“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”

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“Sardegna, Ebrei e «razza italiana»”
di Emilio Lussu
Pubblico la parte più interessante di un articolo di Lussu sugli Ebrei, il fascismo e la Sardegna.
Chissà cosa ne penserebbe oggi il capitano dei rossomori sugli ebrei ieri brutalmente vittime vittime e oggi altrettanto brutalmente carnefici.
Notare una curiosità: a un certo punto gli “scappa”, quasi dal sen fuggita, la locuzione di “Una Repubblica sarda indipendente”. Per la verità anche in un’altra occasione utilizzò questa espressione, nell’opera “Diplomazia clandestina”. Noi invece sappiamo che Lussu è un federalista convinto non un indipendentista.
L’articolo è corposamente intriso dell’ironia lussiana, o meglio, come lui stesso riconoscerà, “Di quell’ironia che è sarda. E’ sarda atavicamente…”.
Giustizia e Libertà, 21 ottobre 1938
Le Journal des Débats pubblica, tra il serio ed il faceto, uno scritto in cui si attribuisce a Mussolini il proposito di relegare in Sardegna tutti gli ebrei italiani. Con i tempi che corrono, queste cose vanno prese sempre sul serio. Come sardo, nato in Sardegna e rappresentante di sardi, io mi considero direttamente interessato […] .
Così stando le cose, è troppo giusto che gli ebrei italiani vengano a finire in Sardegna: essi sono i nostri più prossimi congiunti. Per conto nostro, noi non sentiamo che pura gioia. Essi saranno accolti da fratelli. La famiglia semitica uscirà rafforzata da questa nuova fusione. Semitici con semitici, ariani con ariani.
Mussolini va lodato per tale iniziativa. Anche perché rivela, verso noi sardi, un mutato atteggiamento.
Nel 1930, davanti a un giornalista e uomo politico francese che gli aveva fatto visita, pronunziò parole e propositi ostili contro l’isola fascisticamente malfida, e affermò che avrebbe distrutto la nostra razza, colonizzandoci con migliaia di famiglie importate da altre regioni d’Italia. Egli mantenne la parola e popolò le bonifiche sarde di migliaia di romagnoli e di emiliani.
Ma, a difesa della razza sarda, vigilavano impavide le zanzare, di pura razza semitica. L’immigrazione ariana è stata devastata dalla malaria e ora non ne rimane in piedi che qualche raro esemplare superstite.
Con gli ebrei, sarà un’altra questione. Essi saranno i benvenuti per noi e per le zanzare fedeli, le quali saranno, con loro, miti e discrete come lo sono con noi.
Sardi ed ebrei c’intenderemo in un attimo. Come ci eravamo intesi con gli ebrei che l’imperatore Tiberio aveva relegato nell’isola e che Filippo II di Spagna scacciò in massa. Quello fu un gran lutto per noi.
Ben vengano ora, aumentati di numero. Che razza magnifica uscirà dall’incrocio dei due rami!
Per quanto federalista e autonomista, io sono per la fusione dei sardi e degli ebrei. In Sardegna, niente patti federali. I matrimoni misti si faranno spontanei e la Sardegna sarà messa in comune. E quando saremo ben cementati, chiederemo che ci sia concesso il diritto di disporre della nostra sorte. L’Europa non vorrà negare a noi quanto è stato accordato ai Sudeti. Una Repubblica Sarda indipendente sarà la consacrazione di questo nuovo stato di fatto. Il presidente, almeno il primo, mi pare giusto debba essere un sardo, ma il vice-presidente dovrà essere un ebreo. Modigliani può contare sul nostro appoggio che gli sarà dato lealmente. Penso che dovremmo respingere la garanzia delle grandi potenze mediterranee e svilupparci e difenderci da noi stessi. Se gli ebrei d’Europa e d’America vorranno accordarci la decima parte di quanto hanno speso in Palestina, è certo che la Sardegna diventerà, in cinquant’anni, una delle regioni più ricche e deliziose del mondo, la cui cultura non avrà riscontro che in poche nazioni avanzate.
Ciò non toglie che i nostri rapporti non possano essere buoni, inizialmente, anche con l’Italia ariana; ma, da pari a pari. Vi sarà uno scambio di prodotti, e noi potremo, data la ricchezza delle nostre saline, rifornire l’Italia ariana, specie di sale, che ne ha tanto bisogno.
Naturalmente, non accoglieremo tutti gli ebrei italiani. Ve ne sono parecchi che, per noi, valgono gli ariani autentici. Il prof. Del Vecchio [2], per esempio, noi non lo vogliamo. E vi saranno parecchi ariani di razza italica che noi terremo a fare semitici onorari. Problemi tutti che risolveremo presto e facilmente.
V’è la questione del re-imperatore che, come si sa, ha fatto la sua fortuna come re di Sardegna. Si ha l’impressione che il decalogo razzistico sia stato compilato anche per lui. Non esiste infatti nessuna famiglia, in Italia, meno italiana della famiglia reale: essa non appartiene più alla razza italica pura. Di origine gallica, i matrimoni misti l’hanno corrotta a tal punto che il sangue straniero vi è in predominio palese. E il principe ereditario, figlio di una montenegrina, è sposato con una belga-tedesca; una principessa con un tedesco, e un’altra con uno slavo-bulgaro. Ariani ma non italiani. La futura repubblica sarda sarà magnanima anche col re di Sardegna. Lo accolse l’isola, fuggiasco dall’invasione giacobina, lo accoglierà ancora una volta, profugo dal dominio ariano-italico. L’isola dell’Asinara gli sarà concessa in usufrutto fino all’ultimo dei suoi discendenti. E potrà tenervi corte, liberamente, a suo piacere.
Colpisce invece che, per restare alla stessa fase storica, sia pressoché assente nella nostra memoria collettiva la deportazione di qualcosa come 50.000 sardi, a seguito della spedizione di Tiberio Sempronio Gracco nel 237 a.C. o, secondo altri, a seguito di quella del nipote omonimo nel 175 a.C. Sono i “sardi venales”, sardi di poco valore economico, perché per la loro quantità fecero crollare il prezzo degli schiavi.
Perché in effetti la rimozione di quella lontana deportazione di 50.000 sardi fa compagnia all’oblio pressoché totale della deportazione di circa 290 sardi, tra politici ed ebrei, e di circa 12.000 internati militari sardi nei lager nazisti. E si trattava nella stragrande maggioranza di giovani. Una enormità di gente nostra allora e oggi. Fino a pochi anni fa, questa realtà restava totalmente sconosciuta ai più e, nel migliore e raro dei casi, il nome di una via in qualche nostro paese serbava il ricordo ormai smemorizzato.

Cicitu Masala, i Partiti Italiani e Lussu.

Cicitu Masala, i Partiti Italiani e Lussu.
di Franceco Casula
Cicitu Masala si iscrisse al PSI agli inizi degli anni ’60 per uscirne subito dopo, nel 1964, seguendo l’amico Lussu nel Partito socialista di unità proletaria. Questo Partito nacque in seguito alla scissione del PSI, accusato di aver tradito gli ideali socialisti, dopo l’ingresso nel Governo di centro-sinistra, voluto da Nenni e guidato dal democristiano Aldo Moro. Nello PSIUP fa parte del Comitato regionale: ma per poco tempo. Inizia infatti a muovere forti critiche alla forma-Partito e ai Partiti italioti in genere, per il loro rapportarsi con la Sardegna in forme di colonialismo politico e culturale.. “Presi coscienza – scriverà – che la scissione era stata un’operazione di vertice e, anche e soprattutto, che la dirigenza sarda dello PSIUP (purtroppo tutti figli e nipoti politici di Lussu) nella quasi totalità, altro non era che la filiale isolana della fabbrica politica italiota, cioè si limitava a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente: insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”. Scrive dunque una lettera a Lussu. Eccone alcuni scampoli:” I padroni del Partito, cioè i baroni delle tessere, hanno adottato una tattica adoperata in Sardegna già nel periodo dei Nuraghi: i cacciatori nuragici avevano scoperto che, riunendosi in gruppo, potevano cacciare meglio, cioè potevano procurarsi maggior cibo, nei territori di caccia. Naturalmente i moderni cacciatori, a differenza dei clan nuragici, non usano le clave ma le tessere. Esse le tessere contano più di qualunque corretta ideologia…esse le tessere procurano ai baroni un maggior peso e un maggior potere…dentro le riserve di caccia del Partito – continua la lettera – di necessità i clan devono darsi battaglia fra di loro, litigare insomma, per il maggior cibo, su futili pretesti ideologici e senza comprensibili motivazioni politiche: prima si stabilisce di essere contro e poi si inventano le motivazioni per cui si è contro. Così l’ideologia diventa aria fritta, nebbia, catrame e il Partito stesso diventa un cane che si morde la coda. Insomma questi baroni delle tessere fanno come il figlio Giove col padre saturno: per paura di essere divorati dal padre (il Partito), essi i figli espropriano il potere egualitario di tutto il Partito, cioè si divorano il padre. E non basta. I padroni del Partito, oltre a uccidere il padre, ammazzano anche la madre, la Sardegna, distrutta dalla logica del centralismo burocratico italiota. Caro Lussu – conclude Masala – c’è veramente del marcio in Danimarca!”. Lussu rimase molto male: Masala voleva distruggere, ammazzare la sua creatura prediletta: lo PSIUP sardo. Lussu, rispondendo a Masala che voleva portare al mattatoio tutti gli psiuppini sardi, afferma che li vorrebbe tutti in Consiglio regionale… Ormai il dissenso fra i due è totale, almeno per quanto atteneva al Partito. Masala riscrive a Lussu un’altra lettera che servirà a aumentare il solco profondo che ormai li separa, non solo in merito al Partito ma anche su altre questioni importanti. Scrive Masala: 1.Lo PSIUP in Sardegna come tutti gli altri Partiti italioti, è funzionale allo Stato accentratore; 2. L’Italia è uno Stato ma non una Nazione, mentre la Sardegna è una Nazione ma non è uno Stato; 3. La cosiddetta Autonomia è una perfetta Eteronomia; 4. L’esperienza sarda dimostra che lo stato, comunque esso sia è un nemico. Lussu risponde in modo secco e acre, quasi indispettito: in merito allo Stato ma non solo. Il modo in cui rievochi lo Stato – scrive Lussu – fa pensare che tu sia con gli anarchici non con Marx. Altrettanto secca è la nuova lettera di Masala:” A pensarci bene – scrive – l’ultimo e più felice stadio di una società comunista è l’anarchia, cioè una società di liberi e uguali, senza governanti e governati, senza dominatori e senza dominati, senza vincitori né vinti. Per conto mio – prosegue Masala – non sono per l’anarchia borghese ma per l’etnia egualitaria, cioè per una comunità etnica che produce beni materiali e culturali da distribuire in parti uguali. Se è vero come è vero che la proprietà privata ha creato il codice per legalizzare e sacralizzare le disuguaglianze, allora è vero che per desacralizzare la proprietà, per decodificare lo Stato è necessario ritornare alle etnie egualitarie. Inoltre Masala, pur sapendo che Lussu come una malabestia odiava il separatismo, conclude la lettera affermando che: ”A pensarci proprio bene l’Italia non è la nostra madrepatria ma è la nostra matrigna e non è più una donna giovane e bella, con la corona in testa, come appare nelle carte bollate postrisorgimentali, ma è una vecchia che puzza, non c’è quindi da addolorarci molto se l’etnia sarda comincia a prendere le distanze da questa salma”. A questo punto la polemica epistolare fra Lussu e Masala si interrompe. Anche perché in una ultima, provocatoria e “cattiva” lettera Masala ricorda a Lussu alcune posizioni del passato che a suo dire sarebbero in contraddizione con quelle del presente. In modo particolare un articolo contro le leggi antiebraiche in Italia, pubblicato in Giustizia e Libertà del 21-10-1940, in cui il cavaliere dei Rossomori aveva parlato di Repubblica sarda indipendente. Nonostante le scaramucce epistolari rimarrà comunque intatta la stima e l’ammirazione di Masala nei confronti di Lussu. Dopo l’esperienza politica nello PSIUP Masala – è lui stesso a sottolinearlo più volte – non aderirà più ad alcun Partito politico e sarà un libero cane sciolto. Con l’esplosione del Movimento del ’68 simpatizzerà con gli studenti e gli extraparlamentari ma anche a loro rimprovererà forme di colonialismo politico: con l’importazione in Sardegna di gruppi e gruppuscoli da Milano e altre città italiane e relativi programmi e proposte. La sua battaglia politico-culturale (scriverà oltre saggi, romanzi, poesie, moltissimi articoli su Quotidiani e riviste, in modo particolare nel periodico Nazione sarda, con Lilliu, Eliseo Spiga, Antonello Satta, Elisa Nivola) sarà sempre più incentrata nella difesa della lingua sarda e dunque nella rivendicazione del Bilinguismo perfetto. Lingua sarda – nei nostri frequenti incontri e discussioni, me lo ripeteva fino all’ossessione – la cui salvezza e salvaguardia dipendeva soprattutto dal suo insegnamento, come materia curriculare, nelle scuole di ogni ordine e grado. Non aderirà neppure ai Movimenti e Partiti indipendentisti: pur essendo ormai la sua posizione di critica radicale all’Italia (un cadavere che puzza) da cui dunque occorreva allontanarsi al più presto.
 
 
 
 
 
 
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L’ uccisione del viceré Camarassa

L’uccisione del viceré Camarassa.

di Francesco Casula

Durante la loro esistenza vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi, don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.
Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarassa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarassa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura redemptor y restaurador de la Patria? Padre del Pueblo o amparador de los pobres, espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento.”*
*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.L’uccisione del viceré Camarassa.
di Francesco Casula
Durante la loro esistenza vi furono tentativi ricorrenti degli Stamenti di rivendicare e di assumere più ampi poteri. Come in tutta Europa del resto, i Parlamenti lottavano contro i re/principi che invece tentavano di instaurare il loro potere assoluto.
L’episodio di maggiore frizione e conflitto fra il Parlamento sardo e il sovrano spagnolo avvenne nel 1655, quando gli Stamenti posero al sovrano una condizione secca: noi approviamo il donativo quando e se voi approvate le nostre richieste.
Fino ad allora il Parlamento che si riuniva ogni dieci anni, aveva posto il problema delle richieste ma slegate dall’approvazione del donativo. Ora invece è intransigente: senza l’accoglimento di ben 25 richieste, il donativo non verrà approvato.
Protagonisti di quel Parlamento sono l’arcivescovo di Cagliari (che era anche capo della Chiesa sarda) e soprattutto il marchese di Laconi, don Agustin de Castelvì, «prima voce » dello stamento militare, che viene inviato a Madrid per spiegare (e convincere) il re in relazione alle richieste del Parlamento.
Contrariamente all’uso dell’invio di un rappresentante per ogni stamento, don Agustin fu mandato lui solo a capo della delegazione, a riprova della fiducia che l’intero Parlamento, finalmente unito, salvo un gruppo nettamente minoritario, riponeva in lui.
Rimarrà per un anno a Madrid: resistendo a ricatti, minacce e lusinghe. Tentò anche forti mediazioni, riducendo le richieste da 25 a 5: una di queste non era altro che l’habeas corpus, cioè il principio secondo il quale nessuno può essere imprigionato senza il mandato di un giudice e sulla base di un reato definito; l’altra, molto più rilevante ai fini economici e sociali delle classi privilegiate che il Marchese di Laconi rappresentava, era quella della riserva ai residenti in Sardegna di tutte le cariche, civili, religiose e militari.
Il Governo di Madrid, naturalmente, respinse le richieste, non solo per una questione di merito ma di principio: non poteva accettare la tesi dello scambio (donativo per approvazione richieste) perché in qualche modo avrebbe significato mettere in una situazione di parità il regno di Sardegna con quello di Spagna.
Di più: al suo ritorno in Sardegna agli inizi del 1668 il viceré Emanuel Gomez de los Cobos marchese di Camarassa, destituì il marchese di Laconi e il 24 maggio sciolse il Parlamento stesso. Circa un mese dopo, nella notte fra il 20 e il 21 giugno il marchese di Laconi fu ucciso. Il delitto, fu fatto ricadere sulla corte viceregia. E comunque un mese dopo fu assassinato anche il viceré Camarassa. Furono accusati la moglie e il suo amante, Salvatore Aymeric, cadetto dei conti di Villamar.
Uno scontro fra il viceré, il suo autoritarismo e il parlamento? E in particolare con il Marchese di Laconi, invero un po’ ribelle e bandolero ma caduto per la difesa degli interessi dei naturales sardi, di tutti indistintamente? Addirittura redemptor y restaurador de la Patria? Padre del Pueblo o amparador de los pobres, espressioni che risultano da alcuni documenti dei giorni seguenti il delitto? Questo è il don Agustín che si vuole accreditare presso l’opinione pubblica. In realtà si tratta di un conflitto fra gli interessi delle classi privilegiate sarde e il Governo di Madrid che non vuole rinunciare minimamente al centralismo del suo potere e del suo dominio.
In altre parole, comunque: ”Non è certo possibile ricondurre questi episodi a un consapevole progetto di affermazione autonomistica e ‘nazionale’ dell’isola nei confronti della Spagna, ma essi sono comunque il segno di una monarchia non più vincente sul teatro politico e militare europeo in piena decadenza economica e civile, e che non ha più argomenti sufficienti per far accettare senza reazione le sue pretese centralistiche. E non può più offrire alle aspirazioni di affermazione delle élites, e forse dell’intera società sarda, un orizzonte di adeguato appagamento.”*
*A. Brigaglia A.Mastino G.G. Ortu, Storia della Sardegna 3, Editori Laterza, Roma-Bari 2002, pagina 31.

La morte del savoiardo.

La morte del savoiardo.
di Francesco Casula
Di fronte alla morte, a tutte le morti è doveroso il “parce sepulto”. E persino la pietas cristiana, per i credenti. Ma, per cortesia senza dimenticare le gravissime malefatte del morto in questione. E’ stato accusato di avere ucciso un giovane studente tedesco Dirk Hamer. E’ pur vero che è stato assolto. Ma è anche vero che lo stesso Vittorio Emanuele in una intercettazione si vanterà di “aver imbrogliato” la Giustizia francese. Si tratta comunque di un plurinquisito e plurindagato: per commercio internazionale di armi. E’ stato iscritto alla P2: l’organizzazione politico-mafiosa e golpista. Intervistato da una TV ha rifiutato di chiedere scusa per le infami Leggi razziali emanate dal nonno Sciaboletta: a tal punto che persino il figlio Filiberto glielo rimprovererà. Nei confronti dei sardi si è sempre espresso con insulti infamanti e razzistici:””Sono capre”, “puzzano e basta”. Ha avuto l’impudenza, con l’intera famiglia di iniziare una battaglia legale per riavere indietro i gioielli custoditi in un caveau di Banca d’Italia. Come se quei preziosi fossero frutto del loro lavoro e non del sudore e del sangue dei sudditi, dei Sardi in particolare, sfruttati e angariati per ben 226 anni (1720-1846) Dimenticandosi che quando vennero in Sardegna, la prima volta, tartassavano i Sardi di tasse spropositare e al di fuori e contro qualsiasi legge e consuetudine. Succederà così che con il re Carlo Emanuele nel 1799 (sbarcato a Cagliari, il 3 marzo come esule in quanto cacciato da Napoleone che aveva occupato il Piemonte), il Donativo sarà addirittura triplicato, senza convocare il Parlamento, passando da 200.000 lire sarde a 600.000 lire sarde, così suddiviso: 227.000, per la Corte, 35.000 per il re, 18.000 spillatico per la regina, 10.000 per la principessa Felicita, 95.000 per il duca d’Aosta, 60.000 per il duca di Monferrato, 40.000 per il duca del Genovese, altrettante il conte di Moriana e 75.000 per il duca del Chiablese” . Buon sangue non mente: il discendente dei tiranni sabaudi, famelici e sanguinari, si muove esattamente come loro, nell’arco di tutta la sua vita: fra titulias e disacatos, infamie e crimini.
 
 
 
 
 
 
 

Ancora esclusi tutti gli scrittori sardi, Deledda compresa!

ANCORA ESCLUSI TUTTI GLI SCRITTORI SARDI, DELEDDA COMPRESA!

di Francesco Casula

Cambiano i Governi ma la musica non cambia: prima Berlusconi poi i “democratici” (Monti, Letta, Renzi e Gentiloni) poi il giallo-verde di Lega e 5 stelle e poi ancora il Conte 2 e Draghi e oggi Meloni: ma gli scrittori sardi continuano ad essere esclusi dai programmi scolastici.
Sono infatti passati più di due decenni e la situazione è ancora quella cristallizzata dal DPR 89/2010 nel quale Mariastella Gelmini, all’epoca Ministro dell’Istruzione, dettava le linee guida per i docenti, e definiva i fondamentali degli insegnamenti ritenuti strategici per le scuole superiori.
Nel documento ancora in vigore, per quel che concerne la poesia e la narrativa del ‘900 da affrontare nei licei, sono indicati a titolo esemplificativo diciassette autori principali a cui fare riferimento: “…si esordirà con le esperienze decisive di Ungaretti, Saba e Montale, …contemplerà un’adeguata conoscenza di Rebora, Campana, Luzi, Sereni, Caproni, Zanzotto, …comprenderà letture da autori significativi come Gadda, Fenoglio, Calvino, P. Levi e potrà essere integrato da altri autori come Pavese, Pasolini, Morante, Meneghello”.
Avete capito?
C’è Meneghello (con tutto il rispetto per lo scrittore vicentino) ma non Grazia Deledda, unica Premio Nobel donna in Italia per la letteratura. Come non c’è un romanziere di levatura europea: Salvatore Satta.
E’ pur vero che il docente nella sua autonomia didattica può inserire nella sua Programmazione scolastica gli Autori che ritiene più validi. Ma quanti lo fanno? E comunque rimane immutata la scelta ministeriale, cieca e escludente gli Autori sardi.
Perché?

L’OLOCAUSTO SARDO

L’OLOCAUSTO SARDO
di Francesco Casula
Il 27 gennaio 1945 ad opera delle truppe sovietiche dell’Armata Rossa fu liberato il campo di concentramento di Auschwitz. Per ricordare tale evento e per commemorare le vittime dell’Olocausto, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 1º novembre 2005, ha istituito, il Giorno della Memoria, da celebrarsi, a livello internazionale ogni anno, proprio il 27 gennaio. Per la verità, il Parlamento italiano, dopo ben quattro anni di discussioni, aveva già istituito nel 2000 e per la stessa data, il Giorno della memoria. E’ stata una decisione quanto mai opportuna: quel genocidio di milioni di esseri umani non può infatti finire nel dimenticatoio. Come fosse roba vecchia, da consegnare, sic et simpliciter, al passato. Occorre infatti sorvegliare attentamente la nostra memoria e non dimenticare. Anche perché quel passato orribile, non è del tutto passato. Proprio in questi ultimi anni infatti inquietanti e cupe nubi si addensano nei cieli europei con l’affermarsi di movimenti e Partiti intolleranti e xenofobi, che si sipirano proprio al fascismo e al nazismo. Perché questi vengano sconfitti e liquidati, soprattutto i giovani devono studiare e conoscere la tragedia immane dell’Olocausto. Ad essere internati nei lager e poi sterminati furono in particolare gli Ebrei: 6 milioni, dicono le cifre ufficiali. A questi occorre aggiungere almeno altri 6 milioni costituiti da oppositori e dissidenti politici, omosessuali, disabili, Rom, Slavi. E persino da minoranze religiose come i testimoni di Geova, Pentecostali ecc. Di mezza Europa. Bene: ma in questa sede voglio parlare dell’olocausto sardo: di cui non si parla mai. La Sardegna è una delle regioni che ha pagato un altissimo tributo di deportati, soprattutto militari:furono circa 12.000 mila i soldati sardi IMI (Internati militari italiani) rinchiusi nei lager, fra i 750-800 mila militari e civili fatti prigionieri dai nazisti dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’armistizio dell’8 settembre. Quando il 9 settembre, vigliaccamente sia il re Vittorio Enmanuele III (più noto come Sciaboletta) che Badoglio, abbandonano Roma e fuggono a Brindisi. I soldati sardi nei fronti di guerra, in genere giovani e giovanissimi,con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato. Finirono quasi tutti nei campi di concentramento: solo pochi, dopo la liberazione, tornarono in Sardegna. E gli altri? Della maggior parte ancora oggi non sappiamo niente o quasi. Iniziamo a ricordare questi giovani, il nostro Olocausto: dimenticato dalla scuola, dai Media e dalla politica. Colpevolmente.
 
 
 
 
 
 
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S’ISCOLA IN SARDIGNA

Francesco Casula
S’ISCOLA IN SARDIGNA
di Francesco Casula
Deo la penso goi. E so curiosu de ischire e connoschere ite nde narant sos Partidos chi si presentant a sas eletziones. la scuola italiana in Sardegna non risulta né interessante, né gratificante, né attraente: è una scuola di Stato e non pubblica nel senso che è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda. E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione. Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente. Di qui, per esempio, la mortalità e la dispersione scolastica record in tutta l’Italia.. Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici. Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Di qui la necessità che nelle scuole di ogni ordine e grado si inserisca la lingua e la cultura sarda, come materia curriculare. Altrimenti i record negativi della scuola in Sardegna permarranno. E continuare a piangersi addosso e a lamentarci servirà a poco.
 
 
 
 
 
 
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MATTARELLA E MELONI: due volti diversi dello stesso Stato (coloniale)

MATTARELLA E MELONI: due volti diversi dello stesso Stato (coloniale)
di Francesco Casula
Mattarella e Meloni sono due volti diversi, (il primo più accattivante, il secondo più respingente, perché più classista nordista e antisardo) ma rappresentano lo stesso Stato italico coloniale. Che da sempre ha mostrato nei confronti della Sardegna il suo volto feroce e brutale di dominio economico e di repressione culturale e linguistica. Fin dalle sue origini e dalla sua funesta unità: con un fiscalismo esoso e insopportabile, con una Sardegna che paga tasse superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombre: “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse. In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”1. Per non parlare dell’imposta sul macinato l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello” 2. E per non parlare ancora dell’aggio esattoriale che “Nelle altre province del regno ha una media che non supera il 3%, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a 14%”3 . A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forte che nelle altre regioni ne è una riprova – come documenta Francesco Saverio Nitti, già Presidente del Consiglio dal 1919 al 1920 – il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno del 1897 si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato di immobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altre regioni messe insieme” 4. A dire che quando non si pagano le tasse lo Stato ti sequestra piccoli beni (appezzamenti di terreno, casette) e ai contadini, lo ricorda Giuseppe Dessì nel suo romanzo “Paese d’ombre”, persino i carri a buoi! Ed ancora nel 1913 – al trono Vittorio Emanuele III, la media delle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempre Nitti a scriverlo. E dopo lo sgoverno dei tiranni sabaudi e il Fascismo? Cambia la “forma” coloniale non la “sostanza”. L’Isola continua ad essere considerata semplice appendice dello Stato italiano. Colonia d’oltre mare da utilizzare come base di servizio di industrie nere e inquinanti, fabbriche di armi, basi militari, stazione di servizio per speculazione energetica. Con le Pale eoliche infatti, come con le industrie petrolchimiche, alla Sardegna rimane sa palla (e l’inquinamento) e issos si pigant su ranu. Calchi sisinu, pocos soddos alle popolazioni che ospitano i mostri di ferro e profitti milionari agli speculatori. Alla Sardegna fra 20/30 anni tonnellate di ferro arrugginito da smaltire e al Nord energia bella, pronta e pulita. Perché occorre ribadirlo l’energia prodotta dal vento (e dal sole) sardo non è per noi ma per loro. Come i semilavorati della chimica. Per creare, ancora una volta, la loro ricchezza. Alle nostre spalle. A fronte di tutto ciò, che senso può avere per i sardi, la retorica patriottarda del discorso di Mattarella, questa sera? O, peggio ancora, le balle ciclopiche che ci racconterà il 4 gennaio prossimo Meloni? Meglio la lettura di un bel libro sardo che perdere tempo con le chiacchiere (e le frottole) italiche. Note Bibliografiche 1. Giuseppe Dessì, prefazione di Sandro Maxia, Ed. Ilisso, Nuoro 1998, pagina 292. 2 Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440. 3. F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam, Padova, 1959, pagina 245. 4. F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958, pagina 162
 
 
 
 
 
 
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I pragmatici. I realisti.

I pragmatici. I realisti.

Di Francesco Casula

Li conosco tali soggetti. E sono molti. Spuntano come funghi soprattutto in occasione delle elezioni. E di fatis, millos mih!
Sono molti di quelli che volevano cambiare il mondo ma sono riusciti solo a cambiare se stessi. Adeguandosi allo stato delle cose presenti.
Sono molti di quelli che nel ’68 volevano fare la rivoluzione: spaccando tutto. In realtà sono riusciti solo a spaccare qualche vetrina.
Sono molti di quella generazione che sono passati da essere gramscianamente intellettuali “organici”, a organici solo a Ministeri e Enti inutili. E a Partiti, ugualmente inutili. Spesso anzi, dannosi.
Un’intera generazione di giovanotti che, una volta cresciuti, si sono sdraiati nei salotti del Potere: nel Parlamento e nella Banche; nei Giornaloni e nelle TV (di Stato o private poco importa). Negli Enti di qualsivoglia tipo e genere purché remunerativi in termini finanziari e di prestigio. E di potere.
Diventati pragmatici e realisti: amanti del quieto vivere, dello status quo intendo. Diventati pavidi. Ignavi: se vogliamo scomodare il Poeta fiorentino.
Diventati sostenitori del “Quieta non movere et mota quietare”. Con il pretesto che cambiare non si può, visti i rapporti di forza, visto il contesto.
Diventati sostenitori del compromesso: se si vuole entrare nelle istituzioni. Se si vuole governare. Contare. Gestire.
Non capendo che si governerà e si gestirà la miseria: la miseria del presente.
Sento ripetere anche da parte di molti giovani – invecchiati precocemente – che questo non è il tempo della testimonianza, degli ideali, delle utopie, dei sogni: bisogna essere realisti, pragmatici: ecco l’ossessivo mantra.
Bene: a questo gregge normalizzato e narcotizzato, con pervicacia oppongo – pur convinto e consapevole che si tratta di una vox clamans in deserto – una traiettoria esistenziale prima ancora che culturale e politica, opposta, radicalmente “altra” e antagonista. Reverde.
Voglio continuare a coltivare sogni idealità utopie. Seguendo il compianto Antonello Satta, gran giornalista e valente intellettuale sardo di Gavoi secondo cui “Chi nella vita non coltiva qualche utopia, è meglio che si dimetta”. Dalla vita ovviamente.
Voglio persino continuare a essere “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento, George Bernard Shaw, quando affermava che “l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli”.
Basta dunque con l’adeguarsi. Ma basta anche con il ripiegamento interiore, indotto dalla crisi e dalla sconfitta. E basta con il vittimismo intimista, con la lamentazione sterile e generica, con l’attesa passiva in cui ci si consuma a inghiottire il pianto, perché il passato è visto solo come gravame e il futuro come negatività spettrale.
No est gai.Mudare si podet. Bastat a lu cherrere.

FESTE POPOLARI/ FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA: Il capodanno.

FESTE POPOLARI/FESTE RELIGIOSE/ RUOLO DELLA CHIESA:
Il capodanno.

di Francesco Casula

L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata, storicamente, nel sopprimere ma nello stesso tempo nel recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste.

Tanto che oggi non esistono non solo Feste popolari ma scadenze liturgiche importanti che non presentino innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli: dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio o di San Francesco a Lula. Un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.

Iniziamo dal Natale. Con l’avvento del Cristianesimo gli antichi culti del solstizio invernale furono soppressi ma insieme recuperati riadattati cristianizzati: nel mondo cristiano di oggi infatti il momento di transizione segnato dal solstizio d’inverno coincide con le feste di natale e poi capodanno, Sant’Antonio ecc.

A proposito del capodanno, la chiesa dopo aver combattuto a lungo la festa di capodanno come festa solo laica e profana, ma soprattutto a forti caratteri precristiani l’ha inserita nel calendario cristiano, attribuendogli specifici significati religiosi.

Così il 31 dicembre con un Te Deum di ringraziamento, per i benefici ricevuti, celebra l’anno che si conclude, mentre il primo gennaio invoca il Veni Creator Spiritus perché illumini la Comunità nel corso del nuovo anno.0