Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita

Ricordiamo Francesco Masala a 107 anni dalla sua nascita.

di Francesco Casula

Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti”
nasce a Nughedu San Nicolò, nel Logudoro, in provincia di Sassari il 17 settembre 1916.
Dopo il liceo a Sassari si laurea a Roma con Natalino Sapegno con una tesi sul teatro di Pirandello.
Nella seconda guerra mondiale combatte prima sul fronte iugoslavo e poi sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Al termine del conflitto insegna per 30 anni Italiano e storia prima a Sassari poi a Cagliari. Per oltre 50 anni collabora con giornali e riviste, – fra cui con i quotidiani “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna” – con articoli di critica letteraria, artistica e teatrale, lui che chiamava con dispregio pisciatinteris (pisciainchiostro) i giornalisti.
Scrive anche per il periodico bilingue “Nazione Sarda”,nato nel 1977 e a cui collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leonardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola.
Il periodico – insieme ad altre riviste – si fa promotore di un Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) che elaborerà una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 Giugno del 1978 al presidente del Consiglio regionale da Francesco Masala.
Lo scrittore – che era il presidente del Comitadu pro sa limba – era sempre più impegnato sul fronte della difesa e della valorizzazione della Lingua sarda e dunque della necessità di introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, con la parificazione giuridica e pratica del Sardo con l’Italiano, ad iniziare dall’introduzione nelle scuole di ogni ordine e grado della Lingua sarda nell’insegnamento e nei curricula scolastici.
Nel 1951 vince il “Premio Grazia Deledda” e nel 1956 il “Premio Cianciano”. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue. Legato da amicizia e affinità politica con Emilio Lussu, Giuseppe Dessì e Salvatore Cambosu ma anche con Gian Giacomo Feltrinelli, è autore di una sterminata serie di libri. La sua fama si lega in eguale misura ai suoi versi e ai suoi scritti in prosa, ma il primo successo gli venne dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 Lamento e grido per la terra di Sardegna, quanto per la seconda di due anni dopo, Pane nero – che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo – e Il vento, una silloge pubblicata nel 1961. Quindi, nel 1968, il suo primo romanzo Quelli dalle labbra bianche, che verrà tradotto in ungherese e in francese (da Claude Schmitt per la casa editrice Zulma, con il titolo di Ceux d’Arasolè).
Nei primi anni Settanta ci sarà la trasposizione teatrale firmata da Giacomo Colli e realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo Sos laribiancos. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi traspone in un film, il romanzo tragedia della guerra, con il biancore mortuario delle nevi russe.
Nello stesso anno esce un’altra raccolta di poesie Lettera della moglie dell’emigrato. Nel 1974 si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie Storie dei vinti mentre nel 1976 per il teatro scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni – il dramma popolare bilingue Su Connotu (Il conosciuto). In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, Emilio Lussu, il capo tribù nuragico e Gramsci, l’uomo nel fosso. Sempre nel 1981 pubblica Poesias in duas limbas (Poesie in due lingue) tradotte in francese; nel 1984 Il riso sardonico (saggi); nel 1986 il suo secondo romanzo, Il dio petrolio, tradotto in francese con il titolo Le curè de Sarrok, ambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che secondo Masala avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.
Sempre nel 1986 pubblica il saggio Storia dell’acqua mentre nel 1987 la Storia del teatro sardo. Nel 1989 pubblica il suo primo romanzo in lingua sarda: S’Istoria (Condaghe in limba sarda) nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito) e poi nel 2000 con Sa limba est s’istoria de su mundu (La lingua è la storia del mondo) ancora la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori. Muore il 23 gennaio del 2007.

9 settembre: ANNIVERSARIO DI UN’ INFAMIA

9 settembre: ANNIVERARIO DI UN’INFAMIA

di Francesco Casula

ieri 9 settembre ricorreva l’Anniversario di un’infamia, di cui si macchiò ignominiosamente Vittorio Emanuele III (più conosciuto come Sciaboletta): la quinta. Dopo le due Guerre mondiali di cui fu grande ed entusiasta sostenitore, dopo il Fascismo, che volle al potere nominando Mussolini capo del governo, dopo le leggi razziali.
Ecco cosa fece il 9 settembre del 1943.
Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, dal punto di vista politico come militare – non esistendo più una unità di comando e di direzione – essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.
12 mila giovani sardi, anche giovanissimi (18-20 anni) furono internati nei campi di concentramento. Di questi pochissimi torneranno liberi in Sardegna mentre degli altri, ancora oggi non sappiamo niente. La Regione sarda in questi 80 anni non ha speso un soldo per fare ricerche negli Archivi militari per sapere dove e come sono morti questi giovani.
E’ il nostro Olocausto: che i libri di storia e i Media in genere, si guardano bene dal ricordare. L’Olocausto è sempre quello che riguarda gli altri, non noi sardi.

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

Claudia Aru: SARDA DONNA ARTISTA

di Francesco Casula

Claudia Aru incardina e incarna il suo essere donna e artista nell’essere sarda. La sua sardità infatti (o sarditudine che dir si voglia) sostanzia, corrobora e plasma la donna e l’artista che è in lei.
Donna decisa empatica brillante. Artista esplosiva intrigante poliedrica e versatile. Compone recita balla inventa. Canta e incanta. E’ affilata e creativa affabulatrice. Una completa e deliziosa cabarettista: se questa figura non fosse ridotta – come oggi rischia – a mero guitto che diverte e ispassia.
Sia ben chiaro, la componente ludica e scherzosa in Claudia Aru è presente: ma la sua attività/arte non può essere ridotta a puro divertissement e gioco. E’ sempre presente e sottesa la dimensione dell’engagement, dell’impegno, del messaggio, culturale e persino politico: mai insistito e predicatorio, spesso subliminale e in suspu ma talvolta anche esplicito diretto e aperto: invitante e persino incitante alla lotta per il cambiamento.
Un messaggio h identitario: ad iniziare dalla lingua sarda che utilizza. Di una identità dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Non immobile o primigenia o “autentica”: anche perché l’autoctono puro non esiste. Come non esiste un “terroir” identitario sicuro e definitivo, come per il vino. Gli umani – come le piante – hanno certo “radici”, ma insieme viaggiano cambiano sono ibridi creoli e multipli, figli di molte generazioni e di molte culture e di infiniti incontri: influenzati dal sangue e dalla storia tanto quanto dal loro libero mutare, abitare, imparare. Non esistono quindi identità blindate o troppo ingombranti. L’Identità che esiste è invece lo specchio fedele di stratificazioni culturali secolari su un potente sostrato indigeno che fa da coagulo.
L’Identità cui si rifà Claudia Aru – almeno questo ho capito, assistendo ai suoi Concerti, ascoltando le sue canzoni e leggendo i suoi testi – opera come un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre, di ricevere e di dare. Ciascuno è figlio della propria terra ma anche figlio del mondo intero. Occorre dunque partire dal “luogo della differenza” per riconoscerci e appartenerci e insieme da quel luogo, dal valore della diversità segnata da una storia dissonante e da arresti anche drammatici ma carica di significati millenari: ripartire, muovere per disegnare nel presente la nostra storia futura, il progetto della nostra terra.
L’Identità non è mai definitiva ma è da rielaborare continuamente. Da ricostruire in progress, secondo la logica del bricolage, nella dimensione di un grande blob che crea inedite adiacenze tra segni e simboli delle vecchie certezze e nuovi elementi mobili dai confini elastici. La purezza infatti è l’unico ingrediente che non dovrebbe mai entrare nella composizione del concetto di identità. Hitler che era nostalgico di quella famosa purezza della razza, perpetrò il più grande genocidio della storia. Essere identici significa essere unici: l’individuo è unico ma nello stesso tempo somiglia agli altri individui. La nostra diversità sta in questa unicità. Sappiamo da tempo che una identità chiusa e inaridita, perde il suo profumo e la sua anima. Un’identità è qualcosa che dà e riceve. In essa nulla è cristallizzato, definitivo. L’identità insomma è una casa aperta, che si ingrandisce e si arricchisce ogni giorno.
L’identità dunque non è un dato rassicurante e permanente ma è quella che diventa fatto nuovo, che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.
L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione, del contatto e della creolizzazione e, insieme, dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro.
Si muove sulla medesima dimensione la sua musica: antica e moderna insieme. Ricca di contaminazioni e ibridazioni. Come i suoi testi in cui fa ressa la tradizione e l’innovazione: tradizione vissuta e considerata – per usare il fulminante aforisma di Gustav Mahler, grande compositore austriaco – “come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
La caratteristica fondamentale di Claudia Aru è però l’ironia: quell’ironia che Lussu sosteneva essere “atavicamente sarda”. Emerge sempre nei suoi spettacoli e nei suoi Concerti e nelle sue canzoni: ma segnatamente quando utilizza la variante campidanese della lingua sarda. Perché essa s’impernia su una abitudine canzonatoria e ironica: meno sonora e sostenuta del logudorese, si presta infatti maggiormente alla beffa e al rapido motto. Essa infatti già di per se stessa risulta particolarmente adatta per esprimere la satira, il comico, l’ironico, il giocoso. Forse perché lo stesso dizionario di immagini, lo stesso lessico dei modi di dire e di schemi figurativi possiede già al suo interno idee e impressioni e suoni atteggiati dall’anima popolare nella forma del paradosso, della battuta, della satira. Questo spiega – fra l’altro – perché in sardo-capidanese sono stati prodotti capolavori come “Sa scomunica de predi Antiogu” e testi teatrali memorabili come “Bellu schesc´e dottori” di Emanuele Pili o “Ziu Paddori” di Efisio Vincenzo Melis.

AMENTENDE A ZUANNE FRANTZISCU PINTORE A 84 ANNOS DAE SA NÀSCHIDA

AMENTENDE A ZUANNE FRANTZISCU PINTORE
A 84 ANNOS DAE SA NASCHIDA

GIANFRANCO PINTORE
Il giornalista, saggista e scrittore bilingue e identitario (1939-2012)
Gianfranco Pintore nasce ad Irgoli (Nuoro) il 31 agosto 1939. Nel 1951 lascia la Sardegna. A Firenze frequenta il ginnasio, il liceo classico e si iscrive all’Università. Ha in testa un’idea: la laurea non serve per il mestiere di giornalista che vuol fare e fa gli esami che gli interessano: in Architettura con Ludovico Quaroni, in Scienze politiche con Giovanni Spadolini, di Giurisprudenza. Intanto, a partire dal 1962 fa il “volontario di cronaca” nella redazione fiorentina di “L’Unità” e nel 1965 è chiamato alla redazione centrale a Roma, per la quale lavora prima nella sezione cronaca e quindi in quella degli esteri. È inviato speciale e per un certo periodo corrispondente da Varsavia. Dopo le sue dimissioni da ”L’Unità” in seguito all’invasione della Cecoslovacchia, lavora nel settimanale “Mondo Nuovo” e quindi, a Milano, nel settimanale “Abc” come inviato e infine come redattore capo.
Nel 1973 stipula con la casa editrice Mazzotta di Milano un contratto per la redazione di un saggio che l’anno successivo è pubblicato con il titolo “Sardegna: regione o colonia?”. È lo studio del rapporto conflittuale fra la comunità di Orgosolo e lo Stato, giocato fra storia, tradizione orale, testimonianze, ed è anche la ricerca di quanto Orgosolo rappresentasse lo spirito dell’intera Sardegna, di quanto in altre parole la Sardegna potesse sentirsi rappresentata dal sentimento comunitario del paese, altrimenti e altrove descritto come “il paese dei banditi”.
All’uscita del libro decide di restare in Sardegna, come corrispondente di “L’Espresso” di Eugenio Scalfari prima e successivamente di “Tempo illustrato” di Lino Jannuzzi. Lavora anche per “La Nuova Sardegna” di cui fa l’inviato e conduce una serie di campagne di stampa. Quella per il bilinguismo e quella per la Zona franca gli costerà il licenziamento in tronco per richiesta esplicita di un dirigente di partito decisamente contrario e all’uno e all’altra. Dirige a Nuoro la prima, e per ora unica, radio libera bilingue, “Radiu Supramonte” e fonda a San Sperate il mensile “Sa Sardigna”, anch’esso bilingue.
Nel 1981 esce il suo romanzo in italiano Sardigna ruja, storia della contrastata industrializzazione forzata delle Terre interne della Sardegna che ha come effetto il sorgere di una banda guerrigliera che dà il nome al romanzo. A questo fa seguito, nel 1984, Manzela, romanzo in italiano sugli effetti che il conflitto fra codice italiano e legge consuetudinaria ha sulla vita di un giovane intellettuale e della sua compagna, Manzela (Mariangela).
Dalla seconda metà degli anni Ottanta alla prima metà del decennio successivo a Cagliari dirige il periodico del Partito sardo d’azione “Il Solco”. Nel frattempo, nel 1986, pubblica con Rizzoli Sardegna sconosciuta, un viaggio in cento tappe all’interno della civiltà dei sardi per raccontare a turisti curiosi l’altra faccia, quella più intima e insolita, di un’isola prevalentemente visitata per le sue spiagge (una seconda edizione, riveduta e corretta, è pubblicata, sempre da Rizzoli, nel 2001).
Nel 1989 il suo romanzo Su Zogu ottiene il premio Casteddu de sa Fae di letteratura n lingua sarda : in un futuro non molto lontano, in una Sardegna divisa tra Coste e Terre interne, un gruppo di giovani si ribella alla dittatura paternalistica imposta al centro dell’isola. Nel 2000, con il titolo La caccia, ne esce la traduzione in italiano.
Nel 1996, pubblica il saggio sul federalismo La sovrana e la cameriera, titolo evocativo del rapporto esistente fra l’autogoverno pieno che avrebbe dovuto realizzare i diritti storici della Sardegna in quanto nazione e l’autonomia storicamente realizzatasi in Sardegna.Tornato a Nuoro, dirige l’emittente bilingue “TeleSardegna”, per la quale cura anche il primo telegiornale in sardo, Telediariu, e fa l’editorialista per il quotidiano “L’Unione sarda”.
Nel 2002, pubblica il romanzo in sardo “Nurai”. Nel 2006, insieme a Natalino Piras e a Giulio Angioni, pubblica il volume Lula. Nel 2007 scrive un altro romanzo in lingua sarda Morte de unu Presidente, un noir che prende le mosse dall’assassinio del Presidente della Regione sarda. Sembra un omicidio a sfondo sentimentale ed è ben altro. Nel 2009 pubblica un altro romanzo in lingua sarda Sa losa de Osana (La stele di Osana).
Nel 2011 scrive il suo ultimo romanzo, Il grande inganno, in italiano.
Muore a Orosei il 24 settembre 2012, dopo una lunga malattia.

Frantziscu Cillocco

Frantziscu Cillocco bocchidu dae sos saboias.

di Francesco Casula

Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.
Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.
Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.
“L’invio dei tre commissari, secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).
Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).
Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo
aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).
Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)
A Osilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.
Una lotta che assume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).
I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano – vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” (6).
Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7).
Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche
del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la
qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.
Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno “l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.
A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono con 500 uomini armati.
Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.
Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.
“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell’esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell’imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” ( .
E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.
Negli ultimi mesi del 1799 c’era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).
Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull’irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All’uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che alla proclamazione della repubblica sarda.
Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.
Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10).
L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore
come il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”
La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi.
Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.
Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.
“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).
“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).
”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.
Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia e Carlo Felice in primis.
Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare!
Note bibliografiche
1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.
2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.
3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.
4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.
5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.
6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 156.
7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.
8. Bruno Anatra, Dizionario Biografico degli Italiani, Ed.Treccani, Volume 25 (1981).
9. Eliseo Spiga, La sardità come utopia – Note di un cspiratore, Cuec, Cagliari 2006, pagina 105.
10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino 1887, pagina 45.
11. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna- Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 159.
12. Fabritziu Dettori, Francesco Cilocco, un eroe dimenticato, in Sotziu Limba sarda, 10-5-2005.
13. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 847.

Fra Atlantide e la civiltà nuragica.

Fra Atlantide e la civiltà nuragica.

di Francesco Casula

Storici e studiosi sardi, in genere fuori dalla cerchia accademica, ma non per questo meno rigorosi, soprattutto da qualche anno, dedicano le loro ricerche alla storia nuragica: fra questi ricordo Sergio Frau, che da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo. Di contro, il Quotidiano la Repubblica, di cui è autorevole redattore, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia – di dominare sull’Isola. Ma con la Repubblica, unu grustiu mannu di accademici, archeologi, sovrintendenti, accecati dall’eurocentrismo e dalla xenomania, dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi, costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza. Che produce oro, argento, rame, ambra, formaggi, sale, stoffe, vini, vetro. E la musica delle launeddas. Una Sardegna organizzata in una confederazione di libere e autonome comunità nuragiche, mentre altrove dominano monarchi, faraoni e tiranni. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà e all’egualitarismo; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati. Una Sardegna, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che opprimono i popoli. Che a migliaia per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù, si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Finchè i Cartaginesi prima e i Romani poi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola.

Imposizione della lingua italiana e repressione della lingua sarda

Imposizione della lingua italiana
e repressione della lingua sarda.

(Ieri sera a Marina Residence- Flumini di Quartu- nel bell’evento organizzato dall’Associazione “Tra Parola e Musica” su CHE FINE HA FATTO LA LINGUA SARDA, una straordinaria ANNA BROTZU ha letto con maestria il seguente testo tratto dall’opera “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”)

La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italici di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi.
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi e i Savoia occorre rendere ufficiale la lingua italiana: loro che parlavano francese! Tanto che quando nel 1861, il 17 marzo, Vittorio Emanuele II diventa re d’Italia, nella proclamazione che ne farà Cavour in Parlamento, diventerà, in francese, roi d’Italie!
Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”.
Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini poverelli ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del cardinal Roberto Bellarmino e il Catechismo agrario, giacché l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna.
Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, – che per l’Isola significherà dessardizzazione – la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).
I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano storico, linguistico e culturale.
Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “italianizzazione” dell’intera storia italiana e della “snazionalizzazione” della Sardegna e dei Sardi.

AUTONOMIA FEDERALISMO INDIPENDENZA

AUTONOMIA
FEDERALISMO
INDIPENDENZA.

di Francesco Casula

1. Autonomia.
La visione autonomistica dello Stato, è ancora tutta dentro l’ottica dello Stato unitario e centralista – così come in buona sostanza è ancora disegnato dalla Costituzione repubblicana, – che al massimo può dislocare territorialmente spezzoni di potere nella “periferia” o, più semplicemente può prevedere il decentramento amministrativo e concedere deleghe parziali alla Regione, che comunque in questo modo continua ad esercitare una funzione di “scarico”, continua ad essere utilizzata come un terminale di politiche sostanzialmente decise e gestite dal potere centrale; che vede il rapporto Stato-Sardegna in termini asimettrici, di pura e semplice dipendenza, che prefigura da un lato l’accettazione di uno Stato coinvolgente e ancora totalizzante – nonostante qualche timido tentativo di “dimagrimento” – dall’altro la concessione di uno spazio di gestione amministrativa e politica del tutto ininfluente. Insomma, uno scambio ineguale, che pone la Regione in uno stato di marcata inferiorità.
2.Federalismo. .
La visione federalistica va oltre il decentramento.
E la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che per il primo la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata dalla periferia; per l’altro è invece divisa fra Stato federale e Stati particolari e ognuno la esercita di pieno diritto”.
La sovranità dunque è “divisa” fra Stato federale e Stati federati. Si tratta dunque di “frazionamento della sovranità”, ovvero di rottura e disarticolazionene dello stato unitario “nazionale” che deve dar luogo a una forma nuova di Stato di Stati, in cui “per Stati non si intendono più gli Stati nazionali degradati da Enti sovrani a parti di uno stato più grande, ma parte o territori dello stato grande elevati al rango di stati membri”: l’intera frase virgolettata è tratta da «Federalismo” di Norberto Bobbio, “Introduzione a Silvio Trentin».
In questa visione federalista il potere sovrano originario e non derivato spetta a più Enti, a più Stati e perciò scompare la sovranità di un unico centro, di un unico potere e soggetto singolare per far capo a più soggetti e poteri plurali. In questa visione la Regione cessa di essere la rappresentanza in sede regionale e periferica dell’Amministrazione statale per diventare l’Ente esponenziale della Comunità sarda.
3.Indipendenza.
Per Sardegna sovrana e indipendente intendo il suo diritto e la sua possibilità e capacità di realizzare l’Autogoverno, l’autodecisione, l’autogestione economica e sociale delle proprie risorse e del territorio, il diritto a usare e valorizzare la propria lingua e cultura, a gestire la scuola, i trasporti, il credito, le finanze e l’ordine pubblico, la possibilità di controllare i grandi mezzi di comunicazione di massa e dell’informazione, di fronte alla quale oggi la Regione è totalmente disarmata e niente può fare perché essi rispondano a criteri di uso democratico e socialmente utile. Il potere infine, nei settori fondamentali quali la difesa e i rapporti internazionali, di decidere in piena sovranità e autonomia.
Porre in questi termini la questione della Nazione sarda, significa a mio parere, pensare alla creazione di un nuovo Stato, separato dallo Stato italiano, in cui storicamente è stato incorporato.
Separazione che non significa isolamento e chiusura in se stesso, e neppure che, in prospettiva, possa rifiutare superiori livelli, anche istituzionali, di integrazione e di interdipendenza, necessari oggi per affrontare i problemi socio-economici, a dimensione continentale e mondiale, connessi:
⦁ alla diffusione delle nuove tecnologie e alla globalizzazione dell’economia e dei mercati;
⦁ al crescente grado di interdipendenza e di integrazione raggiunto dall’economia dei singoli paesi e delle singole aree e regioni;
⦁ al carattere europeo e internazionale assunto dai flussi e dallo scambio di materie prime, di prodotti manufatti, di tecnologie e di capitali;
⦁ all’importanza soverchiante che in tali condizioni acquistano le economie su scala e le imprese che non producono solo per il mercato locale ma per mercati più ampi e lontani.

MICHELA MURGIA : La Scrittrice

 

 

MICHELA MURGIA: La scrittrice

La vincitrice del Premio Campiello che sogna una Sardegna indipendente (1972-)

Nasce a Cabras nel 1972. Di formazione cattolica è stata educatrice[ ed animatrice nell’Azione Cattolica, ricoprendo il ruolo di Referente Regionale del settore Giovani. Ha ideato uno spettacolo teatrale rappresentato nella piana di Loreto al termine del pellegrinaggio nazionale dell’Azione Cattolica del settembre 2004, al quale ha assistito anche Papa Giovanni Paolo II.

Ma rispetto alla sua vita, ecco quanto lei stessa scrive nel suo Sito ufficiale: “Sono nata in Sardegna e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine. Mi sono diplomata in una scuola tecnica e dopo ho fatto studi teologici, ma questo non ha fatto di me una teologa, almeno non più di quanto studiare filosofia faccia diventare la gente filosofa. Non mi piace essere definita giovane, a 37 anni essere considerati adulti dovrebbe essere un diritto. Non fumo, non porto gioielli preziosi, detesto i graziosi cadaveri dei fiori recisi, i giornalisti che mi chiedono quanto c’è di autobiografico e gli aspiranti pubblicatori che mi mandano da valutare romanzi che non leggerò mai, perché preferisco di gran lunga i saggi. Sono vegetariana, ma so riconoscere le occasioni in cui si può fare uno strappo. Per etica politica mi definisco di sinistra, e nel mio ordine interiore quella parola ha ancora senso. Sono sposata, e questo mi ha resa una persona più trattabile, anche se mi rendo conto che a leggere questa biografia non si direbbe”

Nel 2006 ha pubblicato Il mondo deve sapere, la tragicomica storia di una ragazza al lavoro in un call center che ha poi ispirato il film di Paolo Virzì, Tutta la vita davanti.  Dal libro è stata anche tratta un’opera teatrale per la regia di David Emmer.

Michela Murgia racconta, con tono esilarante e con ironia,  la storia una ragazza laureata, Camilla, che trova impiego come telefonista presso il call-center di un’azienda che vende elettrodomestici porta a porta, offrendo una versione del precariato vissuto in prima persona, sulla propria pelle e dunque visto dall’interno.

Nel 2008 ha pubblicato Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede: ovvero oltre l’Isola oleografica delle cartoline e dei depliant turistici, rivelandone la storia, le leggende, i riti e le scaramanzie, il carattere della sua gente: una sorta di guida insomma ai luoghi meno esplorati di un’Isola. dai mille misteri a cominciare dai suoi abitanti, così diversi e dissonanti rispetto agli italiani.

Questa storia – scrive Murgia –  è un viaggio in compagnia di dieci parole, dieci concetti alla ricerca di altrettanti luoghi, più uno. Undici mete, perché i numeri tondi si addicono solo alle cose che possono essere capite definitivamente. Non è così la Sardegna, dove ogni spazio apparentemente conquistato nasconde un oltre che non si fa mai cogliere immediatamente, conservando la misteriosa verginità delle cose solo sfiorate.

Nel maggio 2009 ha pubblicato il romanzo Accabadora, una storia che intreccia nella Sardegna degli anni cinquanta i temi dell’eutanasia e dell’adozione. Il romanzo è uscito in traduzione tedesca nel 2010 per l’editore Wagenbach. Con questo libro ha vinto la sezione narrativa del Premio Dessì nel settembre 2009, il SuperMondello nell’ambito del Premio Mondello nel maggio 2010 e nel settembre dello stesso anno il Premio Campiello.

A proposito di Accabadora Angiola Codacci-Pisanelli, sul Settimanale L’espresso del 05-06-2009  scrive: “Sarebbe bello leggere ‘Accabadora’ di Michela Murgia (Einaudi) senza sapere cosa vuol dire il titolo, e scoprire insieme alla protagonista, Maria, qual è la professione segreta della sua madre adottiva, Tzia Bonaria Urrai. Sarebbe bello ma non si può: la quarta di copertina lo spiega subito. ‘Acabar’ in spagnolo significa finire, e nella Sardegna di ieri – e forse di oggi – ‘accabadora’ è ‘colei che finisce’, colei che porta al moribondo e alla famiglia stremati dall’agonia la ‘dolce morte’. Ma non è un libro sull’eutanasia, questo romanzo della Murgia, un’altra esordiente che la febbre di nomi nuovi lancia nelle librerie in questo 2009. Malgrado la foto funerea in copertina, c’è più amore che morte in queste pagine, e c’è uno stile che disegna ogni personaggio, ogni scena, ogni frase con l’accuratezza con cui Tzia Bonaria Urrai cesella le asole. Maria nasce, quarta figlia femmina non voluta, in una famiglia poverissima, cresce come “filla de anima” di una vecchia sarta che cuce per i clienti i vestiti della festa e, quando serve l’ultimo ‘cappotto’: lo dice lei stessa ridendo tra sé, con un umorismo che corre sottotraccia per tutto il libro. Quando intuisce di cosa la sua madre “de anima” vorrebbe farla erede, Maria fugge. Ma neanche Torino è abbastanza lontana, anche lì ci sono drammi segreti, amori impossibili, e il richiamo di un destino che diventa tale solo quando lo si accetta”.

Nel 2011 ha pubblicato Ave Mary, il libro, come ci tiene a sottolineare l’autrice, non è un saggio ma una conversazione con le donne e sulle donne. Contrariamente al titolo, non è un libro su Maria, ma proprio da Maria – madre di Gesù – trae spunto per discutere delle condizioni impari con cui la donna, attraverso i secoli, ha sempre dovuto combattere.

 

 

Presentazione del testo [tratto da Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009, pagine 3-9].

Maria «la quarta» femmina di una madre vedova, Anna Teresa Listru, per cui rappresenta un problema, un’ulteriore bocca da nutrire, l’errore dopo tre cose giuste più che una figlia da amare.  finisce a vivere in casa di Bonaria Urrai. Diventa così fill’ e anima  di Tzia Bonaria: una vecchia da quando era giovane, vestita di nero, vedova di un marito che non l’aveva mai sposata. Ma, per fortuna ricca. Perché se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima.

Ma perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che si fa fatica a comprendere a Soreni, di qui i commenti malevoli della gente, che accompagnano le loro camminate in quelle strade del paese che sembrano emerse dalle case stesse come scarti sartoriali, ritagli, scampoli sbilenchi, ricavate una per una dagli spazi casualmente sopravissuti al sorgere irregolare delle abitazioni, che si tenevano in piedi l’una all’altra come vecchi ubriachi dopo la festa del patrono.

Ma il mistero è presto svelato: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, per farla crescere e farne la sua erede, sottraendola alla povertà estrema della sua vera famiglia, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Maria abituata a pensarsi, lei per prima, come «l’ultima», è  sorpresa dal rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo.

Ma c’è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c’è un’aura misteriosa che l’accompagna, insieme a quell’ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce. Quello che tutti sanno è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa a chi è stremato dall’agonia. Ma Maria, inizialmente non lo immagina e non lo sospetta neppure. Quando lo scopre e se ne avvede segue il consiglio della maestra Luciana: Ti serve un’altra vita, dove nessuno sappia chi sei, di chi o di cosa sei figlia. Per ricominciare altrove, tagliarsi il cordone in un momento preciso dell’esistenza seclto da lei, senza levatrici né debiti apparenti.

E Maria fugge a Torino. Ma ritorna. Come richiamata da un destino che si accetta.

 

CAPITOLO PRIMO

“Fillus de anima.

È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.
Quando la vecchia si era fermata sotto la pianta del limone a parlare con sua madre Anna Teresa Listru, Maria aveva sei anni ed era l’errore dopo tre cose giuste. Le sue sorelle erano già signorine e lei giocava da sola per terra a fare una torta di fango impastata di formiche vive, con la cura di una piccola donna. Muovevano le zampe rossastre nell’impasto, morendo lente sotto i decori di fiori di campo e lo zucchero di sabbia. Nel sole violento di luglio il dolce le cresceva in mano, bello come lo sono a volte le cose cattive. Quando la bambina sollevò la testa dal fango, vide accanto a sé Tzia Bonaria Urrai in controluce che sorrideva con le mani appoggiate sul ventre magro, sazia di qualcosa che le aveva appena dato Anna Teresa Listru. Cosa fosse con esattezza, Maria lo capì solo tempo dopo.

Andò via con Tzia Bonaria quel giorno stesso, tenendo la torta di fango in una mano, e nell’altra una sporta piena di uova fresche e prezzemolo, miserabile viatico di ringraziamento.
Maria sorridendo intuiva che da qualche parte avrebbe dovuto esserci un motivo per piangere, ma non riuscì a farselo venire in mente. Si perse anche i ricordi della faccia di sua madre mentre lei si allontanava, quasi se la fosse scordata già da tempo, nel momento misterioso in cui le figlie bambine decidono da sole cosa è meglio impastare dentro il fango delle torte. Per anni ricordò invece il cielo caldo e i piedi di Tzia Bonaria nei sandali, uno che usciva e uno che si nascondeva sotto l’orlo della gonna nera, in un ballo muto di cui a fatica le gambe seguivano il ritmo.
Tzia Bonaria le diede un letto solo suo e una camera piena di santi, tutti cattivi. Lì Maria capì che il paradiso non era un posto per bambini. Due notti stette zitta vegliando con gli occhi tesi nel buio per cogliere lacrime di sangue o scintille dalle aureole. La terza notte si fece vincere dalla paura del sacro cuore col dito puntato, reso visibilmente minaccioso dal peso di tre rosari sul petto zampillante. Non resistette più e gridò. Tzia Bonaria aprì la porta dopo nemmeno un minuto, trovando Maria in piedi accanto al muro che stringeva il cuscino di lana irsuta eletto a cucciolo difensore. Poi guardò la statua sanguinante, più vicina al letto di quanto fosse sembrata mai. Prese sottobraccio la statua e la portò via senza una parola; il giorno dopo sparirono dalla credenza anche l’acquasantiera con santa Rita disegnata dentro e l’agnello mistico di gesso, riccio come un cane randagio, feroce come un leone. Maria ricominciò a dire l’Ave solo dopo un po’, ma a bassa voce, perché la Madonna non sentisse e la prendesse sul serio nell’ora della nostra morte amen.

Quanti anni avesse Tzia Bonaria allora non era facile da capire, ma erano anni fermi da anni, come fosse invecchiata d’un balzo per sua decisione e ora aspettasse pazientemente di esser raggiunta dal tempo in ritardo. Maria invece era arrivata troppo tardi anche al ventre di sua madre, e sin da subito aveva fatto 1’abitudine a essere l’ultimo pen­siero di una famiglia che ne aveva già troppi. Invece in ca­sa di quella donna sperimentava l’insolita sensazione di es­sere diventata importante. Quando la mattina si lasciava alle spalle la porta e stringeva il sussidiario verso la scuo­la, aveva la certezza che se si fosse voltata l’avrebbe tro­vata li a guardarla, appoggiata allo stipite come a regger­ne i cardini.

Maria non lo sapeva, ma era soprattutto di notte che la vecchia c’era, in quelle notti comuni senza nessun pecca­to a cui dare la colpa di essere svegli. Entrava nella came­ra silenziosamente, si sedeva davanti al letto dove lei dor­miva e la fissava nel buio. In quelle notti la ragazzina, che. tra i pensieri di Bonaria Urrai credeva di essere il primo, dormiva senza ancora conoscere il peso di essere l’unico.

Perché Anna Teresa Listru avesse dato la figlia mino­re alla vecchia, a Soreni lo si capiva anche troppo bene. Ignorando i consigli della gente di casa aveva sbagliato ma­trimonio, passando i successivi quindici anni a lamentarsi di quell’uomo che si era dimostrato capace di far bene una sola cosa. Con le vicine, Anna Teresa Listru amava lagnar­si di come il marito non fosse riuscito a esserle utile nem­meno in morte, avendo magari la buona grazia di crepare in guerra per lasciarle una pensione. Riformato per sua po­chezza, Sisinnio Listru era finito stupidamente come era vissuto, schiacciato come un acino nel torchio sotto il trat­tore di Boreddu Arresi, per cui faceva ogni tanto il mez­zadro. Rimasta vedova con quattro figlie femmine, Anna Teresa Listru da povera si era fatta misera, imparando a fare il bollito – diceva – anche con 1’ombra del campani­le. Adesso che Tzia Bonaria aveva chiesto Maria in figlia, non le sembrava vero di poter infilare tutti i giorni nella minestra anche due patate dei terreni degli Urrai. Se il prezzo era la creatura, poco male: lei di creature ne aveva ancora altre tre.

Perché invece Tzia Bonaria Urrai si fosse presa in casa la figlia di un’ altra a quell’ età, davvero non lo capiva nes­suno. I silenzi si allungavano come ombre quando la vec­chia e la bambina passavano per le vie insieme, suscitan­do code di discorsi a mezza voce sugli scanni del vicinato. Bainzu il tabaccaio si beava di scoprire come anche un ric­co, invecchiando, avesse bisogno di due mani per farsi pu­lire il culo. Ma Luciana Lodine, la figlia grande dell’idrau­lico, non vedeva necessità di procurarsi un’ erede per sop­perire a quello che poteva fare qualunque serva pagata bene. Ausonia Frau, che di culi ne sapeva più di un’infer­miera, amava chiudere il discorso sentenziando che nean­che la volpe vuole morire sola, e a quel punto nessuno di­ceva più nulla.

Certo, se non fosse nata ricca, Bonaria Urrai avrebbe fatto la fine di tutte quelle rimaste senza uomo, altro che prendersi una fill’e anima. Vedova di un marito che non l’aveva mai sposata, in altre condizioni sarebbe forse sta­ta bagassa, oppure suora di casa o di convento, con le im­poste sempre chiuse e il nero addosso finché avesse avuto respiro. A rubarle l’abito da sposa era stata la guerra, an­che se qualcuno in paese diceva che non era vero che Raf­faele Zincu sul Piave c’era morto: più facile che, furbo’ com’era, avesse trovato femmina lìe si fosse risparmiato il viaggio per venire a spiegare. Forse era questo il motivo per cui Bonaria Urrai era vecchia da quando era giovane, e nessuna notte a Maria sembrava nera come la sua gon­na. Ma di vedove di mariti vivi il paese era pieno, lo sape­vano le donne che sparlavano e lo sapeva anche Bonaria Urrai, per questo quando usciva ogni mattina a prendere il pane nuovo al forno, camminava con la testa alta e non si fermava mai a parlare, tornando a casa dritta come la ri­ma di un’ ottava cantata.

In quella decisione di prendere una fill’ e anima, la co­sa più difficile per Bonaria non era stata certo la curiosità della gente, ma la reazione iniziale della bambina che si era portata in casa. Dopo sei anni di notti passate a con­dividere l’aria di una sola stanza con le tre sorelle, era evi­dente che lo spazio che Maria considerava suo non anda­va oltre la lunghezza del braccio. L’arrivo nella casa di Bo­naria Urrai sconvolse questa geografia interiore; tra quelle mura gli spazi solo suoi erano cosi ampi che la bambina ci mise alcune settimane a capire che dalle porte delle molte camere chiuse non sarebbe comparso nessuno a dire «Non toccare, questo è mio». Bonaria Urrai non fece mai l’erro­re di invitarla a sentirsi a casa propria, né aggiunse altre di quelle banalità che si usano per ricordare agli ospiti che in casa propria non si trovano affatto. Si limitò ad aspet­tare che gli spazi rimasti vuoti per anni prendessero gra­dualmente la forma della bambina, e quando in capo a un mese le porte delle stanze erano state tutte aperte per ri­manere tali, ebbe la sensazione di non aver sbagliato a la­sciar fare alla casa. Una volta che si senti forte della nuo­va confidenza acquisita con quelle mura, Maria cominciò a mostrarsi via via più curiosa della donna che l’aveva con­dotta a viverci.

– Di chi siete figlia voi, Tzia? – disse un giorno, con la bocca piena di minestra.

– Mio padre si chiamava Taniei Urrai, era quel signo­re là …

Bonaria indicò la vecchia foto brunita appesa sopra il camino, dove Daniele Urrai impettito nel corpetto di velluto dimostrava forse trent’ anni, e tutto poteva sembrare alla bambina fuorché il padre della vecchia che aveva da­vanti. Bonaria le lesse l’incredulità sul viso roseo.

– Lì era giovane, io non ero ancora nata, – precisò.

– E mamma non ne avevate? – incalzò Maria, che evidentemente con l’idea che si potesse essere figlie di un pa­dre non aveva particolare confidenza.

– Certo che ne avevo, si chiamava Anna. Ma è morta tanti anni fa anche lei.

– Come mio padre, – aggiunse seria Maria. – A volte

lo fanno.

Bonaria rimase stupita da quella precisazione. – Cosa?

– Lo fanno. Muoiono prima che nasciamo -. Maria la

guardò paziente. Poi aggiunse malvolentieri: – Me lo ha detto Rita, la figlia di Angela Muntoni. Anche a lei suo babbo era morto prima.

Durante la spiegazione il cucchiaio si agitava nell’ aria come l’archetto di un orchestrale.

– Si, alcuni lo fanno. Ma non tutti, – disse Bonaria, os­servandola con un sorriso vago.

– Non tutti, certo, – convenne Maria. – Uno almeno deve rimanere. Per i bambini. Ecco perché i genitori so­no sempre due.

Bonaria annui, infilando a sua volta il cucchiaio nella minestra, convinta di aver chiuso il discorso.

– Voi eravate due?

Bonaria finalmente capi, e senza smettere di mangiare, parlò con il tono quasi casuale che aveva usato fino a quel momento.

– Si, eravamo due. Il mio sposo è morto anche lui.

– Oh. È morto … – fece eco Maria dopo un istante, indecisa tra il sollievo e il dispiacere.

– Si, – fece Bonaria a sua volta seria. – A volte lo fanno. Con il conforto di quella personale statistica, la bam­bina riprese a soffiare piano sulla minestra. Ogni tanto, sollevando gli occhi dai vapori del cucchiaio, incrociava quelli di Tzia Bonaria, e le veniva da sorridere.

Da quel momento, quando Bonaria usciva al mattino a comprare il pane, Maria prese ad aspettarla seduta al ta­volo della cucina con i piedi ciondoloni, contando in silen­zio i colpi della scarpa di gomma contro la sedia finché sa­peva i numeri. Intorno a tre volte cento Tzia Bonaria tor­nava, e allora prima di andare a scuola mangiavano pane caldo e fichi infornati.

– Mangia Maria, che ti crescono le tette! – cosi diceva Tzia, battendosi una mano sul poco seno rimastole.

Maria ridendo mangiava i frutti a due a due, poi corre­va in camera con i semi dei fichi ancora tra i denti a con­trollare, perché tutto quello che diceva Tzia Bonaria era legge di Dio in terra. Eppure in tredici anni che visse con lei, nemmeno una volta Maria la chiamò mamma, che le madri sono una cosa diversa”.

 

Giudizio critico

Valeria Parrella  nel Settimanale Grazia scrive: “Michela Murgia, attingendo alla potenza della letteratura, traspone il dibattito attuale su testamento biologico ed eutanasia in un universo mitico, donandoci la possibilità di tornare a pensarvi senza urlare, con la giusta forza e delicatezza”.

Mentre Paola Pittalis sul Quotidiano La Nuova Sardegna sostiene:”È lei, l’accabadora, la protagonista del primo romanzo di Michela Murgia. Sullo sfondo una questione etica, tra le più delicate e drammatiche che la modernità abbia prodotto. Senza che mai Michela Murgia, con grande eleganza, cavalchi il dibattito sull’eutanasia riferendosi a episodi della cronaca recente. […] Nel romanzo la scommessa etica diventa una scommessa narrativa e linguistica. Una narrazione senza idillio e senza retorica, senza luoghi comuni. Una lingua nitida, densa di aforismi e di ossimori, di immagini che colgono il segreto legame fra vita e morte”.

A sua volta Natalia Aspesi su la Repubblica a proposito di Ave Mary commenta: “Da un paio d’anni per fortuna c’è stato un risveglio di brontolii femminili colti, intelligenti, creativi, appassionati, impeccabili, sottoforma di saggi di successo […]. In questo fervore di scrittura femminile molto terrena, che chiama in causa i poteri contemporanei, la politica, la televisione, la pubblicità, le escort e le ministre con il tacco a spillo, appare finalmente il personaggio più inaspettato, umano e celestiale, antico ed eterno, celebre e sconosciuto, mitico e universale, da imitare e inimitabile: la Madonna. […] Ave Mary intreccia sapienza e ironia, Sacre Scritture e vita, non dando tregua a tutti gli e errori che credenti chic e atei devoti hanno scritto e soprattutto diffuso attraverso la televisione.

ANALIZZARE

Sbaglia chi pensasse che Accabadora sia un romanzo sull’eutanasia. Il tema del fine vita è collaterale, ha affermato la scrittrice in una intervista. Il tema centrale è invece la comunità. Che, nella sua scrittura torna sempre.

Credo – è sempre la Murgia ad affermarlo – che alla letteratura spetti il compito di restituire la realtà desiderata. Siccome vivo in un contesto in cui si tenta di isolare il singolo, reagisco raccontando storie in cui la comunità, al contrario, lo sostiene.

Storie emotivamente molto forti in cui  mette in stretto rapporto – come ha scritto Angiola Codacci- Pisanelli sull’Espresso – la modernità/attualità di relazioni e sentimenti con le tradizioni ancestrali di una terra, un’isola, che sembra ancora mantenere intatte usanze arcaiche e superstizioni antiche che sopravvivono ad ogni forma di progresso.

Fra queste ataviche usanze e tradizioni la scrittrice di Cabras rievoca e descrive, almanaccando, l’accabadora e il suo gesto amorevole e finale che pone fine alle sofferenze dei malati terminali, quasi fosse un ultima madre per chi invoca una morte liberatoria. Ma quando Maria intuisce una delle attività della sua madre de anima, Tzia Bonaria Urrai, scappa. Ma ritorna.

Come succede ai personaggi di molti scrittori sardi: pensiamo ai Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga, un universo di personaggi e figure, soprattutto di giovani, che, incatenati al villaggio, “a sa bidda” e alla “prigione” Sardegna, non vedono l’ora di evadere. E si allontanano ma poi ritornano.

Così Maria. Perché molte cose che credeva di aver lasciato sulla riva da cui la nave per Genova si era staccata a suo tempo,ritornavano una dopo l’altra, come pezzi di legno sulla spiaggia dopo una mareggiata…lentamente tornarono a uno a uno visi, voci e luoghi dell’infanzia in cui era cresciuta, e Maria si scoprì ad abitarli, senza chiedere permesso.

Il  rientro di Maria in Sardegna non aveva stupito nessuno. Perché «E’ il debito del fill’e anima», dicevano a Soreni come fosse un destino a cui era impossibile sottrarsi.

E per la madre carnale, Anna Teresa Listru quella figlia frutto del suo più grosso errore era ora mutata nel migliore dei suoi investimenti.

Accabadora è un romanzo bello e avvolgente, di grande impatto emotivo, incarnato dentro un contesto storico e ambientale preciso: la Sardegna degli anni ’50, ma insieme senza tempo. Un romanzo forte e drammatico, elegiaco e poetico, scritto con cura e accuratezza, con un lessico semplice e scabro, inframezzato da locuzioni in lingua sarda, che riesce a rapirti, emozionarti e incantarti. A tal punto che, segnatamente quando riesce a evocare storia e tradizioni, con i colori, i sapori e i profumi dell’infanzia, il lettore sperimenta e vive un’impressione di letizia, come se avesse attraversato un paese amabile e felice.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Madonna sovversiva

“In un’estate dove curiosamente scarseggiano i libri cult, compresi quelli da spiaggia, c’è un passaparola che corre fra le lettrici, in particolare quelle che hanno trovato (o ritrovato) il gusto di analizzare la condizione femminile, cioè la loro, e i suoi numerosi disastri. E forse per catturare l’attenzione ci voleva un’autrice insolita come Michela Murgia, entrata nell’olimpo letterario con la super premiata, «Accabadora», ma che si tiene alla larga da ogni star system e se apre bocca in qualche talk show riesce anche a dire qualcosa di intelligente. E intelligente, oltre che coraggiosa da parte di una “credente organica e non marginale” come lei stessa si definisce, è la scelta di “Ave Mary”, (Einaudi Stile Libero, pp. 166, e 16), rilettura dell’icona cattolica per eccellenza, la Madonna.
Mitizzata fino a farne scomparire l’umanità, è la tesi di Michela Murgia, Maria è stata usata dalla Chiesa attraverso i secoli per giustificare il dominio maschile, anche se non erano stati i preti ad inventarlo. Nella narrazione ecclesiastica la ragazza di Nazareth che accetta l’annuncio dell’Angelo diventa lo stereotipo della “donna che dice sì”, creatura docile e ubbidiente a quel che le viene chiesto: come moltitudini di sue simili dovranno fare nei confronti della famiglia e della religione. Ma di Maria e della sua vita ricca di sorprese c’è un’altra narrazione possibile. Proprio con quel sì a una gravidanza misteriosa, inaccettabile secondo l’ordine sociale dei tempi, la ragazza compiva una scelta sovversiva, proprio come sarà il messaggio del Cristo. Non è una Madonna in chiave femminista quella della Murgia, quanto una figura storica riletta attraverso i Vangeli e altri testi dimenticati da una chiesa che nel ‘900 aveva poi trasformato Maria «in una statuina da nicchia»“.

[ Chiara Valentini, L’espresso, 05/08/2011]

-La femina agabbad6ri : sacerdotessa del mistero

“C’è a Luras, in Gallura, un museo: Galluras. Il nome vorrebbe richia­mare «le Gallure», cioè le diverse parti di questa ampia cuspide della Sardegna che, pur omogenea nei costumi e nel linguaggio, si differen­zia nella configurazione geografica e nella dimensione storico-tradi­zionale. Tra gli altri oggetti del museo, su un cuscino ricamato fa bella (!) mostra di sé un martello di legno.

Era lo strumento di morte, il mazzuolo che la femina agabbad6ri (dallo spagnolo acabar,  «terminare»), usava per finire una persona sofferente che «non riusciva a morire».

Probabilmente l’arnese esposto nel museo è un modello, una copia di quello che era in realtà lo strumento di morte, ben più solido e pesan­te: chi scrive lo ha visto, più di una trentina di anni fa nelle mani di un centenario, nipote di una vera femina agabbad6ri. Era un rustico maz­zuolo di legno di olivastro stagionato, reso lucido dall’uso per essere passato negli anni in tante mani. Non un martello costruito da un arti­giano, ma un corto spezzone di ramo, lungo poco meno di trenta centi­metri, con una conferenza di circa 45. Il manico, corto e robusto, con­sentiva la presa sicura per assestare un unico colpo, pesante e deciso. Veniva usato, si dice, soltanto da donne forti, sempre e solo donne, vere «benefattrici» della piccola umanità dei paesi e delle campagne galluresi, quando sembrava che la morte, dispensatrice di quiete ma anche di estenuanti agonie, si divertisse a utilizzare tutta la sua trista cattiveria prolungando il tempo dello strazio. E allora, eccola lì, la donna della notte che accorreva al capezzale dei sofferenti per «mi­gliorare le condizioni del moribondo» favorendone il passaggio a  «miglior vita» , come affermano gli studiosi Alessadro Bucarelli (pre­maturamente scomparso qualche anno fa) e Carlo Lubrano, docenti all’Università di Sassari, nella loro opera Eutanasia ante litteram in Sardegna. Sa femmina acabbadora.

Di questi riti tribali come le accabadoras (o femina agabbadori, in gallurese) rimangono memorie e anche tracce. Queste “terminator” al femminile, si pensa abbiano agito fino alla metà del secolo XIX, anche se alcuni studiosi sostengono che in qualche parte dell’isola abbiano operato in data a noi più vicina.

Il filologo Zenodoto (vissuto nel III secolo a.C., ebbe da Tolomeo Fi­ladelfo l’incarico di bibliotecario e si occupò soprattutto di studi ome­rici) parla di una colonia di Cartaginesi, nominata da Eschilo, che, ve­nuta in Sardone (Sardegna), sacrificava a Saturno i vecchi ultrasettan­tenni. Il sacrificio veniva consumato mentre tutt’intorno la gente si ab­bracciava sorridendo come durante una festa: in simili occasioni pian­gere e disperarsi sarebbe stato per i Cartaginesi quantomeno disdicevo­le, se non addirittura sacrilego. Pare che proprio da queste lontane usanze derivi anche l’espressione “riso sardonico”: il riso forzato dei Sardi, il riso amaro dei vinti, per dirla con il poeta Francesco Masala,

Anche per lo storico Timeo di Siracusa (vissuto all’incirca tra il 356 e il 260 a.C.) sarebbe stato costume dei Sardonii far precipitare i parenti più stretti, diventati vecchi e sofferenti, dall’ alto di una rupe o dall’ orlo di una tomba già scavata, mentre i figli ridevano enfatizzando la finta felicità che provavano nel togliere la vita a chi l’aveva loro donata.

A questo punto, nell’impossibilità di datare con esattezza la fine di cotanta barbarie, non resta che prendere per buone, sempre restando nello statuto indefinito dell’ipotesi, le parole del «mio»  testimone cen­tenario che verrà presentato fra poco. Dalle sue dichiarazioni e da un conteggio all’indietro fino agli anni in cui la sua antenata   «avrebbe esercitato», si può approssimativamente desumere che l’opinione co­mune sulla datazione di questa pratica può coincidere con quella che risulta dalle affermazioni del centenario. E che l’«eutanasia nuragica»  – sempre negata – avveniva, in tempi non troppo remoti, anche nella civilissima Gallura. Così risulta dalla confessione sofferta del cente­nario cui ci si riferiva poc’anzi e che ripeto pari pari com’era avvenu­ta; già annotata, peraltro, nel mio Antica terra di Gallura”.

[Franco Fresi, La Sardegna dei misteri, Ed. Newton compton, Roma, 2010, pagine 101-102].

 

 

Lettura [brano tratto AVE MARRY – E la chiesa inventò la donna, di Michela Murgia, Einaudi editore, Torino, 2011, pagine 121-123]

Mi disegnano così

[…] Jessica Rabbit, che nel famoso film di Robert Zeme­ckis è la prosperosa e sensuale femme fatale moglie del co­niglio Roger, si difendeva dalle accuse di cattiveria con disarmante fatalismo: «lo non sono cattiva, è che mi di­segnano cosi! » Involontario manifesto di tutti i soggetti privi di voce propria, la felice battuta di Jessica contiene un’evidenza che si estende ben oltre il tratto di matita del cartoonist: quando si è impossibilitati a rivelare da soli la propria verità, è il modo in cui veniamo raccontati l’unica strada che ci rende intellegibili agli altri. Solo che spesso quella strada conduce da qualche altra parte.

Non esistono narrazioni prive di conseguenze: nem­meno la più innocente delle fiabe lascia il mondo come lo ha trovato. Se persino Cappuccetto Rosso è un affare serissimo, a maggior ragione devono esserlo i racconti su Dio, perché da quella narrazione passa da sempre anche la storia dell’uomo, della donna e del mondo in cui essi vivono. Questa accortezza va tenuta a mente soprattutto quando si raccontano storie ai bambini. È dalle storie che i bambini ricavano inconsapevolmente i codici segreti per aprire la cassaforte del mondo. Una delle prime storie che tutti impariamo è quella dettata dal contesto religioso in cui abbiamo avuto la ventura di nascere, una storia che passa anche attraverso le parole che sono state scelte per raccontarcela. Sul nostro accesso all’immaginario del racconto biblico ha infatti influito molto la traduzione di cui disponiamo, che in molti casi risente dell’intenzione cul­turale di chi l’ha costruita. Per esempio il termine greco diàkonos che si incontra spesso nelle lettere di san Paolo e che significa «servitore», nel testo biblico approvato dal­la Cei viene tradotto in due modi diversi a seconda che si riferisca a un uomo (allora diventa «diacono») oppure a una donna (che invece è tradotta come « collaboratrice»). È evidente che pur di non offrire materiale speculativo alle teorie sul sacerdozio femminile, in questo caso non si è esitato a tradire il testo paolino. Il famoso passo del profeta Isaia che viene ritenuto una profezia messianica – «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele» (Is 7,14) – contiene un altro esem­pio di traduzione eterodiretta, perché la parola almà, che in italiano e in greco viene resa con «vergine», in ebraico significa semplicemente «fanciulla, giovane donna in età da marito» e non vergine in senso biologico, che in ebrai­co si dice betulà. L’intenzionalità del traduttore in questa libera interpretazione del testo è sin troppo evidente ed è su quella secolare traduzione che hanno fondato la loro fede generazioni di donne e di uomini.

Le religioni di matrice biblica conoscono bene l’impor­tanza delle parole: il racconto biblico ci mette davanti a una realtà figlia di un Dio Narratore, perché è stata proprio la sua Parola potente a dare forma alle cose: tutto quello che chiamiamo realtà esiste perché Dio lo ha raccontato. Il suo è stato il più potente degli abracadabra, meraviglio­sa parola di origine aramaica che sembra significhi proprio «io creerò come parlo».

La storia biblica racconta che l’umanità è sorta «a im­magine e somiglianza» del suo Narratore, una espressio­ne affascinante e misteriosa che ha fatto diventare matte  generazioni di esegeti, perché immagine e somiglianza può davvero voler dire tutto e il suo contrario. È certo impor­tante stabilire cosa possa significare per l’uomo e per la donna essere a immagine e somiglianza di Chi li ha narra­ti per primo; ma interessa infinitamente di più indagare il processo inverso, ripercorrendo il complesso percorso che ribalta gli attori del racconto e trasforma Dio da soggetto narratore a oggetto narrato.

Dio ha raccontato l’uomo e la donna a sua immagine, ma gli uomini e le donne a immagine di cosa si sono raccontati Dio? Tutti i credenti sono a loro modo vittime delle false narrazioni su Dio. Qui interessano soprattutto le ferite che queste narrazioni hanno causato e continuano a causare alle donne, .a quelle credenti e anche a tutte le altre: dobbiamo capire le storie che hanno generato i mondi dove tutte abbia­mo dovuto prendere cittadinanza, spesso nostro malgrado. I credenti consapevoli del fatto che tradizione tradimento sono parole con la stessa radice comprenderanno bene che non si tratta di una ricerca speculativa: risponde al dovere di cercare rimedio alla sofferenza causata dalle narrazioni distorte che da sempre tentano di fondare su Dio ogni ge­rarchia di dignità tra gli uomini e le donne.

È certamente fondamentale smettere di fare a Nostro Signore lo stesso torto che ha subito Jessica Rabbit: quel­lo di essere raccontato per come non è. Ma è ancora più urgente invertire le narrazioni su di noi, perché spesso fi­niamo per definirci (o vederci definite) a immagine e so­miglianza del Dio che ci è stato cucito addosso. Indagare quelle storie, decostruirle e cercarne di alternative è un indispensabile atto spirituale e politico che non va lascia­to ai soli recinti specialistici: Dio è affare di tutti, giacché tutti siamo affar suo.

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

Prendendo spunto dal romanzo Accabadora approfondisci il tema dell’eutanasia e argomenta il tuo punto di vista anche in relazione ai fatti clamorosi che hanno riempito le cronache giornalistiche in questi ultimi anni (Caso Englaro ecc.)

 

Confronti

Come il protagonista dei Diavoli di Nuraiò di Flavio Soriga Gabriele Pintus, scappa dalla Sardegna per andare per le stradine d’Europa, ma poi ritorna a Nuraiò; anche Maria, la protagonista di Accabadora,  abbandona il suo paese, Soreni, per andare a Torino, ma anche lei rientra in Sardegna dopo poco tempo. Confronta le due “fughe” e i due “ritorni” individuandone analogie e diversità.

 

Ricerche (anche a mezzo internet)

Ricostruisci la figura dell’Accabadora in Sardegna, ricorrendo anche a Internet e alla ormai vasta documentazione e letteratura sul tema (in particolare vedi Eutanasia ante litteram in Sardegna, Sa femmina accabbadora di Alessandro Bucarelli e Carlo Lubrano, Scuola sarda editrice, Cagliari, 2003)

Spunti vari

-Analizza la figura della Madonna, così come viene delineata da Michela Murgia in Ave Mary.

– Il problema del precariato giovanile, oggi.

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

-Il mondo deve sapere – Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, IBSN edizioni, Milano, 2006.

-Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede, Ed. Einaudi, Torino, 2008

-Accabadora, Ed. Einaudi, Torino, 2009.

Ave Mary, Ed. Einaudi, Torino, 2011.

Opere sull’Autore

-Angiola Codacci-Pisanelli, Sotto il vestito della festa, L’espresso, 05-06-2009.

-Natalia Aspesi, Madre Nostra, dove sei nei cieli? Eva e Maria, così la Chiesa ha sacrificato la donna, la Repubblica, 21 Maggio, 2011.

Federica CoradduzzaMichela Murgia: “Viaggio in Sardegna. Undici percorsi nell’isola che non si vede” , Fonte www.einaudi.it. 2011.

Questo testo è tratto dalla mia “Letteratura e civiltà della Sardegna” (Ed. Grafica del Parteolla, volume II, Dolianova 2013, pagine 187-208) e costituisce il capitolo 13.

Riguarda la sua attività letteraria e le sue opere fino al 2013, anno in cui il volume è pubblicato.

LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA GIACOBBE E LA BANDIERA SARDA

LA GUERRA CIVILE IN SPAGNA
GIACOBBE E LA BANDIERA SARDA

di Francesco Casula

Dino Giacobbe, uno dei fondatori del Partito sardo d’Azione e già Presidente del Movimento combattentistico sardo “il 2 settembre 1937 partì dalla spiaggia di Santa Lucia (Siniscola) come volontario per combattere nella guerra civile in Spagna contro Franco,, come volontario.
Partito clandestinamente raggiunse così la Francia, governata in quel momento dal fronte popolare, con il proposito di proseguire per la Spagna dove la guerra civile si era trasformata in uno spaventoso scontro fra nazifascismo e democrazia. A guidare i nazionalisti spagnoli e la reazione era Francisco Franco, sostenuto da gran parte dell’esercito, dal clero e dai latifondisti. Da tutto il mondo convergono volontari per difendere la Repubblica spagnola con le nuove idee socialiste e libertarie, mentre fascisti italiani e nazisti tedeschi si schierano con i nazionalisti di Franco, inviando aerei navi ed eserciti, addestrati nell’uso di nuove armi micidiali che sperimenteranno proprio in Spagna.
La scelta di Giacobbe, sardista e antifascista, perseguitato dal regime e sorvegliato speciale, è naturale e scontata.
“Giunto a Parigi, alla redazione del settimanale Giustizia e Libertà, Giacobbe è messo al corrente del mutamento della situazione politica che si era verificato negli ultimi mesi in Spagna, all’interno del fronte democratico che nel 1936 aveva vinto le elezioni: i comunisti che allo scoppio della guerra civile erano una minoranza, ora detengono la leadership. Essi non vedono di buon occhio gli altri gruppi politici e li combattono apertamente e subdolamente. Per andare in Spagna occorre una sorta di loro lasciapassare” (dalla relazione di Simonetta Giacobbe – inedita – tenuta ad Alghero nella Prima Cunferentzia internazionale sentza istadu il 24-26 agosto 2012, Hotel Catalunya).
Mentre, sempre sull’arrivo di Giacobbe a Parigi, Gianfranco Contu scrive “Arrivato a Parigi Giacobbe incontrò Lussu il quale aveva già dato inizio alle trattative con alcuni massimi esponenti del PCI (Ruggiero Greco, Ilio Barontini, Giuseppe Di Vittorio) che avevano il vero potere sulle decisioni del comando della XII Brigata internazionale, da poco ribattezzata «Garibaldi». L’accordo definitivo era che Giacobbe doveva recarsi in Spagna, arrivare ad Albacete (centro di smistamento delle B. I.), controllare lo schedario, onde poter contattare i combattenti sardi, che volessero fare parte di una unità speciale tutta sarda, di artiglieria. Il 6 di novembre Giacobbe attraversò i Pirenei, con numerosi altri volontari, fra i quali c’era un suo carissimo compagno sardo, Cornelio Martis, anche lui emigrato antifascista, amico di Lussu e legato al Movimento «G. e L»”.
L’avventura di Martis, comune a quella di Giacobbe nella prima parte del viaggio, finirà tragicamente: vittima dei crimini commessi dal PCI durante la guerra in Spagna. Secondo il Partito comunista italiano, allora ferocemente stalinista, Martis sarebbe stato un ufficiale dell’esercito italiano e della milizia fascista (accusa risultata poi completamente falsa), una spia dell’OVRA e per questo sarebbe stato fucilato.
Giacobbe invece ebbe miglior sorte: ma fu sottoposto ugualmente a un controllo esasperato, tanto che gli misero al fianco per il viaggio un giovane miliziano iugoslavo, che ne sorvegliasse ogni mossa. Dai comunisti – ormai padroni della politica della Spagna repubblicana – non erano ben visti i giellisti, i socialisti, gli anarco-sindacalisti e, nel caso di Giacobbe, i sardisti.
Contrasti ebbe anche nella costituzione e nella denominazione della nuova formazione militare sotto il suo comando: una batteria anticarro che assieme ad altre due, una iugoslava e una francese avrebbe formato il 4° gruppo di artiglieria della XII Brigata.
Alla fine comunque, battezzata con il nome di «Carlo Rosselli» venne costituita e poté fregiarsi della bandiera rossa con la spada fiammeggiante, simbolo di «G e L» e con l’emblema dei Quattro Mori. Venne anche classificata come Batteria della «Nazione sarda», che pertanto risultava la 54° nazione combattente nelle Brigate internazionali.
Certo, non era il progetto iniziale di Lussu né di Giacobbe: che avrebbero voluto una legione, politicamente e militarmente autonoma, non una sezione di una legione internazionale. Comunque sia il fatto che fosse stato inserito l’emblema dei Quattro Mori sia che fosse classificata come batteria della Nazione sarda, poteva essere considerata una parziale vittoria.
La più brillante operazione bellica la fece il 9 giugno del 1938, riuscendo a bloccare (e in parte a distruggere) una colonna di carri armati nemici, che stava cercando di intrappolare il grosso della fanteria repubblicana in ritirata.
Gianfranco Contu ricorda che “Sarà anche l’ultima battaglia della batteria: in ottobre il governo Negrin decise (con una comunicazione della Società delle nazioni) di ritirare tutti i volontari stranieri, nella speranza, presto delusa, che anche i reparti inviati da Mussolini facessero altrettanto) e così le B. I. vengono smobilitate e costrette a lasciare il territorio spagnolo” .
Smobilitò anche Giacobbe e si avviò con la sua batteria al centro di smobilitazione di Torello nei pressi dei Pirenei, in attesa del passaggio in Francia. A questo punto è estremamente interessante quello che successe a Giacobbe in quel periodo di forzata inattività: partecipò a una serie di Conferenze-Dibattito. In una di queste, dedicata alla Riforma agraria – è sempre Contu a scriverlo – “Giacobbe espose un suo vecchio progetto di futura trasformazione pastorale della sua isola, nella quale si sarebbe dovuti tornare alla conduzione comunitaria delle terre e dei pascoli (si richiamava al periodo di «su connottu». Il suo interlocutore, un certo Ercoli (che in seguito doveva scoprire trattarsi di Palmiro Togliatti) era di parere totalmente opposto, in quanto sosteneva che la proprietà privata della terra e dei pascoli non doveva subire in Sardegna trasformazioni radicali anche a vantaggio della produttività…Togliatti comunque non si lasciò sfuggire l’occasione (con il cinismo che gli era proprio) per punzecchiare Giacobbe, dimostrandogli che di lui il PCI conosceva tutto e facendogli pesare i larghi margini che gli erano stati concessi in Spagna, solo perché era stato presentato da personaggi importanti come Grieco e Trentin”.
Poco ci mancava insomma che gli dicesse che senza quelle “raccomandazioni” avrebbe fatto la fine dello sfortunato Martis!