VOGLIONO UCCIDERE LA STORIA!

VOGLIONO UCCIDERE LA STORIA !


di Francesco Casula

Una società (e una civiltà) tutta concepita e vissuta sull’hinc e nunc (Qui ed ora) e su un apprendimento solo orizzontale e viepiù appiattito, soprattutto sulla rete, in cui si naviga di link in link e quindi viene meno quell’approfondimento verticale che è alla base di ogni conoscenza, considera ormai la storia un utensile inutile e inservibile.
La pensa così anche la politica: nel 2022 il governo, nel quadro della sua più volte conclamata «nuova attenzione alla scuola», ha deciso di eliminare dalle prove dell’esame di Stato il tema di storia. In tal modo la storia viene declassata a cenerentola delle discipline scolastiche, se ormai la società civile nel suo complesso ritiene possibile farne a meno, come sembra non solo dalla recente decisione governativa, ma anche da moltissimi altri segni che vanno appunto dalla scuola all’editoria e alla vita civile in genere.
Evidentemente non comprendendo che senza memoria storica le società, e in particolare la nostra moderna società occidentale, siano candidate alla autodistruzione. Se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale.
La storia infatti serve certo a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. Davanti alle grandi crisi che ci aspettano e che dovremo affrontare, (dalle guerre alle disuguaglianze crescenti, territoriali e sociali, al riscaldamento del pianeta e alla questione energetica a), se non si hanno modelli desunti dal passato su cui riflettere non si può costruire nessuna ipotesi di sviluppo nel presente e nel futuro.
La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo, è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.
“Il lavoro degli storici, il cui compito è ricordare ciò che altri dimenticano, è ancora più essenziale ora di quanto mai lo sia stato nei secoli scorsi”: nel suo lavoro più conosciuto Il Secolo breve, Eric Hobsbawm, il grande storico inglese, parlava così. Erano gli anni Novanta, e si iniziava a fare i conti con quel “Secolo breve” che stava cambiando radicalmente, secondo lo storico, il modo in cui l’uomo si relazionava al progresso e al proprio futuro. La necessità palesata da Hobsbawm è oggi passata sotto silenzio: scegliere di privare i giovani degli strumenti essenziali di lettura della realtà storica vuol dire privarli della possibilità di scegliere e determinare il loro futuro. La storia infatti è il presente che in qualche modo è già stato sperimentato, analizzato e vissuto: senza di esso, siamo come ciechi senza una guida. la storia serve a impadronirsi sempre più della nostra vita presente e futura; la storia serve a farci sentire e ad essere in realtà più liberi.
Dunque la storia non serve soltanto a divenire un po’ più colti, quindi un po’ meno ignoranti. Serve per saper “leggere” e interpretare la realtà, i fatti gli accadimenti: a tal fine la storia, che già per Cicerone era magistra vitae, non costituisce una semplice raccolta di fatti, date o nomi noiosissimi da imparare, come le genealogie dei carolingi o merovingi o il numero di battaglie vinte da Napoleone e Cesare o le date esatte di una serie indefinita di eventi: insomma l’equivalente di un concorso a quiz.
Al contrario la storia serve per conoscere il passato del mondo, la sua struttura geografica, gli eventi sociali, l’arte e la religione, la filosofia, l’economia, le scienze.
Liberissimo il governo di ritenere che i ragazzi debbano studiare solo cose utili. Ma, chiediamoci, utili a chi? Utili a che cosa? Utili a tranquillizzare le scarse e distratte opinioni delle famiglie che spesso vogliono inserirsi nei programmi scolastici senza capirne un accidente? Utili forse ai ragazzi stessi, molti dei quali sembrano credere che, nelle migliori delle ipotesi, si va a scuola solo per cercare di imparare un mestiere più redditizio, qualcosa che serva a far subito soldi?
Ma allora se la storia è inutile, magari come il greco o il latino o la musica e l’arte, o la poesia e la letteratura, che cosa mai sarà utile? L’inglese? L’informatica? O quale altra materia?
La verità è che la scuola non può essere impostata in modo utilitaristico, né secondo le mode e i gusti del tempo, ma deve essere impostata in modo formativo..
Dobbiamo essere consapevoli che la storia, il passato non è mai del tutto passato ma è ancora e sempre presente, nei suoi riverberi nell’oggi: E comunque la storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale.
Sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: “Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo”. Mentre Benedetto Croce a chi gli chiedeva cosa sia il carattere di un popolo rispose che “Il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia”. Parole non nuove – ricorda Corrado Augias in I segreti d’Italia – più volte ripetute, fra gli altri da Ugo Foscolo, che nell’orazione inaugurale all’Università di Pavia (22 gennaio 1809) conosciuta con il titolo Dell’origine e dell’ufficio della letteratura ammoniva: “Vi esorto alle storie…”
E l’afgano Khaled Hosseini, nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, scrive che: “Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente”.
E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o per lo meno fermo nella teca del tempo. Al passato, anche il più gravoso – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro.

La genesi storica della questione palestinese e il dramma odierno

La genesi storica della questione palestinese e il dramma odierno

Francesco Casula

La questione palestinese è di vecchia data ed è insieme problema etnico e politico, nazionale e sociale, con plurimi risvolti internazionali. Essa affonda le sue radici nella travagliata vicenda della Palestina fra le due guerre mondiali.
Nel 1945 resta un mandato britannico: in essa abitano 1.250.000 palestinesi e 560.000 ebrei: immigrati questi, in maggioranza fra le due guerre. L’Inghilterra, che inizialmente aveva favorito il flusso migratorio, all’inizio del 1945 adottò una politica restrittiva, per mantenere buoni i rapporti con gli Stati arabi e anche perché non voleva che fossero i Palestinesi a pagare al posto degli europei, per colpe che non avevano commesso.
“L’atteggiamento inglese irritò l’opinione pubblica europea e americana, convinta che la creazione di uno Stato sionista in Palestina fosse il giusto indennizzo per le stragi perpetrate dai nazisti nei campi di stermini, e spinse gli ebrei all’azione. Dall’ottobre 1945 le milizie sioniste di autodifesa dell’«Haganà» (difesa) cominciarono ad attaccare i militari inglesi e il movimento terrorista dell’«Irgum» (organizzazione estremista ebraica) moltiplicò gli attentati, il più grave dei quali fu l’esplosione che distrusse l’hotel «King David» di Gerusalemme, sede dell’Amministrazione civile mandataria, in cui persero la vita più di cento persone”(1).
L’Inghilterra a questo punto, incapace di gestire la situazione, all’inizio del 1947 affida la questione alle Nazioni Unite che nel novembre dello stesso anno approvarono un piano che prevedeva la divisione della Palestina in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo-palestinese e Gerusalemme internazionalizzata, sotto il controllo dell’ONU.
Il Piano fu respinto dai palestinesi perché favoriva nettamente gli ebrei. Così il 14 maggio 1948, alla partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele. E’ soprattutto da quel momento che inizia drammaticamente, la “Questione palestinese”.
In seguito alla guerra arabo israeliana (1948-49) infatti, lo Stato israeliano vincitore, allarga i suoi confini, “ampliati con Gerusalemme ovest e altri territori che portarono la sua superficie dal 55% al 78% dell’antica Palestina” (2).
Di contro “lo Stato palestinese non vide la luce, perché il resto della Palestina (tranne la striscia di Gaza, amministrata dall’Egitto) fu annesso alla Transgiordania, che acquisì così la Cisgiordania e Gerusalemme-est e che nel 1950 prese il nome di Giordania” (3) .
Per circa 900.000 palestinesi ci fu l’inizio dell’espulsione e del forzato esodo dalla Palestina ai paesi arabi vicini (Siria, Libano, Egitto soprattutto) e altrove.
Verso la metà degli anni ’50 assunse la fisionomia di una vera e propria diaspora e per l’identità dei profughi dispersi nelle varie parti del mondo (1.250.000) e, al tempo stesso, per il loro tenace e sacrosanto attaccamento alla propria identità nazionale e al loro legittimo territorio Da quel momento si infittirono le politiche discriminatorie e repressive da parte del Governo israeliano, sia nei confronti di quelli rimasti che degli esuli sistemati dei campi di raccolta dei paesi arabi ospitanti.
Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 l’intera Palestina storica sarà consegnata a Israele e ciò porterà il numero dei profughi palestinesi intorno ai 2.500.000. La storia, relativamente più recente fa parte di una cronaca drammatica: pensiamo solo al massacro di Tal-El Zaatar nell’agosto del 1976 in Libano, con centinaia e centinaia di morti, la maggior parte civili, opera dei partiti libanesi di destra accompagnati da milizie filo-Israeliane. O all’eccidio di Sabra e Shatila, compiuto dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano del sud, con la complicità dell’esercito israeliano, di migliaia di civili, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi.
Il massacro avvenne fra le 6 del mattino del 16 e le 8 del mattino del 18 settembre 1982 nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut.
Il conflitto continua con l’Intifada del 1987 e anche dopo che Arafat, dal 1969 Presidente dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tribuna dell’ONU annuncia nel 1988, il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e la rinuncia ad azioni terroristiche, accettando la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, concernente la restituzione dei territori occupati dagli israeliani nel 1967.
Non se ne farà niente. E servono a poco anche gli accordi di Waschington nel settembre 1993 fra i premier israeliano Yitzhak Rabin e Arafat: con l’autonomia amministrativa dei 900.000 palestinesi nella cosiddetta “striscia di Gaza” (occupata militarmente da Israele nel 1967) e della città di Gerico, situata in Cisgiordania (anch’essa occupata da Israele) e divenuta sede di un governo provvisorio palestinese.
E neppure servono gli ulteriori accordi fra OLP e Israele del 1995 che stabilivano le modalità del ritiro dell’esercito israeliano e un governo civile palestinese in Cisgiordania. Tali accordi saranno rifiutati sia dagli integralisti palestinesi di Hamas che dagli integralisti ebraici, con uno stillicidio di sanguinosi attentati: fra cui quello attuato da estremisti religiosi ebraici con l’assassinio del premier Rabin, più disponibile al dialogo e l’elezione a primo ministro de Benjamin Natanyahu, “capo di una coalizione di nazionalisti e religiosi ultraortodossi, ostili alla concessione di una reale autonomia ai Palestinesi” (4) .
In seguito all’assassinio di Rabin e con il governo di Natanyahu, in questi 25 anni e più, il dramma palestinese si acuisce: ed è caratterizzato soprattutto da una ulteriore “colonizzazione”: tanto che il numero di coloni israeliani in Cisgiordania avrebbe raggiunto i 475.000, cui vanno aggiunti altri 300.000 coloni a Gerusalemme Est. Ovvero nei territori “palestinesi”.
E’ frutto di una ulteriore colonizzazione anche il conflitto fra Israele e Hamas di del mese di maggio nel 2021, con 232 morti Palestinesi e 12 israeliani. Con 75 mila Palestinesi in fuga dai bombardamenti israeliani.
Questa la storia e la cronaca. Per quanto attiene il giudizio, ad iniziare da quello concernente l’ultimo conflitto, faccio mio quello espresso da un intellettuale e artista come Moni Ovadia che ha scritto:” “Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare la pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Nethanyau. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”.
E sulle reazioni della comunità politica internazionale e in particolare dell’Italia, Ovadia è netto: “Ci sono israeliani coraggiosi che parlano e denunciano. Ma la comunità internazionale no, ad esempio l’Italia si nasconde dietro la sua pavidità, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ci dovrebbe essere una posizione ferma, un boicottaggio, a cominciare dalle merci che gli israeliani producono in territori che non sono loro”.
E arriviamo alla tragedia di oggi. Con centinaia per non dire migliaia di morti distruzione e devastazione.
Ma la condanna del terrorismo di Hamas, sanguinario omicida e suicida, non solo a livello politico, non basta. Perché se il terrorismo allontana drammaticamente la risoluzione del problema palestinese, ovvero la creazione di uno Stato libero e indipendente, che coesista, nella sicurezza, con lo Stato d’Israele, ancor più l’allontana la politica aggressiva e vendicativa, ieri come oggi, di Israele e del governo israeliano. Che, al di là delle chiacchiere sottende di fatto un’idea: I Palestinesi? “Non esistono”.

Già all’indomani della costituzione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), la posizione dei leader come Ben Gurion (e poi Golda Meir) era quello di negare ogni diritto dei Palestinesi a una loro patria – e dunque a un loro Stato – in quanto essi erano considerati parte integrante del mondo arabo, all’interno del quale dovevano essere integrati e assorbiti.

E’ illuminante, a questo proposito una frase di Golda Meir: ”Quando c’è stato un popolo palestinese indipendente in uno Stato palestinese? I Palestinesi non esistono”.
A tal proposito, come non ricordare quanto sostenuto da Erdogan a proposito dei Kurdi, altro popolo da sempre oppresso, che sarebbero “Turchi della montagna”, non riconoscendo loro neppure il nome?

In altre parole non si riconosce e anzi si nega l’Identità nazionale dei Palestinesi e, dunque il loro diritto all’autodeterminazione. E al loro territorio, che a parere degli israeliani Sionisti, sarebbe tutto israeliano, di qui le continue “occupazioni”, in quanto loro appartenuto, fin dall’antichità.
Questo atteggiamento di negazione dei loro diritti permane ancora oggi, soprattutto, ripeto, nella destra sionista. Un noto esponente, il generale Moshe Aron ebbe a dire “Uno Stato può riconoscere un altro Stato, ma mai un popolo”.
Alla base dunque della Questione palestinese vi è la negazione, da parte israeliana, della “Nazionalità palestinese”. Di qui lo sterminio di un intero popolo.

Riferimenti bibliografici
1.Franco della Paruta, Storia del Novecento-dalla Grande Guerra ai nostri giorni, le Monnier, Firenze, 1991, pagine 286-287.
2. Ibidem, pagina 287.
3. Ibidem, pagina 287.
4.F. Della Paruta- G. Chittolini- C. Capra, Il Novecento, Le Monnier, Firenze, 1997, pagina 412.

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Berto Cara ( 1906 _ 1964 )

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Berto Cara (1906 – 1964)

di Francesco Casula

Berto (Filiberto) Cara nasce a Barisardo, il 12 aprile 1906. Finito il ginnasio, impossibilitato a proseguire gli studi per motivi economici, viene assunto come impiegato nelle Poste nel suo paese. Verrà poi trasferito a Mamoiada e, quindi, ad Orotelli, dove nel 1925 conosce e poi sposerà Salvatora Pintori, la madre dei suoi 5 figli.
Il giovane Cara, intanto, continua a pubblicare poesie, novelle, atti unici, riflessioni varie sulla società sarda, saggi di critica letteraria in diversi giornali dell’Isola e della Penisola. In questa sede ci interessano solo le sue opere teatrali e dunque ricorderemo Sa Lampana, dragma in tres actos, pubblicata nel 1929.
Sa Lampana è scritta in sardo-nuorese. A questo proposito Tonino Loddo, valente studioso di Berto Cara, ricorda che esso scrisse l’opera,”più che per i cosiddetti istruiti, principalmente per il popolo, per il popolo sardo, che non ha ancora una letteratura o, meglio, un teatro suo proprio. Or ecco – sostiene Cara – perché ho anche preferito scrivere la triste storia di Manzela e di Stene Mura in dialetto, e nel loro dialetto, anziché in lingua italiana o anche semplicemente logudorese. Il mio lavoro è scritto nella lingua della taciturna Barbagia, alla quale lo dedico e consacro come una primizia del genere”.
Nel tempo libero dagli impegni di lavoro, Cara si dedica allo studio, nel tentativo di realizzare un suo antico sogno: laurearsi in Lettere.
Nel 1936 riesce a fare il primo passo in tale direzione, ottenendo a Cagliari il diploma magistrale.
Nello stesso anno scriverà Marytria, la sua opera teatrale più importante. Questa appena pubblicata, verrà ritirata dalla circolazione con un decreto della censura fascista, perché vi comparirebbero alcune figure con connotazioni ritenute offensive per il regime: ad iniziare da Nanni Dore, il podestà di Araè. Questi invaghitosi della sorellastra Marytria Albais, con prepotenza e brutalità, approfittando del suo ruolo politico e amministrativo, condanna al confino Badore ‘e Ligios il giovane poeta amante di Marytria, da cui aspetta un figlio segreto, In tal modo pensa di eliminare il suo competitore.
A parte questo, di per sé si tratta di un’opera “antifascista” se pensiamo che già nella prefazione al testo, in evidente polemica col divieto fascista della lingua sarda, Berto Cara scriveva: Custa limba podet esprimere totu sos sentimentos, finzas sos pius tragicos e soberanos. E custa limba tantu donosa, meritat abberu sa morte e s’esiliu?
Commenterà Francesco Masala: Il fascismo non riuscì a eliminare il bilinguismo e neppure riuscì a eliminare dalle scene sarde, le antiche farse in limba, esse continuarono ad essere allestite nelle filodrammatiche parrocchiali nei villaggi di Sardegna.
Nel 1947 partecipa e vince il Concorso per Direttore didattico: gli verrà assegnata la sede di Orbetello. Nel 1948 da Cagliari si trasferisce a Siena.
Giunto in Toscana, per prima cosa, il Cara pone mano alla versione italiana di Marytria il cui titolo modifica in Paska che conserva però alla lettera lo svolgimento scenico di Marytria.
Lavora, contestualmente, alla redazione del suo primo romanzo, Dio non si cura dei funghi. Contemporaneamente, apre un’intensa e lunga collaborazione poetica con la prestigiosa rivista sarda S’Ischiglia, fondata da Angelo Dettori, che nella sua lunga storia ospiterà e sarà palestra di una buona parte dei poeti in lingua sarda, strumento indispensabile perché la stessa continui a vivere anche nei momenti più difficili.
Dopo quindici anni egli si trasferirà a Grosseto dove morirà il 31 luglio 1964. Per sua volontà le spoglie furono riportate in Sardegna, precisamente a Cagliari, dove riposano nel monumentale cimitero di Bonaria.

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Raimondo Fresia (1888-1961)

 
Francesco Casula
CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Raimondo Fresia (1888-1961)
 
di Francesco Casula
Raimondo Fresia, nasce il 10 dicembre del 1888 a Villaspeciosa (Cagliari). Comie gli studi nel seminario di Cagliari ed è ordinato sacerdote il 16 Luglio 1915. E’ viceparroco a Gergei e Monserrato, prima di essere nominato a Burcei fino al 1926, ad Uta fino al 1960, dunque per ben 34 anni. Chiamato dai suoi parrocchiani su vicariu, è ricordato come uno dei sacerdoti più attivi del paese: era scultore, pittore, fotografo, falegname ed orologiaio. Oltre che cantautore, commediografo regista, coreografo, costumista: metteva in scena delle apprezzate commedie sarde con cui rallegrava le serate domenicali nel teatrino del Montegranatico e dell’oratorio del paese. In questa sede ci interessa esclusimavemte come autore di commedie: La prima opera teatrale di cui si ha notizia, In domu ’e su braberi, risale al 1932, ma non è azzardato affermare – scrive Franco Carlini, il pi noto studioso e conoscitore di Raimondo Fresia – che egli può avere operato come scrittore di teatro in un periodo anteriore a quella data, come farebbe supporre proprio la filodrammatica di Gergei. Fin dalla sua permanenza a Gergei, don Fresia aveva organizzato una filodrammatica, che considerava uno strumento importante per la sua opera pastorale perché gli permetteva di tenere impegnati, facendoli divertire, bambini e giovani e nel contempo soddisfaceva la sua passione per il teatro, una passione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Dopo In domu ’e su braberi scriverà poi Su flebotumu, (1933), Ita susuncu (1936), Pedru in Casteddu (1936), Su sabbatteri – ossiat poburu ma onorau ( 1936), Su sozzu ’e su Marchesu, (1936), Su D.D.T, Sa coo ’e su burricu, Mah…! Passienzia…!, Sa guardia municipali, Cuncu Allicu fait testamentu : tutte opere pubblicate. Ha scritto inoltre altre farse, di cui rimane solo il dattiloscritto in possesso di privati e sono: A sa subasta, (Farsa in un atto); Un servo originale, (Scherzo comico in un atto); Mi ’ollu fai santu (Farsa in un atto); Fillu miu sodrau, (“Atto unico in quattro quadri”). Ci rimangono inoltre dei frammenti di Monologo per la televisione, 1956-57 ; Su carnevali, 1959 circa;Commediola per bambini. Al teatro Fresia – annota ancora Franco Carlini – dedicava molto del suo tempo. Pochi i pomeriggi utesi della domenica in cui non organizzasse rappresentazioni teatrali, anche se non si trattava sempre di farse vere e proprie. D’altra parte la filodrammatica era impegnata lungo tutto il corso dell’anno con le prove e le recite, in un paese dove, come nei paesetti della Sardegna di allora, non c’era possibilità di altri intrattenimenti. Il 15 settembre 1960 fu trasferito da Uta a Cagliari, destinato cappellano nella chiesa di Sant’Efisio, dove morirà 15 Marzo del 1961. Sepolto nel cimitero monumentale di Bonaria, la sua salma fu traslata il 19 Maggio del 1970 nel cimitero di Uta, il paese dove aveva trascorso la gran parte degli anni del suo ministero sacerdotale e che gli dedicherà una via, in segno di affetto e riconoscimento della sua opera, non solo religiosa ed ecclesiale ma anche culturale e sociale.

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Efisio Vincenzo Melis

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Efisio Vincenzo Melis

di Francesco Casula

Efisio Vincenzo Melis nasce a Guamaggiore (Ca) il 6 gennaio 1889. Figlio di Giovanni Melis che anche sindaco di Guamaggiore per molti anni anche sindaco di Guamaggiore per molti anni – e di Anna Sirigu.
Di famiglia benestante – scrive Bruno Michele Aresu, uno dei più importanti studiosi del commediografo – proprietaria di un’azienda agricola. Una delle famiglie più benestanti del paese, una famiglia di messaius mannus o quanto meno di proprietarius pmattuccus, precisa Giulio Angioni, altro grande studioso di Melis.
Abilitatosi in Matematica, insegnerà prima a Cagliari, nell’Istituto tecnico-industriale e poi, per un breve tempo, in Veneto, in un Istituto superiore Per poi ritornare ad insegnare a Cagliari. Coltivando la sua passione per il teatro e scrivendo numerose opere teatrali, in sardo-trexentese.
Affetto da tubercolosi, a soli 33 anni morì il 16 maggio del 1922 a Cagliari.
Le sue opere più importanti sono: “Ziu Paddori” (1919), “Su Bandidori” del 1920 e L’Onorevole a Campodaliga del 1921, quest’ultima non conclusa a causa della sua precoce morte.
La più nota delle sue tre opere è Ziu Paddori, comunemente detta Sa cummedia de Paddori, in tre atti, rappresentata a Cagliari la prima volta nel 1912. Il locale allestito per la rappresentazione – ricorda Aresu – era un grande magazzino adibito a rivendita di ferro per fabbri, in Via Sassari. Melis si avvalse della Compagnia da lui fondata a Guamaggiore, i cui attori “storici” erano Vincenzo Naitza nella parte di Tziu paddori ed Efisia Fais in quella di Antioga, sua moglie.
Nel 1919 invece fu messa in scena al Politeama Regina Margherita di Cagliari. Protagonisti l’autore stesso e Rachele Piras Medas, capostipite della famiglia d’arte dei Fratelli Medas, che hanno rappresentato fino a oggi come parte importante del loro repertorio anche le altre due commedie del Melis: Su Bandidori, e L’onorevole a Campodaliga.
Nelle sue opere si mette in scena in particolare il contrasto (anche linguistico) tra città e campagna e tra isola e continente, con ironia e comicità che hanno fatto del personaggio di Ziu Paddori, come scrive Giulio Angioni, una sorta di maschera popolare del pastore sardo alle prese con l’irrompere della modernità, e poi del coinvolgimento dei contadini e dei pastori sardi nella tragedia della guerra del ’15-’18 (Su Bandidori). Questa scritta
La vicenda di questa commedia – scrive Sergio Bullegas, altro grande studioso del Melis e curatore di una bella edizione di Su Bandidori – “dovrebbe essere imperniata intorno alla figura del protagonista, su bandidori, ma è bene dire subito che una trama vera e propria non esiste: il sottotitolo di Commedia in tre atti, rimane un pretesto puramente formale. La commedia infatti, si regge sulla convivenza scenica di due mondi linguistici – quello sardo-campidanese e quello italiano – il cui scontro dà origine a una comicità tutta intessuta di gags, di qui pro quo, di equivoci verbali. In quest’ambito la figura del protagonista ha solo la funzione di innescare, con la sua lingua colorita, con il suo atteggiamento goffo e ingenuo d un tempo, la risata del pubblico”.
Mentre in L’onorevole a Campodaliga (campo di aliga: deposito di immondezza), l’ultima delle commedie, per la quale ha tratto sicuramente spunto dall’esperienza di suo padre sindaco, in qualche modo, a parere di Angioni, “è linguisticamente codificato il suo distacco di intellettuale diverso rispetto al «natio borgo selvaggio», che egli porta sulle scene, si può ben dire, solo come occasione di riso e divertimento”.

Presentazione del testo [Le due scene sono tratte dal Primo Atto della Commedia Ziu Paddori,, in tre Atti, a cura di Giulio Angioni, Edes, Cagliari, 1977, pagine 12-15].

Ziu Paddori è senza ombra di dubbio la farsa più nota e comunque più popolare fra tutte le commedie in lingua sarda: grazie anche al fatto che da un secolo circa oramai non solo è stata (ed ancora) rappresentata da attori professionisti e dilettanti ma anche trasmessa più volte in Radio e Televisione.
Durante tutto il Novecento ha dedicato molto a questa commedia e al personaggio di Ziu Paddori soprattutto la famiglia di attori “Figli d’arte Medas”. I Paddoris più noti sono infatti Antonino Medas, Mario Medas e suo figlio Gianluca Medas (di Guasila, dove è attivo un Teatro Fratelli Medas), la cui madre e nonna, Rachele, recitò con successo il personaggio di Antioga, moglie di Paddori, nelle prime rappresentazioni cagliaritane del 1919 al teatro Politeama.
La prima scena della commedia, che ha luogo in una stazione delle ferrovie secondarie sarde, a Suelli, si apre con Gervasio, un ricco commerciante torinese, snob, tronfio e spocchioso, che parla un linguaggio magniloquente e inamidato e che si lamenta perché in questa benedetta Sardegna an¬che i treni sono lenti e i suoi abitanti sono ignoranti che non si capiscono, gente rozza, supersti¬ziosa che parla un dialetto buffo ed incom¬prensibile.
Ma è nella seconda scena che si entra nel vivo della commedia: nella sala d’attesa della stazione ferroviaria Gervasio incontra Ziu Paddori, pastore di Guamaggiore, piccolo centro della Trexenta (il paese natale di Melis).
Iniziano un dialogo esilarante, caratterizzato da giochi linguistici e fraintendimenti: così i’ bil¬lettusu (biglietti) di Ziu Paddori diventano belletti ovvero quella sostanza che serve per abbellire il volto alle signore per Gervasio.
E quando Gervasio indica una specie di finestra dove poter fare i biglietti, Ziu Paddori capisce minestra.
Ma i fraintendimenti e i qui pro quo linguistici non riguardano solo Ziu Paddori e Gervasio ma anche Ziu Paddori e il figlio Arrafiebi, il soldato sardo espropriato della lingua materna e parlante un linguaggio mistilingue e ridicolo. Nella Commedia del Melis, il soldato Arrafiebi, figlio di Ziu paddori, rientra in paese in congedo. Alla stazione c’è ad aspettarlo il padre. Il miles gloriosus sardo, appena sceso dal treno si rivolge al padre e declama”Parde mio, io sono come Garibaldi l’eroe dei due mondi, ademputo il sacro dovere della patria, torro solitario ed errante nella mia casa”. Il padre che non ha capito nulla, risponde:”Intè Arrafiebi, gei essi torrai alliterau, fuedda fuedda fillu meu bellu”.

DEMISTIFICARE I SAVOIA: Vittorio Emanuele II, re galantuomo o rozzo beccaio?

 
Francesco Casula
di Francesco Casula
La storia sarda, (ma anche quella italiana) così come viene raccontata dai testi scolastici come dai Media in genere, quando non è falsa e falsificata, è una storia agiografica e mistificata. Segnatamente quella riguardante il cosiddetto Risorgimento e l’Unità d’Italia: con i “protagonisti” idolatrati e, cortigianescamente, esaltati. Non a caso, a loro (come ai loro pretoriani e amici) continuano ad essere dedicate, ubiquitariamente, Piazze, Vie, Monumenti, Scuole, Edifici pubblici, di qualsivoglia genere. A loro vengono affibiati epiteti vezzeggiativi: così Carlo Alberto,è re liberale; Umberto I, re buono: Vittorio Emanuele II, re galantuomo e Padre della Patria. A proposito di quest’ultimo non sembra essere d’accordo Lorenzo Del Boca*, storico, saggista e per 11 anni Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, piemontese di nascita e di formazione, a dimostrazione che l’onestà intellettuale , rimane tale a qualsisi latitudine e versante geografico venga misurata. Per Del Boca lungi dall’essere galantuomo sarebbe un rozzo beccaio, alludendo evidentemente al fatto che morto da neonato il “vero” Vittorio Emanuele (in seguito a un incendio che avrebbe ucciso con il bambino la stessa governante), la famiglia reale avrebbe sostituito il neonato con il figlio di un certo Tonca, che di mestiere faceva appunto il macellaio. A mio parere comunque, non è questo il problema: la critica all’osannato re galantuomo, che la storiografia ufficiale ha usato come un santino esemplare di un processo risorgimentale, deve essere condotta su altri versanti che conduce a un verdetto impietoso: il suo lascito è, per tutta l’Italia e non solo per la Sardegna, radicalmente negativo e, scrive Del Boca, “foriero di mali divenuti endemici”. Scrive ancora Del Boca:“Vittorio Emanuele II diventò re d’Italia quasi per caso e, certo, senza che lui lo desiderasse davvero. Altri erano i suoi interessi e le sue ambizioni. Gli eroismi – di cui si disse – fu protagonista, furono operazioni di maquillage e di millantato credito costruiti a posteriori, inventati di sana pianta o aggiustati in modo da sembrare onorevoli”. E prosegue:”Il suo principale impegno si riassumeva nel preoccuparsi dei propri affari disinteressandosi di quelli del governo. I sudditi naturalmente avevano la libertà di pagare le tasse che le ricorrenti “finanziarie” dell’epoca imponevano loro, in modo che lui avesse qualche occasione in più per rovistare nell’erario e prelevare quanto gli seviva. La lista civile a sua disposizione – cioè l’insieme dei beni economici – era la più alta fra i paesi del mondo conosciuto e, facendo un rapporto con il potere d’acquisto, mai eguaglita in nessun tempo. Gli zar costavano meno, costa meno la regina d’Inghilterra e le spese della Casa Bianca sono più modeste. Nel 1867 il suo appannaggio raggiunse la cifra di 16 milioni, pari al 2% del bilancio complessivo dello Stato. Aveva mantenuto tutti i palazzi di casa savoia, ma rastrellando regioni e cacciando i sovrani che le governavano, acquisì le proprietà di quelle dinastie e le tenne tutte per sé…Calcoli attendibili indicano che i suoi immobili, comprese le tenute di caccia, fossero 343”. Insomma uno famelico. Come e più dei suoi predecessori: penso in modo particolare a Carlo ferotze. Ma qui mi fermo. Ci saranno altre puntate, per raccontare – fra l’altro – la corruzione che regnava sovrana nel suo Palazzo: altro che re galantuomo! *Lorenzo Del Boca, SAVOIA BOIA,Piemme, Milano 2018

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Luigi Matta (1851 -1913 )

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA:Luigi Matta (1851 -1913)

di Francesco Casula

Luisu (Luigi) Matta nasce a Nuragus il 5 settembre 1851. Dopo alcuni anni
delle scuole elementari, per motivi economici, (l’estrema povertà della sua
famiglia) non potendo proseguire gli studi, lavora nella bottega del padre
che fa il fabbro e insieme fa il contadino. Nel contempo si dedica alla lettura
dei poeti in lingua sarda e rivela grandi doti di improvvisatore. La sua passione
per la poesia sarda lo porta a comporre, per passatempo, all’età di 25
anni, la sua prima canzone dedicata alla Vergine di Bonaria, in cui denota
già di padroneggiare il linguaggio popolare sardo insieme alla buona capacità
di verseggiatore. Intanto decide di farsi prete. Ma per ben due volte le
autorità ecclesiastiche lo respingono: dal collegio Salesiano di S. Pier d’Arena
prima e dal seminario d’Oristano poi. Finché lo accoglierà l’arcivescovo
di Cagliari, Vincenzo Gregorio Berchialla, lo stesso che lo ordinerà sacerdote
l’8 luglio del 1884.
Nello stesso anno viene nominato vicario a San Pietro di Pula (oggi Villa
San Pietro) e due anni dopo viene eletto rettore di Gergei, dove opererà, per
ben 27 anni, fino alla morte avvenuta il 23 aprile 1913 in seguito a una
lunga malattia, all’età di soli 62 anni. Tre anni prima era stato nominato
Canonico. Venne nominato Canonico ordinario con annesso privilegio dei
Protonotari Apostolici il 18 marzo 1910.
Fu oltre che valente oratore, eccellente poeta. Autore di molte composizioni
religiose (gosos, laudes) oltre della canzone di Bonaria già accennata, di una
seconda canzone dedicata alla medesima Vergine nel 1895, di una canzone
dedicata a S. Isidoro, e di una piccola commedia in versi dal titolo “l’Orfanella”,
inedita e di cui non abbiamo il testo.
Ma deve la sua fama soprattutto a due splendide poesie (S’angionedda mia
bella Conchemoru e Tottu in manu mia tengu duas rosas) che compaiono entrambe
nel suo capolavoro, la commedia Sa coia ‘e Pitanu, pubblicata il 15
giugno del 1910. Altre pubblicazioni seguiranno, postume, negli anni
1915,1922,1924,1928, 1938,1951. Ultime in ordine di tempo sono le pubblicazioni
a cura di Fernando Pilia nel 1957; di Silvio Murru (con bella traduzione
poetica a fronte) nel 2009 e di Gian Paolo Anedda nel 2010. A testimonianza
dell’interesse per questo memorabile affresco etnologico ed etnografico
che ebbe – e ancora ha – larga fortuna, specie nel Campidano. Ma
ebbe notorietà anche fuori dalla Sardegna e fu consultata persino da Antonio
Gramsci e Max Leopold Wagner.
Il motivo della pubblicazione è spiegato dall’Autore stesso nella presentazione
della prima edizione, rivolgendosi a is benevolus lettoris: Sa Coia de
Pitanu, chi deu hosi presentu in custa cumme-dia, sighia de una Farsa, non fiat
nascia po conosciri sa luxi de sa stampa, ma cumposta in is oras liberas po ricreazioni
propria. Depustis però chi, ancora manoscritta, hat fattu su giru de is
famiglias in Gergei e in medissimas ateras biddas, i esti istetia rappresentada
cun accoglienzia cortesa in is teatrinus socialis de Monserrau e de Gergei, hapu
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depiu cediri a is replicadas insistenzias de is numerosus e carissimus amigus mius,
is calis dda boliant pubblicada po donai a is compatriottus una lettura amena,
onesta e utili a su populu, scritta in su puru dialettu sardu, asuba de is usus e
costuminis antigus. (Il matrimonio di Pitano, che io vi presento in questa
commedia, seguita da una Farsa, non era nata per conoscere la luce della
stampa, ma composta nelle ore libere per ricreazione propria. Però, dal
momento che, ancora manoscritta, ha fatto il giro delle famiglie in Gergei e
in moltissimi altri pae-si, ed è stata rappresentata con cortese accoglienza
nei teatrini sociali di Monserrato e di Gergei, ho dovuto cedere alle ripetute
insistenze dei numerosi e carissimi amici miei, i quali la volevano pubblicata
per dare ai compatrioti una lettura piacevole, onesta e utile al popolo,
scritta nel puro dialetto sardo, secondo gli usi e costumi antichi).

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA,1 Carlo Setzu

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA; 1. Carlo Setzu.

di Francesco Casula

Carlo Setzu (seconda metà secolo XIX – ?)
Nasce a Pirri ( frazione di Cagliari ). Studioso di storia locale e scrittore. Entrò in seminario e divenne sacerdote. Diresse per alcuni anni il periodico Voce Mariana. Tra i suoi scritti La barbagia e i barbaricini (1911), Antico simulacro di Santa Maria Chiara (1917), Calendario storico descrittivo sardo (1918).
Ma in questa sede a noi ci interessa esclusivamente per la sua commedia CUNC’ALLICU * , Commedia di Quattro Atti, in dialetto meridionale sardo, recita il titolo nella copertina.
Ancora prima di essere pubblicata, la sera di Pasqua del 1929 viene rappresentata la prima volta a Pirri dove Setzu è nato, dalla Filodrammatica del Circolo giovanile cattolico Sacro Cuore, mentre la sera del 2 febbraio viene rappresentata a Quartu sant’Elena nel Teatro del Circolo Contardo Ferrini.
Nella breve presentazione, rivolgendosi Al benevole Lettore l’Autore così lo avverte: “Ho scritto questa commediola,allo scopo di lasciare alla nuova generazione, che si alleva sotto il civile e benefico impulso dei nuovi tempi, una pallida idea di quella che fu la Sardegna, coi suoi usi, coi suoi costumi, colle sue ridicole superstizioni, col suo dialetto semplice e rustico.
Il mio lavoruccio però non rappresenta che un tentativo per invogliare altri, più competenti di me, a portare un sassolino sul piedistallo purtroppo poco elevato, del teatro dialettale sardo. Quindi non ha pretese ma solo si affida al benevolo compatimento del lettore il quale, se non altro, potrà procurarsi un quarto d’ora di buon umore”.
Segue il luogo della composizione (Pirri-frazione di Cagliari) e la data 1930 – A. VIII. A indicare l’ottavo anno fascista.
Vedremo infatti che pur avendo come unico obiettivo quello di procurare un quarto d’ora di buon umore al lettore, in realtà la commediola è anche un panegirico del regime e del suo condottiero, protagonisti del cambiamento, del progresso e della evoluzione dell’Isola. Così infatti Setzu fa dire a uno dei suoi personaggi, GAVINO, il figlio medico di CUNC’ALLICU e a lui rivolto :”Fianta àtturus tèmpus cussus dde fostèti. Oi sa Sardigna est cambiada, poìta esti prus civili. Ita ndi boleisi accabai bosu. Si depèis rassegnài, poìta su mundu, est in evoluzioni, bollu nai, continuamenti progredèndi.Sa Sardigna nosta, in àtturus tempus, fiada cunsideràda cumente terra dde esilio, terra de sànguinarius, terra abbruxiada. Oi issa est’istètia portàda a livellu de is ateràs regiònis italianas, po opera de su grand’Omini chi règgidi sa sorti de sa Nazioni nosta :Benitu Mussolini” (Erano altri tempi quelli vostri. Oggi la Sardegna è cambiata perché è più civile. Cosa volete concludere voi. Dovete rassegnarvi, perché, voglio dire, il mondo è in evoluzione, e continuamente progredisce. La nostra Sardegna, in altri tempi, era considerata una terra di esilio, terra di sanguinari, terra bruciata. Oggi essa è stata portata allo stesso livello delle altre regioni italiane per opera del grand’Uomo che regge le sorti della nostra Nazione:Benito Mussolini).
*Cunc’Allicu: Cuncu (o Concu) è – scrive Giovanni Casciu, autore di un pregevole Vocabolario Sardu-campidanesu/Italiano – “una voce di rispetto che si usa rivolgendosi ai nonni o ai vecchi in genere, sempre seguito dal nome proprio”. In questo caso da Alliccu, diminutivo di Raffaele, dunque Raffaelliccu, di qui “Alliccu”, il nome del protagonista della Commedia.

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO

NAPOLITANO L’ULTRASABAUDO
di Francesco Casula
Da sempre si è favoleggiato di Giorgio Napolitano figlio di Umberto II. Un giornalista, certo Cristiano Lovatelli Ravarino lo ha scritto esplicitamente in un articolo il 5 marzo 2012 in cui parla della madre di Napolitano che, “dama di compagnia di Maria Josè, divenne amante di Umberto II, da cui sarebbe nato il nostro pargolo”. Penso che sia una fola e comunque non mi interessa: credo infatti che appartenga al genere gossip e scandalistico che tanto piace a certa stampa italica e a certa opinione pubblica decerebrata. Mi interessa (e indigna) invece l’essere lui stato un cinico ultrasabaudo, giustificatore dello sterminio piemontese nel Meridione, in nome dell’Unità d’Italia, celebrata come foriera “di magnifiche sorti e progressive” invece che fonte di disastri e infamie e di devastante colonialismo interno, consumato sulla pelle e sul sangue dei sardi e dei popoli del Sud. Ecco cosa dichiarava in veste di Presidente della Repubblica nel Discorso al Parlamento in occasione dell’apertura delle celebrazioni del 150ºanniversario dell’Unità d’Italia: “Fu debellato il brigantaggio nell’Italia meridionale, anche se pagando la necessità vitale di sconfiggere quel pericolo di reazione legittimista e di disgregazione nazionale col prezzo di una repressione talvolta feroce in risposta alla ferocia del brigantaggio e, nel lungo periodo, col prezzo di una tendenziale estraneità e ostilità allo Stato che si sarebbe ancor più radicata nel Mezzogiorno” Pare che poco abbia imparato da uno che avrebbe dovuto essere, in quanto comunista, un suo maestro. Mi riferisco ad Antonio Gramsci che ha scritto:” “Lo stato italiano è stata una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di briganti.” Molti furono, infatti, i paesi e le città che diedero un contributo in vite umane. Da ricordare prima di tutti il massacro di Bronte da parte di garibaldini comandati da Nino Bixio, e poi San Lupo ed altri paesi completamente rasi al suolo, Casalduni e Pontelandolfo che il Generale Cialdini fece distruggere ed incendiare dopo aver fatto trucidare i cittadini inermi. La crudeltà di quella che fu una vera e propria guerra civile, si manifestò anche con gesti disumani come l’esposizione in pubblica piazza dei cadaveri dei briganti o delle loro teste mozzate. E passi non aver ascoltato Gramsci, per lui troppo di sinistra, ma almeno da un giornalista moderato come Paolo Mieli, avrebbe dovuto imparare qualcosa. Ecco quanto ha sostenuto il prestigioso giornalista e storico :”Il Sud è vittima di una storia negata e con l’occupazione piemontese ha subito massacri e stupri indicibili, citando Pontelandolfo e Casalduni, i nazisti hanno imparato dagli italiani”. Ma tant’è: il pluripresidente ultrapatriottardo e statalista, giustifica tutto ciò in nome e per conto del superiore valore dell’Unità. Alla stessa maniera giustificò, anzi elogiò senza mezzi termini il brutale intervento dei carri armati di Mosca in Ungheria, parlando nell’VIII congresso del Partito comunista italiano, (che si tenne a Roma dall’8 al 14 dicembre 1956) e sposando totalmente la linea stalinista dettata dal segretario Palmiro Togliatti. Questa volta in nome dei superiori valori dell’URSS e dell’Unità dei Paesi Comuinisti! Qui mi fermo: ma occorrerà pur ritornare al suo novennato come Presidente della Repubblica, segnato da una serie di decisioni e comportamenti nefasti: il suo ruolo nella guerra alla Libia, il suo (vergognoso) no a Gratteri ministro della Giuistizia, la nomina di Monti capo del Governo ma soprattutto i suoi comportamenti e atti, per lo meno obliqui, nei confronti della trattativa Stato-mafia.
 
 
 
 
 
 
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Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita

Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita.

di Francesco Casula

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti”
nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916.
Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di Pirandello.
Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna” – con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.
Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.
Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.
Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.
Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di Ceux d’Arasolè).
Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.
Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni – il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.
Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.