ad essi, abituati a quei notai affaristi del continente, di trovare un notaio che si qualificava ro­manticamente depositario della fede pubblica, e pro­curava loro gli affari, trattava i prezzi coi proprietari, e tutto questo senza pretendere un soldo (anzi rifiu­tando ogni offerta) oltre la tariffa dell’atto. Non im­porta: ciò che conta non è guadagnare molto, è spen­dere poco, anzi non spendere affatto, se possibile, e possibile era per via dei capretti, degli agnelli che la buona gente mandava in regalo. Una volta, la prima e l’ultima volta, si era lasciato attrarre nel circolo de­gli ufficiali (Nuoro era anche sede di una guarnigio­ne), e si era seduto a un tavolo da gioco. Dopo mez­z’ora – inadatto com’era – aveva perduto trenta lire. Aveva aspettato che la mano toccasse a lui (la digni­tà sopra tutto) e allora si era alzato, resistendo a tutte le lusinghe. Tornato a casa, per tre notti di seguito aveva fatto di suo pugno le copie destinate all’ama­nuense, fino a compensare le trenta lire. Così, dice­vano i maligni, le aveva pagate l’amanuense. Ma che importa? Qualcuno deve sempre pagare.

Se con un soldo si compra un mattone, la casa vien su da sé. Già, sarebbe troppo bello. Il fatto è che la casa di un notaio non può essere come la casa di un contadino di Sèuna3, con la sua corte4, il suo rustico patio, la catasta della legna, le loriche5 per il giogo, e in fondo la cucina col focolare in mezzo alla stan­za: questa si è fatta da sé attraverso i secoli, come l’uccello si fa il suo nido. Don Sebastiano ha bisogno di un ingegnere, e l’ingegnere è là nella casa di fron­te, la casa signorile forse più vecchia di Nuoro, chiu­sa come un fortilizio, piena di donne e di matti, con le finestre sempre chiuse, le porte che si aprono solo per segnali convenuti. Don Gabriele Mannu, come tut­ti i Mannu, era ricco e viveva in miseria: ma era stato a Roma, aveva studiato, ed era tornato ingegnere, in un paese dove da cent’anni non si costruiva una casa. Quel terreno dei miserabili napoletani, quel notaio in­traprendente si offrivano alla sua pigrizia ancestrale lordata sulla diffidenza di se stesso prima che degli al­tri (rispondeva sempre di no prima di sapere che cosa si volesse da lui) come un banco di prova e una sfida. E così stese disegni su disegni, calcoli su calcoli. Tut­to bene, ma egli aveva in mente i palazzi di Roma, le scalee dove gli antichi salivano a cavallo (aveva letto), e così invece di una casa fece una scala, un vano immenso nel quale a ogni piano si aprivano dei buchi , che erano stanze, una dentro l’altra, destinando al sacrificio e alla insofferenza la crescente fa­miglia. Vero è che la gente stupiva, guardando di là dalla soglia, di quell’atrio inutile e immenso, e co­minciava a favoleggiare di chissà quali ricchezze, an­che se il capomastro andava dicendo che senza il suo provvidenziale intervento Don Sebastiano sarebbe do­vuto entrare carponi nel suo palazzo, tanto bassa era stata concepita dall’ingegnere l’architrave che reggeva la porta.

Per questo, la discesa serale dallo studio al piano terreno era quasi un viaggio, e per questo l’occhio ton­do del lume a petrolio vagava su e giù per le volte, al vacillare del passo. Ma finalmente si odono le risa, gli strilli, le liti, e Don Sebastiano può spegnere il lu­me, soffiando dall’alto nel suo lungo tubo di vetro en­tro il quale arde la fiamma.

Un altro lume più grande ardeva nella stanza da pranzo, questo con un piede di bronzo che accoglieva un vaso, simile a un’urna, ornato di trasparenti scene di caccia, su uno sfondo lievemente azzurro. Un lume come quello oggi varrebbe chissà quanto: ma i San­na, nel loro maledetto istinto di dissoluzione, non hanno lasciato la più piccola traccia del loro passato. La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose. Ardeva, quel lu­me, su un grande tavolo ovale, che occupava quasi tutta la stanza (la credenza di mogano coi piatti buoni esposti di sopra, e in un angolo la scodella coi soldoni di rame e le lire d’argento della spesa do­mestica; di sotto le grandi ostie del pane in enormi pile, che ogni quindici giorni si rinnovavano, era inca­strata nel muro divisorio dall’attigua cucina): ma la luce che illuminava i visi dei sette ragazzi, l’ultimo poco più che decenne, non veniva da quel lume, ma dalle elci ardenti del caminetto, dall’unica fonte di calore di tutta la casa. Donna Vincenza, moglie e ma­dre, stava in un angolo, avvolta nei suoi panni neri. come si conveniva ai suoi cinquant’anni, esausta, in­grossata dalle maternità, il capo sempre chino sul petto. Ciascuno di quei figli era ancora come dentro le sue viscere, e nel suo silenzio ascoltava le loro voci come i moti segreti e misteriosi di quando erano nel suo seno. Essi erano la sua vita, non la sua speranza. Perché Donna Vincenza era una donna senza speranza […].”

 

Note

1. Si riferisce  Carlo V, (1500-1556), imperatore di un impero “su cui non tramontava mai il sole”. Era anche re di Sardegna. 

2. Sa’ è Manca (significa: quella di Manca). Questa grafia del Sardo riprende quella arbitraria e sbagliata del dattiloscritto, con l’accento sulla e. Quella corretta –presente nel manoscritto- è : Sa ‘e Manca (in cui il segno grafico ‘ indica che è stata elisa la d).

3. I personaggi di Salvatore Satta vivono a Nuoro, una piccola città con 7051 abitanti, ,”borgo” la chiama, alla maniera di Leopardi. Essa è divisa  in tre parti:  Seuna, abitata dai contadini, San Pietro, abitata dai pastori e il Corso, la strada principale che divide Nuoro in tutta la sua lunghezza abitata dai “Signori” , dalla borghesia.

4. La corte (dal sardo sa corte o colte) faceva parte integrante della casa del contadino e non solo, serviva soprattutto per la custodia degli animali ma anche come legnaia ecc.

5. Loriche (o lorighe) sono termini sardi che indicano gli anelli. Venivano conficcati nel muro e servivano per legare gli animali, soprattutto i cavalli. 

 

Giudizio critico

Ha scritto Vittorio Spinazzola […] L’opera postuma e incompiuta di Salvatore Satta  acquista il valore di una rappresentazione totale dei motivi di travaglio della condizione umana. Memoria e antimemoria, riferimenti di realtà e invenzioni romanzesche, laicismo iperrazionalista e pathos struggente, condanna del presente e ripulsa del passato, tensione giudicatrice e rinuncia a giudicare, ossessione mortuaria e vitalismo cosmico, compianto fraterno e ironia tagliente: una somma di attitudini discordi anzi contraddittorie trovano equilibrio organico in un’opera che è assieme testimonian­za di una verità sofferta individualmente ed epitome storico-sociale sulla sorte di una etnia, un costume di vita minacciati dal volgere dei tempi […].

[in Salvatore Satta, oltre il Giudizio, a cura di Ugo Collu, Donzelli editore, Roma 2005, pag.61].

 

ANALIZZARE

La morte è effimera e insieme eterna: è il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit, proprio in questo passo, per poi essere ripreso in alcuni punti fondamentali della narrazione e anche nella pagina conclusiva.

Con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.

Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita in questo passo, come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che era esistente.

Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”.

L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.

Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della  moglie

La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza –tacitiana, verrebbe da dire-  dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.  

 

FLASH DI STORIA

-La dimensione “visionaria” nella produzione artistica sarda e in Salvatore Satta

“[…] “L’altro aspetto presente nella nostra produzione artistica è -a mio avviso- quello visionario. La modalità visionaria, invocata da Jung, è presente in molte espressioni artistiche sarde. A livello più semplice questa modalità sem­bra, in un certo senso, nutrirsi del chiaroscuro della indiscriminazione, della difficoltà a discernere e separare la dimensione fantastica da quella reale. D’altronde, al di là della creazione artistica, tende a permanere in noi sardi, accanto a una ruvida e persino spietata concretezza cognitiva, un alone fantastico, quasi mitico, che circonfonde la percezione e la coscienza del rea­le. Sebbene cognitivamente logici, in una consequenzialità rigorosa che può sfiorare la rigidità, siamo perciò sempre sopra o sotto le righe nella consape­volezza di noi stessi e della realtà.

A livello elevato la modalità visionaria entra nella realizzazione artistica di opere d’alto profilo. Esempio della tensione visionaria in tutta la sua forza dirompente e creativa è lo straordinario romanzo di Salvatore Satta Il giorno del giudizio. La dimensione visionaria trova qui la sua più profonda e intima essenza. È questa vettorialità visionaria, di stile junghiano, che dall’artista si trasmette alla sua opera, a conferire al romanzo la sua violenta bellezza. Dietro la sua trama narrativa tacitianamente essenziale, dietro le sue storie nude e fe­roci, dietro le sue vicende senza appello -come è stato osservato- ne sentia­mo l’arcaico pulsare. Questa febbre visionaria pervade il mondo sattiano, so­speso nell’attesa del giudizio, come una luce che penetra in una stanza oscura.

La gente di Nuoro con i suoi uomini e le sue donne, gli avvocati, gli abigeatari, i contadini, i pastori, i piccoli nobili, gli omicidi, le prostitute, i preti, i maestri elementari, i notai, i politici, etc. prima di inabissarsi e scomparire per sempre nel cono d’ombra e di silenzio viene investita da questa luce visionaria che la definisce e la rivela, quasi la folgora, rendendola universale. “Il sogno galoppava in quelle brulle lande” scrive il Satta. La pulsione visionaria sembra perciò tanto forte da rappresentare il polo dialettico oppositivo al Thanatos, altrettanto potente che rende la morte “eterna ed effimera”. Ma i dissolventi morituri sognano. In questo tendere a un’ulteriorità si potrebbe cogliere un afflato quasi blochiano, sebbene giocato su un registro irrimediabilmente diverso”

[Nereide Rudas, in “Quaderni Bolotanesi”, n.25, anno 1999, pagg.31-32] 

-Il giorno del giudizio

Il titolo del capolavoro del Satta è preso dalla Bibbia. In die iudicii “nel giorno del giudizio” è infatti un’espressione che ricorre letterariamente sette volte nella traduzione latina della Bibbia (Vulgata). Una volta nell’Antico Testamento nel libro di Giuditta (16,17: <Il Signore onnipotente li punirà il giorno del giudizio> e sei volte nel Nuovo Testamento: tre volte nel Vangelo di Matteo (Mt. 10,15; 11,24; 12,36), due volte nella seconda lettera di Pietro (2 Pt 2,9; 3,7) e una volta nella Prima lettera di Giovanni 84,7).

Michelangelo nel suo capolavoro pittorico della Cappella Sistina, ha colto quel momento supremo di verità e di realtà il cui il Giudice universale <giudica> ossia <discerne> tra buoni e cattivi e quindi <separa> i giusti dai malvagi, operando l’atto supremo di giustizia.

 

 

Lettura [brano tratto dal XV capitolo della Veranda di Salvatore Satta, Adelphi Edizioni, Milano 1981, pagg178-183]

“Sono andato alla visita. Gli ho detto che mi sen­tivo benissimo. Mi ha trovato benissimo, e mi ha concesso di partire.

Milano.

« Dazio, signore ».

Mi fermo dinanzi a questo improvviso ostacolo umano, fra me e la città sonora. Quest’uomo in­gabbanato di nero, curvo sulla mia valigia, la sop­pesa con le mani rudi, guardandomi di sotto in su fisso negli occhi. Io resto senza parola, quasi so­praffatto, cercando nella mia memoria un lontano perché; intanto il mio silenzio ha indotto co­stui a risospingermi dolcemente verso l’interno, davanti a un tavolo lungo, dove la mia valigia è is­sata, accanto ad altre uguali, così come io mi ri­trovo accanto ad altra gente uguale. Ho scoper­chiato la valigia al cenno d’un nuovo venuto in­gabbanato di nero, che ha dato un colpo secco con l’indice sopra la fibra. Rivedo la mia biancheria con la matricola rossa, la piccola Santa Teresa, lo spruzzatore defunto, lo scaldapiedi foderato di la­na, tutta una vita. Le sue mani si sono tuffate tra quelle povere cose…

Qualcuno ha sollevato di peso la valigia, me l’ha tolta di mano. Mi volto tutto trepidante. E’ uno con una casacca blu, e una grossa patacca sul pet­to. Veramente volevo portarla da me all’albergo più prossimo; ma quest’uomo mi si è messo davan­ti e sembra mi conduca dove vuole lui. Davanti alla bussola di un hotel si arresta. Quanto debbo dar­gli? Non saranno che venti passi: basteranno due lire. Ma non sono bastate, perché non mi ha de­gnato d’un saluto, anzi voltando le spalle, lui ha lanciato qualche parola che doveva essere un moc­colo. Forse però era ubriaco… Odorava terribilmente di vino.

Ora io scendo, a piedi, giù fino in piazza. Via Principe Umberto, Piazza Cavour. E’ bene invec­chiata in due anni questa città. Sulle case s’è diste­sa una patina bigia, un misto di polvere, di fumo, di umido. O forse è soltanto l’aria, la stessa aria che si respira, perché queste lunghe file di gente che mi passano accanto hanno un pò lo stesso aspetto di queste case. Mi f’ermo a una vetrina di mode: mi appaio in uno specchio lungo, tra due manichini estatici. C’è una bella differenza : le mie carni sono sode, il mio occhio è vivo, la mia pelle è bronzea, quasi dorata. Questa gente è flaccida, giallastra in viso, e per quanto si dia un gran da fare, tradisce un’interna stanchezza negli occhi. Ma poi, non senti? I miei polmoni si ribellano a questo innominabile miscuglio. Sembra aria già respirata. Piego a sinistra. E’ meglio arrivare in piazza per vie più tranquille.

C’è un caffè, all’angolo di questa strada. Se pren­dessi qualcosa? Ma, come passo, una zaffata orrenda mi invade le narici. E’ un tanfo di vapore, di rigo­vernatura, di alcool, che mozza il respiro. Come si faccia a vivere là dentro, io non lo so. Eppure, sbir­ciando, ho notato due che sembrano essersi dimen­ticati a un tavolino di marmo. Ma comincio a du­bitare che quest’odore mi si sia appreso alle narici: perché da ognuno di questi tuguri, da ognuno di questi anditi lunghi rischiarati in perpetuo da una lampadina con la museruola, tutta tempestata di mosche, promana lo stesso sito; e forse ogni uomo che mi sfiora passando sente un poco allo stesso modo.

Un’insegna gialla, con una vacca dipinta. Per­bacco! Come la polvere sulle cose, e le cose sopra la terra, io credo che le impressioni si dispongano a strati nel nostro cervello. Le ultime coprono le prime, e sembrano averle sepolte del tutto, quan­d’ecco, come a un colpo di piccone, a un improv­viso richiamo queste risorgono, più vive di prima, e risorge il passato con esse. E’questa la latteria nella quale, per tanto tempo, ho consumato le mie parche colazioni, quando mi affacciavo alla vita. Quanti anni, là dentro-, e quante speranze, tra me, e X e Y intorno a quei tavoli! E se ci tornassi, ancora una volta? Accidenti, ma anche l’aria sa di rinchiuso, anche qui. Eppure, prima non era, o al­meno non mi sembrava. Istintivamente, lascio la porta aperta, e mi dispongo in modo che l’aria mi colpisca diritta nel viso. Ma ho appena fatto due passi verso il tavolino di fronte che una voce urla dal fondo: «Mani non ne ha, lei?». Sento un tuffo nel cuore, in tutto il corpo: ma non mi volto. Fac­cio due passi indietro, richiudo la porta, mi siedo ad un tavolo; e solo quando sono seduto avvio lo sguardo da quella parte. Quel troglodita mi guarda fissamente, quasi attendendo da me che gli pro­vi che le mani le ho, e sode anche, se occorre. Ma io abbasso gli occhi, intimidito. E’ un’ingiustizia così grande che mi vien voglia di piangere.

E’ venuto un cameriere e mi ha detto con voce secca: «Comanda?». Ho alzato gli occhi. L’ho ri­conosciuto sotto la patina grigia. È lo stesso d’un tempo. Ora ha la testa impomatata, i denti neri di fumo e di carie: e indossa un abito nero pieno di pillacchere, che io guardo con terrore, e che pare ingrandiscano, si espandano al fissarle. Ma prima, era così? Per fortuna egli non mi ricorda. Non ho desiderio alcuno di essere ricordato da lui. «Comanda?» mi ripete egli, e stavolta il suo timbro è più aspro, così ch’io penso: mi comanda di coman­dare. E gli dico: «Un cappuccino, anzi, un caffe­latte». Quello si allontana: ha i piedi piatti. E come tutto si è insudiciato in questo frattempo! Si direbbe che non abbiano mai spazzato, mai lavato il banco, mai tolto la polvere dai muri. E questa tazzina tutta scrostata, come se ciascuna delle mille labbra che vi si sono posate abbia sottratto la sua particella di smalto. Trangugio in fretta la broda che mi fuma davanti (ho vergogna di lasciarla lì nella tazza), lascio due lire sul tavolo, ed esco. Il cameriere impillaccherato, che mi spiava dal ban­co, nel vedere l’insolita mancia mi rincorre, mi apre la porta, mi si sprofonda in inchini. Levati di mezzo, imbecille, se non vuoi che ti faccia ruzzo­lare nel fango. Sono fuori. Sono solo. Bisogna che esca da questo labirinto di strade, che mi affretti altrove, che fugga.

Senza dubbio è la solitudine che mi ha reso così sensibile, così insofferente. Come i miei polmoni, avvezzi all’aria libera e pura, mal sopportano il peso di questa atmosfera dai cento ingredienti, co­sì i miei nervi disabituati non reggono al contatto con gli uomini e con le cose degli uomini. Ecco due che passano e ridono rumorosamente. Che co­sa hanno da ridere? Non può essere una allegria sincera, perché io non so veramente di che cosa si possa essere allegri sulla terra. Ed è tanto vero che l’altra gente si volta al loro passare, e li guarda at­tonita, con l’aria di dire: Son pazzi! Questo che più di tutti li segue, e presta orecchio alle risa, de­v’essere un viaggiatore di commercio. Ha una bor­sa pesante sotto il braccio, e fa fatica a portarla, as­setta tutto com’è, con quei ventagli di orecchie che gli fanno da cariatidi al cappello calato sul viso. Sembra lo specchio dell’umana miseria, ed io già mi rifletto in lui, quand’egli si scontra con una femminuccia che gli attraversa la strada. Gli si so­no accesi gli occhi, e tanto ha fatto che l’ha stri­sciata col braccio. Quella si è voltata e gli ha fatto uno sberleffo. Senza dubbio lo sberleffo era diretto alla sua miseria di uomo; ma intanto quella mise­ria già non mi appare più degna di pena; ha qual­che cosa di viscido in sé, di desiderio insaziato che mi ripugna. Possibile che io abbia perduto così il senso della realtà, che non ci sia qualcosa più nella vita che vibri all’unisono con me? Questa strada liscia asfaltata, che io imbocco con la furia di un fuggitivo, conduce diritta ai giardini. Le sagome brune degli alberi, che la sera imminente fa gigan­teggiare davanti ai miei sguardi, mi appaiono co­me colonne poste al termine di un mondo. Biso­gna affrettarsi a varcarle. Raddoppio il passo. Un cancello mi taglia la strada. Sono giunto tardi. Di là dal cancello, al quale mi appoggio un istan­te, non c’è la grande pace dei vegetali immersi nel sonno. Grida e strida, che l’oscurità sembra rende­re umane, rompono l’aria; a tratti, un tempestare d’ali; un muggito, soliloquio triste. Nei giardini stanno prigioniere alcune famiglie di animali. Ed ecco, questa notte insonne degli esseri senza ragio­ne accresce la mia tristezza, e mi pare che l’irre­quietudine loro sia la stessa mia irrequietudine, o che l’inquietudine sia al fondo di tutte le cose crea­te, degli atomi come dei mondi, che senza posa anch’essi si aggirano nell’inquieto infinito. Alzo gli occhi al ciclo, dove fra qualche nuvola bassa c’è già un tumulto di stelle […]

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

 

Approfondimenti

-La rappresentazione paesistica segna i pochi momenti di distensione assorta che lo scrittore si concede, sia che contempli lo spettacolo della fioritura sia che indugi con occhio esperto sul suo rigoglio. Approfondisci il tema della natura custode di un mistero di fertilità, mettendo in rilievo i luoghi in cui si compiono le fatiche agricole, trasfigurate in luce di accaloramento commosso: è il caso della cantina del notaio, quando si procede alla vinificazione o, meglio, alla “creazione del vino”.

-I protagonisti del romanzo, come quasi tutti gli altri personaggi, sono innervati da una profonda solitudine, dolente e tormentosa, così radicata e perenne da assumere i contorni di una sofferenza a cui ci si è ormai abituati. Metti in rilievo la personalità di Donna Vincenza con le quotidiane “crudeltà”, le sorde incomprensioni e soprattutto i cupi silenzi.

Confronti

-La caducità che innerva Il giorno del giudizio, non è un tema nuovo nella narrativa sarda. Già Grazia Deledda, ad esempio, aveva scritto Cenere, anche se in esso la caducità è riferita alla nascita mentre nel Giorno di Satta è riferita soprattutto alla morte. Metti in rilievo somiglianze e diversità.

<Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte>. <La morte è eterna e effimera in Sardegna>. Con queste espressioni Satta esprime una visione pessimistica che muovendo dall’Ecclesiaste, attraversa i classici della Letteratura e della filosofia ed esclude ogni visione del progresso e dello sviluppo lungo quel filone che congiunge Schelling a Schopenhauer a Nietsche e a Bergson, (l’autore di Materia e memoria) e giunge al pensiero contemporaneo. Illustra analogie e diversità del Satta con questi pensatori.

Ricerche (anche a mezzo internet)

-Registra i personaggi presenti in Il giorno del giudizio: specialmente gli avvocati, gli abigeatari, i contadini, i pastori, i piccoli nobili, le prostitute, i preti, i maestri elementari, i notai, i politici.

-Anche il titolo De Profundis è preso dalla Bibbia: si tratta del Salmo 130, un canto molto caro alla liturgia penitenziale della Chiesa. Lo stesso Salmo ha goduto di una vasta letteratura in quanto ad esso si sono ispirati letterati illustri come Charles Baudelaire, Paul Claudel, Oscar Wilde. Nonché molti grandi musicisti come Liszt, Felix Mendelssohn-Bartholdy, Arnold Schönberg. Servendoti anche di Internet registra scrittori e musicisti che si sono ispirati a questo salmo.

Spunti vari

La vita per Salvatore Satta non è che un itinerario luttuoso, un simulacro, un fantasma, rappresentato in funzione della perdita e del congedo. Sembra di ritrovare accenti leopardiani. O anche foscoliani? Argomenta le tue riflessioni in proposito.

 

 

 

Bibliografia essenziale

Opere (narrative) dell’Autore

– De profundis, Ed. Cedam, Padova 1948. (Ripubblicato dall’Adelphi, Milano 1980 e dalla Ilisso, Nuoro 2003 con prefazione di Remo Bodei).

– Il giorno del giudizio, Ed. Cedam, Padova 1977 (Ripubblicato da Adelphi, Milano 1979; Euroclub, Milano 1979; Gruppo editoriale Fabbri-Bompiani-Sonzogno-Etas, Milano 1982; Ilisso, Nuoro 1999).

-La veranda, Ed. Adelphi, Milano 1981.(Ripubblicato da Euroclub, Milano 1982; Ilisso, Nuoro, 2002)

Opere critiche sull’Autore

Salvatore Satta, oltre il giudizio, a cura di Ugo Collu, Ed. Donzelli, Roma 2005. 

Un millennio di solitudine di Gorge Steiner in New Yorker, 19 Ottobre 1987 ora ripubblicato come introduzione alla riedizione de Il giorno del giudizio, Ilisso editore, Nuoro 1999.

L’offerta letteraria. Narratori italiani del secondo Novecento di Vittorio Spinazzola, Ed. Morano, Napoli 1990.

 

*Tratto da Letteratura e civiltà della Sardegna, volume I, di Francesco Casula, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagine 179-189

 

 

 

In ricordo di Salvatore Satta a 111 anni dalla sua nascitaultima modifica: 2013-08-09T09:02:58+02:00da zicu1
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