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Cicitu Masala, i Partiti Italiani e Lussu.
L’ uccisione del viceré Camarassa
L’uccisione del viceré Camarassa.
di Francesco Casula
Durante la loro esistenza vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi, don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.
Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarassa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarassa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura redemptor y restaurador de la Patria? Padre del Pueblo o amparador de los pobres, espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento.”*
*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.L’uccisione del viceré Camarassa.
di Francesco Casula
Durante la loro esistenza vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi, don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.
Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarassa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarassa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura redemptor y restaurador de la Patria? Padre del Pueblo o amparador de los pobres, espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento.”*
*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.
La morte del savoiardo.
Ancora esclusi tutti gli scrittori sardi, Deledda compresa!
ANCORA ESCLUSI TUTTI GLI SCRITTORI SARDI, DELEDDA COMPRESA!
di Francesco Casula
Cambiano i Governi ma la musica non cambia: prima Berlusconi poi i “democratici” (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) poi il giallo-verde di Lega e 5 stelle e poi ancora il Conte 2 e Draghi e oggi Meloni: ma gli scrittori sardi continuano ad essere esclusi dai programmi scolastici.
Sono infatti passati più di due decenni e la situazione è ancora quella cristallizzata dal DPR 89/2010 nel quale Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro dell’Istruzione, dettava le linee guida per i docenti, e definiva i fondamentali degli insegnamenti ritenuti strategici per le scuole superiori.
Nel documento ancora in vigore, per quel che concerne la poesia e la narrativa del ‘900 da affrontare nei licei, sono indicati a titolo esemplificativo diciassette autori principali a cui fare riferimento: “…si esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, …contemplerà un’adeguata conoscenza di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori come Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello”.
Avete capito?
C’è Meneghello (con tutto il rispetto per lo scrittore vicentino) ma non Grazia Deledda, unica Premio Nobel donna in Italia per la letteratura. Come non c’è un romanziere di levatura europea: Salvatore Satta.
E’ pur vero che il docente nella sua autonomia didattica può inserire nella sua Programmazione scolastica gli Autori che ritiene più validi. Ma quanti lo fanno? E comunque rimane immutata la scelta ministeriale, cieca e escludente gli Autori sardi.
Perché?
L’OLOCAUSTO SARDO
S’ISCOLA IN SARDIGNA
MATTARELLA E MELONI: due volti diversi dello stesso Stato (coloniale)
I pragmatici. I realisti.
I pragmatici. I realisti.
Di Francesco Casula
Li conosco tali soggetti. E sono molti. Spuntano come funghi soprattutto in occasione delle elezioni. E di fatis, millos mih!
Sono molti di quelli che volevano cambiare il mondo ma sono riusciti solo a cambiare se stessi. Adeguandosi allo stato delle cose presenti.
Sono molti di quelli che nel ’68 volevano fare la rivoluzione: spaccando tutto. In realtà sono riusciti solo a spaccare qualche vetrina.
Sono molti di quella generazione che sono passati da essere gramscianamente intellettuali “organici”, a organici solo a Ministeri e Enti inutili. E a Partiti, ugualmente inutili. Spesso anzi, dannosi.
Un’intera generazione di giovanotti che, una volta cresciuti, si sono sdraiati nei salotti del Potere: nel Parlamento e nella Banche; nei Giornaloni e nelle TV (di Stato o private poco importa). Negli Enti di qualsivoglia tipo e genere purché remunerativi in termini finanziari e di prestigio. E di potere.
Diventati pragmatici e realisti: amanti del quieto vivere, dello status quo intendo. Diventati pavidi. Ignavi: se vogliamo scomodare il Poeta fiorentino.
Diventati sostenitori del “Quieta non movere et mota quietare”. Con il pretesto che cambiare non si può, visti i rapporti di forza, visto il contesto.
Diventati sostenitori del compromesso: se si vuole entrare nelle istituzioni. Se si vuole governare. Contare. Gestire.
Non capendo che si governerà e si gestirà la miseria: la miseria del presente.
Sento ripetere anche da parte di molti giovani – invecchiati precocemente – che questo non è il tempo della testimonianza, degli ideali, delle utopie, dei sogni: bisogna essere realisti, pragmatici: ecco l’ossessivo mantra.
Bene: a questo gregge normalizzato e narcotizzato, con pervicacia oppongo – pur convinto e consapevole che si tratta di una vox clamans in deserto – una traiettoria esistenziale prima ancora che culturale e politica, opposta, radicalmente “altra” e antagonista. Reverde.
Voglio continuare a coltivare sogni idealità utopie. Seguendo il compianto Antonello Satta, gran giornalista e valente intellettuale sardo di Gavoi secondo cui “Chi nella vita non coltiva qualche utopia, è meglio che si dimetta”. Dalla vita ovviamente.
Voglio persino continuare a essere “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento, George Bernard Shaw, quando affermava che “l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli”.
Basta dunque con l’adeguarsi. Ma basta anche con il ripiegamento interiore, indotto dalla crisi e dalla sconfitta. E basta con il vittimismo intimista, con la lamentazione sterile e generica, con l’attesa passiva in cui ci si consuma a inghiottire il pianto, perché il passato è visto solo come gravame e il futuro come negatività spettrale.
No est gai.Mudare si podet. Bastat a lu cherrere.
FESTE POPOLARI/ FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA: Il capodanno.
FESTE POPOLARI/FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA:
Il capodanno.
di Francesco Casula
L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata, storicamente, nel sopprimere ma nello stesso tempo nel recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste.
Tanto che oggi non esistono non solo Feste popolari ma scadenze liturgiche importanti che non presentino innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli: dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio o di San Francesco a Lula. Un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.
Iniziamo dal Natale. Con l’avvento del Cristianesimo gli antichi culti del solstizio invernale furono soppressi ma insieme recuperati riadattati cristianizzati: nel mondo cristiano di oggi infatti il momento di transizione segnato dal solstizio d’inverno coincide con le feste di natale e poi capodanno, Sant’Antonio ecc.
A proposito del capodanno, la chiesa dopo aver combattuto a lungo la festa di capodanno come festa solo laica e profana, ma soprattutto a forti caratteri precristiani l’ha inserita nel calendario cristiano, attribuendogli specifici significati religiosi.
Così il 31 dicembre con un Te Deum di ringraziamento, per i benefici ricevuti, celebra l’anno che si conclude, mentre il primo gennaio invoca il Veni Creator Spiritus perché illumini la Comunità nel corso del nuovo anno.0