FESTE POPOLARI/ FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA: Il capodanno.

FESTE POPOLARI/FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA:
Il capodanno.

di Francesco Casula

L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata, storicamente, nel sopprimere ma nello stesso tempo nel recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste.

Tanto che oggi non esistono non solo Feste popolari ma scadenze liturgiche importanti che non presentino innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli: dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio o di San Francesco a Lula. Un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.

Iniziamo dal Natale. Con l’avvento del Cristianesimo gli antichi culti del solstizio invernale furono soppressi ma insieme recuperati riadattati cristianizzati: nel mondo cristiano di oggi infatti il momento di transizione segnato dal solstizio d’inverno coincide con le feste di natale e poi capodanno, Sant’Antonio ecc.

A proposito del capodanno, la chiesa dopo aver combattuto a lungo la festa di capodanno come festa solo laica e profana, ma soprattutto a forti caratteri precristiani l’ha inserita nel calendario cristiano, attribuendogli specifici significati religiosi.

Così il 31 dicembre con un Te Deum di ringraziamento, per i benefici ricevuti, celebra l’anno che si conclude, mentre il primo gennaio invoca il Veni Creator Spiritus perché illumini la Comunità nel corso del nuovo anno.0

IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA

IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA
di Francesco Casula
Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro in campagna. Il Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito, quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte ’e xena (notte della cena). In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle attività di ciascuna famiglia e, quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”, ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo». Proprio accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo. Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli aneddoti di vita narrati dagli anziani. In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù, cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di Natale”, Sa Miss ’e pudda, ovvero la “messa del primo canto del gallo”. In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa. Ne è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando, all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci, ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio secolare per scongiurare questi eccessi». In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si sono sposate nell’anno moribondo.
 
 
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L’ UNITÀ D’ITALIA? Contronatura

L’UNITA’ D’ITALIA? Contronatura.

di Francesco Casula

Scrive Francesco Abate nel suo ultimo bel romanzo*: ”Il maestrale è un vento metodico, soffia secondo sequenze dispari e mai pari. In genere, nel Sud dell’Isola, può imperversare per uno, tre o cinque giorni. Di rado si spinge a far sentire il suo freddo e possente respiro per una settimana di fila. Secondo gli esperti, da che si aveva memoria, solo nel 1861 si accanì con violenza su Cagliari, iniziando domenica 17 marzo e decidendo di farla finita addirittura nove giorni dopo. Sembrava volesse sradicare la città dalle fondamenta. Il fenomeno fu letto come un segnale di indisposizione della natura nei confronti delle scelte umane: il giorno prima sabato 16 marzo, infatti, dopo sei secoli il Regno di Sardegna era morto per fare spazio a quello d’Italia”.
Si dirà che si tratta di un romanzo. Certo. E se ormai a fare gli storici e gli storiografici seri, fossero rimasti solo i romanzieri, essendo gli storici di professione impegnati a mistificare la storia? Rendendola rassicurante e oleografica e, dunque falsa?
E come spiegare che anche molti intellettuali federalisti italiani sostengano, come Francesco Abate, che l’unità d’Italia sia stata “contronatura”?
Scrive Francesco Ferrara, siciliano di Palermo: “ La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica….ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.
E a proposito dei sardi e della Sardegna scrive: “La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato”.

*Francesco Abate, Il mistero della tonnara, Einaudi, 2023, pagina 287.L

LA STATUA DEL TIRANNO

LA STATUA DEL TIRANNO
di Francesco Casula
Continua a troneggiare, vestito da centurione romano, con elmo corazza e toga, con una statua in bronzo, di ben 4 metri, il tiranno Carlo Felice che da vicerè come da re fu crudele, feroce e sanguinario, famelico, e ottuso. Tostorrudu e isantalau: “più. ottuso e reazionario d’ogni altro principe, oltre che dappocco, gaudente parassita, gretto come la sua amministrazione”( Raimondo Carta Raspi). “Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava con le forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza. E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo” (Giuseppi Dei Nur, Buongiorno Sardegna: da dove veniamo, Ed. La Biblioteca dell’Identità, 2013, pagina 154). Fu “Alieno dalle lettere e da ogni attività che gli ingombrasse la mente” (Pietro Martini). Ovvero un “pigro imbecille” (Aldo Accardo, storico e accademico cagliaritano) E sempre Pietro Martini scrive: “Servo dei ministri, ma più dei cortigiani”, e “Nei consigli del principe prevaleva il principio del terrore e dell’arbitrio senza limiti”; ”La reazione oltremarina era una guarentigia del durare nell’isola con le grandi piaghe spagnole, e quindi con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo»”. “Divenuto re doveva mostrarsi più ottuso e reazionario di ogni altro principe” (Raimondo Carta Raspi). Più ottuso reazionario ma soprattutto sanguinario: la repressione e le forche durante il viceregno e regno di Carlo Felice ebbero come vittime soprattutto i seguaci di Giovanni Maria Angioy (pensiamo a Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda o ai martiri della Rivolta di Palabanda, impiccati e/o incarcerati) ma in genere i democratici e persino i liberali moderati. E finanche sacerdoti ed ecclesiastici. Bene il protagonista di queste belle imprese portentose sta ancora là, in Piazza Yenne a Cagliari, a dirci che, simbolicamente comanda e domina, ancora. Ma no est una bnrigongia manna che un tiranno e assassino come lui continui a troneggiare? Senza che né il Comune di Cagliari né la Regione sarda dicano e facciano qualcosa? Senza che nemmeno i cosiddetti Partiti di opposizione fiatino? Con quale faccia il 24 febbraio prossimo avranno il coraggio e l’impudenza di chiedere il voto dei Sardi permanendo la titulia (infamia) di Piazza Yenne?
 
 
 
 
 
 
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OSPITONE. CHI ERA COSTUI?

OSPITONE. CHI ERA COSTUI?

di Francesco Casula

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: la lettera (vedi Documenti) del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?
Se fosse stata “vinta e dominata per sempre” che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.
E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.
Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”(* ).
Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.
* Francesco Cesare Casula, Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132.OSPITONE. CHI ERA COSTUI?
di Francesco Casula
Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: la lettera (vedi Documenti) del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?
Se fosse stata “vinta e dominata per sempre” che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.
E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.
Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”(* ).
Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.
* Francesco Cesare Casula, Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132.

I negazionisti dell’identità

I negazionisti dell’identità
di Francesco Casula
Pervicacemente, molti studiosi perseverano nel negare l’identità sarda. O comunque pensano che debba essere “superata”. Tali “negazioniasti” sono per lo più allocati nelle Università: penso a un accademico cagliaritano che in un recente saggio ha scritto proprio che “il riconoscimento delle differenze deve preludere al loro superamento”. In genere coloro che negano l’identità ricorrono a un trucco maldestro: fanno dell’identità una caricatura, per poterla così più facilmente confutare. Ovvero la dipingono come immobile, ferma e ossificata nel passato; riducendola di fatto a una semplice spolveratina di tradizioni seadas e limba, (anzi :dialetti) o a folclorismo macchiettistico becero e banale. L’Identità invece di cui ragionerò, individuale e collettiva, sulla base degli studi più avvertiti, non è una realtà astratta, metastorica, statica, bensì concreta e dinamica: non naviga cioè nei cieli della metafisica ma cammina nella materialità corposa delle vicende e dei processi reali in cui si contamina, si trasforma e si costruisce-ricostruisce. A mio parere infatti occorre leggere e interpretare l’Identità non con le lenti logore di un’ideologia passatista, ma con un restyling concettuale nuovo e complesso che rifiuta e oltrepassa una improbabile visione museale. Ovvero un’impostazione che riproponga un cliché che la riduce a semplice recupero acritico del passato e delle sue tradizioni o del suo folclore; o a un attributo eterno e immutabile. Provocatoriamente sosterrei anzi che la visione puramente etnografica dell’identità, certifica la morte dell’identità stessa. E a proposito di “tradizioni” ricordo quanto scritto da Cesare Pavese nella prefazione a Moby Dich, romanzo dello scrittore e poeta statunitense Herman Melville, da lui tradotto in Italiano:Avere una tradizione è men che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla. E con un aforisma affilato e fulminante, il compositore austriaco Gustav Mahler in qualche modo integra Pavese stesso, scrivendo che “La tradizione deve essere considerata come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”. L’identità dunque si vive, nel segno della contaminazione e dell’appartenenza. L’identità è quella che si trasforma in questione operativa: che diventa progetto e l’appartenenza diventa storia, caricandosi di vita, suscitando conflitti, impegnandosi con le lotte a trasformare il presente e costruire il futuro. Un futuro di prosperità e libertà, autogoverno e autodeterminazione. I veri e importanti elementi di identità – ha scritto Salvatore Mannuzzu – che la tradizione ci consegna si perdono se non vengono investiti nell’oggi e nel diverso da noi: in qualcosa che con un termine ambiguo si chiama «il moderno». Anche se è vero che il moderno non ha portato il paradiso in Sardegna, tra industrializzazioni e programmazioni fallite, (insieme alla cosiddetta Autonomia); riforme agrarie nemmeno partite o comunque abortite, globalizzazioni solo patite, spaventose culture dei consumi, devastazioni ambientali, scolarità degradate, neocolonialismo galoppante: culturale e linguistico prima ancora che economico. Però hic rhodus, hic salta: questi sono i problemi che è necessario affrontare, non solo in Sardegna, anche se sulla Sardegna hanno un impatto specifico. Ma per affrontarli sono inadeguate le logiche de su connottu. E’ infatti giusto vederlo e considerarlo come uno spazio reale e simbolico di garanzia, ricco di valori costituiti dal patrimonio storico, archeologico, artistico, linguistico e culturale; ma non possiamo intenderlo come un semplice aschisòrgiu (tesoro) da custodire, senza investimento. L’identità va resa vera e reinventata giorno per giorno, come la vita: sa vida est naschimentu. E il popolo sardo è tutt’altro che compatto: si tratta di rimetterlo faticosamente insieme, con una ricerca collettiva di senso, che batta ogni paese e ogni campagna. Andando anche ben al di là dei confini dell’isola. E all’accademico cagliaritano ricorderei solo che, per chi non ha identità, per chi non è se stesso, in sardo nuorese si dice: est unu santu nemos e in sardo meridionale: est comenti a nixunu.
 
 
 
 
 
 
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Meana Sardo – “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” 01/12/2023

 
Gran bella serata in occasione della 175° Presentazione a Meana di “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”. Con tante belle persone interessate curiose e partecipi.
Un ringraziamento caloroso a chi ha permesso il successo dell’Evento: il bibliotecario Mario Faedda (che ha introdotto i lavori) e che in collaborazione con l’Associazione “s’Andala” ha organizzato la Presentazione, con la Presidente Annina Sanna (intervenuta nel dibattito) e Luigina Muggianu in prima fila,
Grazie anche all’Ammministrazione comunale con il Sindaco presente e partecipe con un suo saluto. Presenti anche altri due ex-sindaci.
Un sentito grazie a Eliano Cau che, come sempre, in modo egregio, ha presentato il mio libro.
A nde faghere ateras medas presentadas comente a cussa de Meàna!
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L’ammazzamento del viceré Camarasa: un episodio della storia sarda più famoso che conosciuto

L’ammazzamento del viceré Camarasa: un episodio della storia sarda più famoso che conosciuto.

di Francesco Casula

Durante la loro esistenza (dal 1355 al 1718/20) vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi , rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarasa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarasa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura «redemptor y restaurador de la Patria»? «Padre del Pueblo» o «amparador de los pobres», espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento”*.

*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.

Il Garibaldi di Cazzullo supera la retorica patriottarda di De Amicis

Il Garibaldi di Cazzullo supera la retorica patriottarda di De Amicis
di Francesco Casula
Povero Edmondo de Amicis: in quanto a mitizzazione e mistificazione di Garibaldi è stato superato da Aldo Cazzullo. Scrive De Amicis su Garibaldi : «Affrancò milioni d’italiani dalla tirannia dei Borboni […] Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano da lui da ogni parte […] Era forte biondo bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo» (De Amicis, Cuore, Garzanti, Milano, 1967, pagina 176). Su la7 Cazzullo (15-1-2023) celebra, retoricamente Garibaldi, fin dall’incipit della trasmissione, etichettandolo come “l’uomo più famoso del mondo” che ha compiuto, con i Mille in Sicilia, “la più folle ed entusiastica impresa di tutto il Risorgimento italiano”. “I governi lo temono” prosegue, perché “sanno che è capace di tutto”. Ma la vetta del panegirico (e della mistificazione cortigianesca) è: ”Ovunque ci sia un popolo oppresso, appendono il suo ritratto nelle case e gridano il suo nome nei cortei”. E ancora: ”I popoli lo invocano per essere liberati”. Un’occasione persa per la cultura italiana, che pure vorrebbe dominare la Sardegna: e con quale spocchia! Un vero peccato per Cazzullo e la storiografia risorgimentale ancorata viepiù alla retorica e agiografia patriottarda: che dimentica interra omette e nasconde le stragi, i massacri, le ruberie, le devastazioni compiute nella conquista, manu militari, del Sud da Garibaldi o comunque in nome e per conto di Garibaldi. Per ristabilire infatti con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe, messa da parte l’oleografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla e in moltissime altre località, vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai tiranni sabaudi: ancor più sanguinari e famelici. Altro che liberazione!
 
 
 
 
 
 
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Letteratura nazionale sarda ( Non letteratura regionale o dialettale)

Letteratura nazionale sarda
(Non letteratura regionale o dialettale)

di Francesco Casula

Quando naturalmente gli autori esprimono una condizione specifica sarda, per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici «realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.
Ovvero quando la produzione letteraria esprime una specifica e particolare sensibilità locale, “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.
O ancora – come scrive Antonello Satta – quando “gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.
Pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura, l’identità sarda continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.
Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde, scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.
A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale – non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…
Il mare divide e costringe: la letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.
Segnatamente per due ordini di motivazioni:
1.Il sardo non può essere considerato un dialetto;
2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia e dunque di letteratura italiana.
Da una analisi attenta della letteratura in Sardo potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.
Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”.