Gli Istituti solidaristici e comunitari dei Sardi:SA PARADURA.

L’Istituto de sa Paradura e dintorni.

di Francesco Casula

Condivido totalmente l’eccellente articolo di Tonino Bussu (apparso su La Barbagia.Net del 19 agosto scorso e che riporto sotto alla fine di questo mio intervento) sugli Istituti solidaristici che hanno caratterizzato la storia e la civiltà sarda e, che ancora oggi, sia pure in forme diverse, continuano a vivere e operare: come ha documentato Tonino Bussu nell’articolo. E anch’io auspico che la Regione sarda si muova “nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia”.

Partendo da tali Istituti vorrei tentare una breve incursione storica – che attiene strettamente ai valori dei Sardi –  per liquidare intanto il becero luogo comune sui Sardi pocos, locos y mal unidos. Attribuito a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica.

Del resto l’imperatore poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.

 Ma tant’è: tale luogo comune – a prescindere da Carlo V – è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale  (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.

I Sardi certo sono pocos,: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.

Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi). 

Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.

Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa paradura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de­gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.

Ponidura o paradura.  Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag­gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”

 

La solidarietà senza burocrazia

di Tonino Bussu

Qualche anno fa, in occasione del terremoto in Abruzzo, ha creato simpatie e onsensi l’iniziativa de sa paradura di Gigi Sanna, cantante del gruppo de sos Istentales, ma  nche attivo imprenditore agricolo di una fattoria didattica in quel di Baddemanna a Nuoro.

Già il nome Istentales, la grande e meravigliosa costellazione autunnale di Orione, rievoca antichi miti greci, ma anche tradizioni pastorali sarde in quanto questa costellazione, chiamata Sos Bacheddos in Barbagia, era l’orologio notturno estivo per i pastori barbaricini e, quando si presentava sulla volta celeste, preceduta da su Gurdone, le Pleiadi, avvertiva che era il momento di riportare il gregge all’ovile dopo il pascolo notturno de su chenadorzu o murigargiu o su tzucare, come dicono nell’oristanese.Quindi Orione, sos Baccheddos, sos Istentales, diventano oggi con Gigi Sanna il simbolo dell’antica solidarietà pastorale senza burocrazia che in poco tempo riescono a creare, a parare un gregge per donarlo ai fratelli pastori abruzzesi colpiti dal terremoto.Di altrettanta simpatia e stima si è circondato questi giorni Fortunato Ladu, pastore impegnato con grande energia e passione nelle lotte per il riscatto di questa categoria che rimane, oggi più di ieri, alla base della nostra economia e cultura millenarie. E la stima e simpatia per Fortunato Ladu deriva dalla sua iniziativa di esprimere e incoraggiare una solidarietà concreta, efficace e veloce, con l’invio di varie balle di fieno per i pastori del Sarcidano funestati dal fuoco assassino e crudele dei giorni scorsi che ha distrutto pascoli, greggi e messo a repentaglio la vita stessa delle persone.Ebbene, la lodevole iniziativa di Fortunato Ladu, seguita dalla generosità di altri suoi colleghi di varie zone della Sardegna, si inserisce nel solco di quelle forme di solidarietà comunitaria in vigore nella società pastorale fino agli anni sessanta, che affonda le sue radici nei secoli passati quando in casi di estrema necessità personale non vi erano aiuti pubblici e si rischiava la fame e la miseria.Numerosi sono i racconti di tropas de pastores, gruppi di pastori, che si prendono l’impegno di andare da un ovile ad un altro e chiedere una , due o più pecore, a seconda dei casi, per ricostruire il gregge del Tal dei Tali perché o gli era stato distrutto da una calamità naturale, o gli era stato rubato o perchè, dopo vari anni di prigione, non aveva più nulla e quindi era opportuno metterlo nelle condizioni di riprendere a lavorare.Ecco quindi i termini in lingua sarda per indicare questa antica pratica di sa ponidura, come dice spesso Gonario Pinna, noto penalista nuorese, nella sua opera ‘Il pastore sardo e la Giustizia’, da pònnere, mettere a disposizione una pecora o altro capo di bestiame.L’altro termine è sa paradura, da parare cioè formare, creare, parare pacos pecos de bestiàmene, formare un piccolo gregge di pecore o di armenti o maiali ecc.Si dice anche su paru, per indicare un genere, una specie di bestie, su paru de sa berbeghe, ma in certi casi, soprattutto quando si intende condannare l’azione riprovevole di una persona, si dice anche su paru ‘e su tontu o de s’isterzare! Comuni sono espressioni come: e ite li cheries fàchere a su par’e su maccu! E per indicare il massimo del disprezzo nei confronti di una persona o di una bestia invece che paru su dice parìle, o parìle malu!Quindi sa paradura da parare. Mi raccontava un pastore barbaricino in quel di Bosa che negli Anni Sessanta aveva donato almeno dieci pecore per aiutare un amico a ricrearsi il gregge, mentre per un altro pastore del Montiferru avevano lo stesso fatto sas berbeghes de dimanda.Nei primi Anni Venti del secolo scorso una delle tante violenti calamità naturali aveva tra l’altro incenerito il gregge di un pastore di Ollolai, certo Giovanni Lostia mi sembra, e allora, anche su indicazione del Consiglio Comunale, come risulta da una delibera del tempo, i pastori ollolaesi hanno portato nel suo ovile ognuno una pecora viva e in cambio si sono presi una pecora morta e nel giro di qualche giorno gli hanno ricostruito il gregge, l’ant torrau a parare sa gama, sa roba, salvandolo dalla disperazione più nera.Istituti come sa ponidura o paradura o berbeghes de dimanda dovrebbero essere contemplati negli statuti comunali perché sono una pratica che permette di esprimere la solidarietà viva, diretta e soprattutto veloce, senza perdersi in lungaggini burocratiche.Abbiamo tentato negli anni scorsi di mettere in qualche statuto comunale tracce, arrastos delle nostre migliori tradizioni comunitarie come la figura de s’omin’e mesu o appunto de sa paradura, ma la modernità e la legislazione statale non lascia spazio a scelte coraggiose e identitarie di questo tipo che, per alcuni che predicano la superficiale sardità da cartolina, è solo vecchiume.Per fortuna invece tali istituti sopravvivono nelle iniziative di persone e gruppi che infischiandosene delle leggi e considerate le lungaggini previste da queste ultime, danno risposte, come in questo caso, che sostituiscono gli interventi statali o regionali che spesso o non arrivano o arrivano in ritardo, perché sono tanto precise nella loro stesura quanto farraginose nella loro applicazione. Sarebbe opportuno che la Regione si muovesse nella direzione di recuperare questi istituti comunitari che hanno una grande e immediata efficacia, purché liberati dalle pastoie della burocrazia.

 

 

 

 

Gli Istituti solidaristici e comunitari dei Sardi:SA PARADURA.ultima modifica: 2013-08-19T08:50:14+02:00da zicu1
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