Il Divario fra Nord e Sud?

di Francesco Casula
2020 profetizzava pomposamente il Corriere della sera nel lontano 1972. Bene, siamo nel 2023 ma il divario non solo non è stato colmato, ma tende, ogni anno di più ad aumentare. Basta guardare gli ultimi dati ISTAT (del 2022) che fotografano impietosamente che la forbice continua ad allargarsi. In modo particolare cresce il il divario fra Nord e Sud d’Italia su lavoro, crescita economica e riduzione delle disuguaglianze. Lo rende noto l’Istat nel suo Rapporto sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile ( Sustainable Development Goals, SDGs) dell’Agenda 2030 dell’Onu. Ma anche per quanto attiene all’istruzione e alla cultura si conferma purtroppo che il Sud fa fatica: la popolazione (25-64 anni) residente nel Mezzogiorno è meno istruita rispetto a quella del Centro- nord: il 38,1% ha il diploma di scuola secondaria superiore e solo il 16,4% ha raggiunto un titolo terziario; nel Nord e nel Centro circa il 45% è diplomato e più di uno su cinque è laureato (21,1% e 23,7% rispettivamente). Il divario territoriale nei livelli di istruzione riguarda uomini e donne, sebbene sia più marcato per la componente femminile. Che succede? E come mai le disuguaglianze territoriali aumentano. Per un fenomeno strutturale: legato al colonialismo interno presente in Italia ad iniziare dall’Unità d’Italia, che ne è la causa. Senza dunque la rottura della “dipendenza coloniale, le differenze fra Nord e Sud, lungi dallo scomparire, aumenteranno. Il fenomeno è stato analizzato da studiosi e economisti. Mi riferisco in modo particolare a Nicola Zitara1, che con alcuni intellettuali fra cui, Anton Carlo e Carlo Capecelatro2 – chiamati nuovi meridionalisti, – iniziò una revisione del “vecchio meridionalismo” e dell’intera “Questione meridionale” dissacrando quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento; mettendo in dubbio e contestando la bontà dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e al centro aveva sempre ritenuto, che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali. Zitara e i nuovi meridionalisti (cui oggi aggiungeremmo un altro valente nuovo meridionalista, Pino Aprile3) – in modo particolare, ripeto, Edmondo Maria Capecelatro e Antonio Carlo, quest’ultimo fra l’altro per molti anni docente incaricato di diritto del lavoro all’Università di Cagliari – ritengono che il Meridione con la Sardegna, sia diventata con l’Unità d’Italia una “colonia interna” dello Stato italiano e che dunque la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata soprattutto nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale. Si muovono in sintonia con studiosi terzomondisti come P. A. Baran4 e Gunter Frank5 che in una serie di studi sullo sviluppo del capitalismo tendono a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa. Così come sosterrà anche Samir Amin6, che soprattutto in La teoria dello sganciamento-per uscire dal sistema mondiale,riprende alcune analisi che ha sviluppato nelle opere precedenti sui problemi dello sviluppo/sottosviluppo, centro/periferia, scambio ineguale. Per Amin il sottosviluppo è l’inverso dello sviluppo: l’uno e l’altro costituiscono le due facce dell’espansione – per natura ineguale – del capitale che induce e produce benessere, ricchezza, potenza, privilegi in un polo, nel ”centro” e degradazione, miseria e carestie croniche nell’altro polo, nella “periferia”. Nel sistema capitalistico mondiale infatti i centri sviluppati (i Nord del Pianeta) e le periferie (i Sud) sottosviluppati sono inseparabili: non solo, gli uni sono funzionali agli altri. Ciò a significare che il sottosviluppo non è ritardo ma supersfruttamento. In questo modo Amin contesta la lettura della storia contemporanea vista come possibilità di sviluppo graduale del Sud verso i modelli del Nord, in cui l’accumulazione capitalistica finirà per recuperare il divario. L’espansione capitalistica mondiale – oggi viepiù caratterizzata dalla finanziarizzazione dell’economia – per i Sud del Pianeta non comporta solo sottosviluppo ma anche “compradorizzazione” delle società e delle borghesie locali, nonché espansione “bianca”. Ovvero distruzione delle culture “extraeuropee. Vi è anzi un legame strettissimo fra il carattere capitalistico della modernizzazione e l’espansione del dominio culturale occidentalista. Di qui il genocidio di interi popoli marginalizzati con l’assimilazione forzata, indotta dalla globalizzazione. E la distruzione di etnie. Se è vero come documenta il Centro studi “Luigi Negro” di Milano, che ogni anno scompaiono nel mondo ben dieci minoranze etniche e con esse altrettante lingue, culture, modi di vivere originali, specifici e irrepetibili. Sardinia, anche de te fabula narratur! O no? Note 1.. Nicola Zitara, L’Unità d’Italia. nascita di una colonia, Jaca Book, Milano, 1971; Il proletariato esterno, Jaca Book , Milano, 1972; Memorie di quand’ero italiano, Ed. Città del Sole, Reggio Calabria, 2013. 2.Anton Carlo/Carlo Capecelatro, Contro la Questione Meridionale, Ed. Savelli, Roma 1972. 3.Pino Aprile, Terroni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali, ( 2010); Giù al Sud, perché i terroni salveranno l’Italia ( 2012); Il Sud puzza. Storia di vergogna e d’orgoglio, (2013); Terroni ‘ndernescional. E fecero terra bruciata, (2014); Carnefici, (2016): tutti editi dalla PIEMME di Milano. 4.P. A. Baran, Il surplus economico e la teoria marxiana dello sviluppo, Feltrinelli, Milano,1975. 5.Gunter Frank, Il surplus economico e la teoria marxiana dello sviluppo, Feltrinelli, Milano,1975. 6.Samir Amin, Sulla Transizione, Ed. Jaca-Book, Milano, 1973 e La teoria dello sganciamento, Ed. Diffusioni, Milano 1986.
 
 
 
 
 
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L’Autonomia? Fallita. Lo Statuto sardo? Scaduto

L’Autonomia? Fallita. Lo Statuto sardo? Scaduto
Ecco alcuni perché.
di Francesco Casula
Da decenni possiamo ormai considerare l’Autonomia sostanzialmente fallita e lo Statuto speciale della Sardegna “scaduto”. Molte le ragioni. Nato nel lontano 1948, già depotenziato, debole e limitato – più simile a un gatto che a un leone, secondo la colorita espressione di Lussu – lo Statuto sardo in questi circa 75 anni di storia si è rivelato, sostanzialmente, un fallimento. Molte le cause. Ad iniziare da quella che lo storico Francesco Cesare Casula individua con nettezza scrivendo: “Nello Statuto sardo non c’è nessun preambolo che supporti le ragioni dell’essere, nessuna coscienza storica che giustifichi il perché dovremmo essere trattati diversamente dalle altre 19 regioni italiane. Esso apre con un desolante titolo l: «La Sardegna con le sue isole è costituita in regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile, sulla base dei principi del¬la Costituzione e secondo il presente statuto … » In altre parole, secondo il nostro storico medievista “Lo Statuto sardo, difetta di un preambolo giustificativo nella contrattazione col governo centrale, ben presente nello Statuto catalano, che fonda la sua contrattazione sulla peculiarità nazionale promanante dall’ antico Principato di Catalogna. Ed è quanto purtroppo manca da noi. sebbene abbiamo più ragioni dei Catalani di rifarci alla storia per una rivendicazione autonomistica non solo speciale ma particolare”. Di qui la necessità, nel rifacimento di un nuovo Statuto, di un corposo prologo che lo giustifichi e lo sostenga. A me personalmente piace quello contenuto nella proposta e bozza di Nuovo Statuto, chiamata “Carta de logu nova de sa Nazione sarda” elaborata qualche anno fa da un Comitato “Firma per la tua Sardegna”, che fu presieduto dal compianto giornalista e scrittore Gianfranco Pintore. Eccolo: “la Sardegna è una Nazione con proprio territorio, storia, lingua, cultura, tradizioni, identità e aspirazioni distinte da quelle della Nazione Italiana… per questo gestisce e coltiva in sovranità la propria eredità culturale, materiale e immateriale, in un ordinamento istituzionale nel quale la Regione sard a è dotata di sovranità a titolo eguale a quella dello stato centrale, ripartita consensualmente secondo la presente Costituzione sarda”. Naturalmente, nessuno può pensare che le ragioni del fallimento dello Statuto sardo siano da ricondurre esclusivamente alla miseria, culturale e politica del Prologo. Occorre infatti ricordare che in questi 75 anni ha subito un processo di progressi¬vo svuotamento e di compressione sia dall’esterno, cioè da parte dello Stato centrale, sia dall’ interno, ovvero da parte delle forze politiche dirigenti sarde, che non sanno usare e, spesso, non vogliono utilizzare, gli stessi strumenti, possibilità e spazi che l’autonomia regionale offriva. Basti pensare a questo proposito alla vicenda delle norme di attuazione, che avrebbero dovuto riempire di contenuti le astratte previsioni statutarie, stabilendo quali dovevano essere i poteri reali della Regione nelle materie attribuite alla sua competenza. Queste norme o vengono emanate tardi, o non vengono emanate per niente, o vengono emanate in modo ecce¬zionalmente riduttivo. E comunque non vengono quasi mai poste in atto. Ciò per con¬statare come le forze politiche sarde abbiano svilito la stessa limitata autonomia. statutariamente riconosciuta. Non solo. Nato come Statuto speciale, oggi risulta dotato di meno poteri delle regioni a Statuto ordinario costituite nel ’70, e di fatto, rappresenta oramai un ostacolo alla realizzazione di una vera Autonomia, o peggio: serve solo come copertura alla gestione centralistica della Regione da parte dello Stato, di cui non ha scalfito per niente il centralismo. Paradossalmente lo ha perfino favorito, consentendo ai Sardi solo il succursalismo e l’amministrazione della propria dipendenza. La Regione sarda di fatto, in questi 70 anni di storia, ha operato come mera struttura di decentramento e di articolazione burocratica dello Stato e come centro di raccordo e di mediazione fra gli interessi dei gruppi di potere locali e la rapina neocolonialista, soprattutto del Nord: esemplare in questo è la vicenda della industrializzazione petrol-chimica. E non solo. Nasce da qui l’esigenza e la necessità di imboccare decisamente la strada del rifacimento dello Statuto Sardo, una nuova Carta de Logu, come vera e propria Carta Costituzionale di Sovranità per la Sardegna, che ricontratti su basi federaliste il rapporto Sardegna-Stato Italiano e Sardegna-Europa che, partendo dal¬l’identità etno-nazionale dei Sardi, ne sancisca il diritto a realizzare l’Autogoverno e l’Autodeterminazione.
 
 
 
 
 
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LETTERA APERTA AGLI INDIPENDENTISTI

Francesco Casula
LETTERA APERTA AGLI INDIPENDENTISTI
di Francesco Casula
Vedo gli indipendentisti divisi. Litigiosi. Abbacchiati. Spaesati Rannicchiati. Chiusi in se stessi. Tutt’al più tesi a gestire e coltivare e custodire il proprio orticello. Sa tanchitta. Che risulta viepiù modesta: e dà pochi frutti. Sempre meno Vedo gli indipendentisti, soprattutto, pessimisti. Quasi disperati. Come se la storia fosse già finita. E loro – e noi – vinti e sconfitti. Per sempre. Definitivamente. Vedo molti giovani indipendentisti già vecchi. Invecchiati prima del tempo. Bacucchi. Anche loro rassegnati. Che invece di cambiare il mondo, rivoluzionandolo, cambiano se stessi, adeguandosi. Alle mode del momento. Ai valori dominanti. Alla cultura mass-mediologica. Anche loro diventati “realisti”, “pragmatici”. A la page. Che cercano scorciatoie e, magari, nuove prospettive e “sistemazioni”. Vedo intellettuali indipendentisti pieni di rancore. Boriosi e settari. Che si impancano a giudici. E a tutti danno giudizi implacabili, definitivi e definitori. Ma soprattutto negativi verso tutto il mondo indipendentista. Giudizi sprezzanti. Assolutamente ingenerosi. Sia ben chiaro: la critica anche radicale è necessaria. Altrettanto l’autocritica. Che deve essere impietosa. Anche dura. Da parte di tutti i gruppi. Ma anche da parte dei singoli militanti. Troppi errori hanno fatto. Abbiamo fatto: troppo ideologismo. Troppa propaganda vuota. Troppo settarismo. Inutili (e dannosi) leaderismi. Sottovalutazione della questione linguistica e culturale. Scetticismo se non opposizione al sardo come lingua nazionale unitaria, favorendo lo sminuzzamento della lingua stessa, ridotta in tal modo a “dialetti” cioè folclore paesano. Sottovalutazione della questione sindacale e della questione istituzionale (Riforma dello Statuto sardo) con posizioni inutilmente estremiste e primitive. Ma soprattutto: troppe divisioni. Divisioni nefaste e ingiustificate. E ingiustificabili. Inutili rotture e ancor più inutili “separazioni”. Il mio non è un ingenuo invito all’embrassons nous. A una rappacificazione e unità, formale. Senza chiarezza. Senza obiettivi. Senza strategia né visione. Tuttì’altro. Il mio è un invito a ri-partire: nella chiarezza. A ri-prendere il cammino iniziato dai nostri Padri: seguendo la rotta indipendentista indicataci da Antonio Simon Mossa e Angelo Caria; la rotta comunitarista di Eliseo Spiga; la rotta culturale e linguistica di Cicitu Masala e Giovanni Lilliu; la rotta antropologica di Placido Cherchi. L’importante è riprendere e ripartire con la militanza attiva per una capillare, ubiquitaria e diffusa controinformazione culturale e politica: senza limitarsi ad agitare al vento facili slogan o discorsi che non riescono a far muovere i mulini per macinare grano. L’importante è fare le cose non limitarsi a denunciarle, sperimentare e non solo predicare, praticare l’obiettivo, praticare scampoli di indipendenza (anche nel campo economico e sociale, oltre che in quello culturale e linguistico) e non aspettare l’ora x in cui questa si raggiungerebbe. L’importante è incrociare la gente, i lavoratori, i giovani, i loro sguardi: leggendo cuori, ascoltando storie, percorrendo strade, sostando nelle Piazze, stringendo mani a persone non ad interessi. L’importante è costruire trame che organizzino e compattino i soggetti sui bisogni, gli interessi, la crescita culturale e civica, favorendo l’autorganizzazione dei cittadini e il protagonismo sociale, i contropoteri popolari e comunitari. L’importante è rivolgersi ai Sardi, a tutti i Sardi: uscendo dal minoritarismo gruppettaro. L’importante è partire dalla consapevolezza che, attraverso la rottura delle catene della dipendenza. abbiamo tutto da guadagnare e niente da perdere, come popolo intendo e non come singoli. E il popolo sardo deve essere il nostro referente: e la nostra bussola. Con lui dobbiamo costruire l’Autodeterminazione nazionale: con un progetto e un processo.
 
 
 
 
 
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Eraclito, l’ambiente e la Sardegna.

Eraclito, l’ambiente e la Sardegna.
di Francesco Casula
Il filosofo Eraclito di Efeso, gran teorico del “Πάντα ρει” (tutto scorre), ovvero dell’incessante fluire e divenire delle cose, nella sua concezione relativistica, salvava un unico valore, considerato assoluto, stabile e perenne: l’ambiente. Occorre prendere atto, anche a prescindere dalle polemicucce da cortile, delle paraulas maccas cui dobbiamo esclusivamente porgere origras surdas, che a più di 2.500 anni di distanza, l’intuizione del filosofo greco non pare abbia ancora in Sardegna (come del resto anche altrove) il consenso dovuto. Permangono numerosi epigoni dello “sviluppismo”,(presenti nei Partiti cone nei Sindacati italiani), ancora disposti a barattare l’ambiente con un po’ di occupazione e di crescita economica, peraltro momentanee e incerte, e di sviluppo, peraltro illusorio ed effimero. Non capendo, fra l’altro, che devastando la natura, dissestando e consumando il territorio, si distruggono, nel tempo, molti più posti di lavoro di quanti non se ne creino. Per non parlare, dei danni profondi agli ecosistemi e alla salute della popolazione. Comunque nonostante il copiosissimo inquinamento, brutture e devastazioni ambientali, sfregi profondi al paesaggio e all’ecosistema. la Sardegna, fortunatamente, non è ancora precipitata del tutto nell’inferno industrialista, tutto giocato sullo sfruttamento spietato della natura, del territorio, delle materie prime e delle risorse naturali, teso esclusivamente a produrre merci finalizzate alla realizzazione di un profitto e di un consumo immediato. L’ambiente – ripeto pur profondamente manomesso – rimane ancora la nostra risorsa più pregiata, il “valore” primario. Ma occorre essere consapevoli che l’ambiente è una risorsa, limitata e irriproducibile. Di qui la necessità di difenderlo con le unghie e con i denti e di conservarlo, valorizzandolo e non semplicemente sfruttandolo e divorandolo. Esso è l’habitat la cui qualità non è un lusso – magari per pochi esteti – ma la necessità stessa per sopravvivere. Ed il territorio deve essere certo utilizzato anche come supporto di attività turistiche, economiche e produttive ma nel rigoroso rispetto e della salvaguardia del nostro complesso sistema di identità ambientali, paesaggistiche, geografiche, etno-storiche, culturali e linguistiche.
 
 
 
 
 
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L’IMPERATORE SPAGNOLO CARLO V E LA SARDEGNA

L’IMPERATORE SPAGNOLO CARLO V E LA SARDEGNA
di Francesco Casula
Il famoso imperatore spagnolo Carlo V “sul cui impero non tramontava mai il sole” venne in Sardegna due volte, in occasione di due grandiose spedizioni militar-navali dirette a combattere il pericolo “barbaresco”. La prima nel 1535 ebbe come ultima base di partenza Cagliari, in cui Carlo V sbarcò trattenendosi alcune ore. Si radunarono due flotte, una proveniente da Barcellona e una dall’Italia: oltre alla flotta spagnola e portoghese infatti era presente la genovese di Andrea Doria cui si aggiunsero rinforzi inviati dal Papa. In tutto – ricorda Carta Raspi – “Quattrocento navi fra grandi e piccole, di cui novanta galere reali, con all’incirca trentamila uomini, per buona parte spagnoli, tedeschi e italiani”. Ed anche un contingente di sardi, guidati da alcuni grossi esponenti della nobiltà locale (fra cui Salvatore Aimerich). Il principale movente doveva essere la distruzione della flotta del famoso corsaro Khair, detto Barbarossa, il flagello delle popolazioni costiere. Con lui c’era Hazan-Haga, (o Assan Agà) che per la carica che rivestiva veniva chiamato Hazan-bey. Allevato dal Barbarossa e nominato suo luogotenente e più tardi comandante in capo e infine rappresentante del sultano, era nato in Sardegna, pastorello della Nurra, catturato con altri in una delle tante incursioni barbaresche. Verrà etichettato come Sardo renegado, diventerà terzo re di Algeri e sconfiggerà Carlo V nel 1541, in seguito alla seconda spedizione. Ma torniamo alla prima spedizione: dopo circa un mese di assedio, la flotta del Barbarossa, cadde quasi al completo nelle mani degli imperiali che poterono occupare Tunisi e liberare ben 20.000 schiavi cristiani, fra cui 1.119 schiavi sardi. Probabilmente in quel periodo la presenza dei Sardi schiavi si aggirava intorno alla 2.000-2.500 persone, circa l’1-1,5% dell’intera popolazione isolana! “Due iscrizioni cagliaritane – annota ancora Carta-Raspi – ricordano l’impresa e celebrano la vittoria dell’imperatore, quasi come propria, poiché la maggior parte degli abitanti di Cagliari e soprattutto i Consiglieri erano spagnoli; ma la Sardegna era stata allora, come lo fu durante tutto il dominio spagnolo, semplice spettatrice e non partecipe degli avvenimenti militari, anche perché si svolgevano in territori lontani, per interessi che non erano i suoi, che comunque non avrebbero mutato il suo stato di soggezione”. Sia come sia la sconfitta di Tunisi non fu totale né definitiva: la flotta imperiale, stremata, non era stata in grado di proseguire l’offensiva contro Algeri, dove il Barbarossa era riuscito a rifugiarsi e da dove lo stesso anno ripresero le incursioni piratesche in tutto il Mediterraneo occidentale con a capo i vari Khair en-Din (Barbarossa), il sardo Hazan-Haga, Occhialì. Assan Corso e altri. Ripresero anche contro la Sardegna: nel 1538 fu saccheggiata la Basilica di San Gavino in Torres (Porto Torres), nel 1540 fu distrutta Olmedo. Dopo sei anni, la seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. Giovedì 6 ottobre 1541 è quasi mezzanotte quando 43 galere prendono fondo a Porto Conte, la grande baia di fronte ad Alghero. E’ una delle due flotte che Carlo V ha messo insieme per attaccare Algeri. A bordo c’è anche l’imperatore. Che nella città catalana che definirà « bonita, por mi fe, y bien asentada». osservando la maestosa torre de l’Esperó Reial. Rimarrà solo un giorno perché Sabato mattina si imbarcò: l’altra flotta lo aspettava a Maiorca. Anche la spedizione contro Algeri fallirà miseramente: una violenta tempesta infatti distrusse quasi completamente la flotta,inghiottendo molti vascelli e circa 8.000 uomini. Le incursioni barbaresche in Sardegna continueranno Intorno a Carlo V e ai suoi due brevissimi soggiorni nell’Isola,sono fiorite leggende e aneddoti: gli si attribuisce l’espressione “Todos caballeros”, una ricompensa alla fedeltà degli algheresi, discendenti di una colonia catalana, e pronunciata dal Palazzo d’Albis sulla gremita Piazza Civica. mentre in realtà pare che il “cavalierato” venne concesso solo a tre illustri cittadini algheresi, per essersi uniti alla spedizione verso Algeri. Pare inoltre che i Consiglieri di Alghero, come atto d’omaggio murarono la finestra dalla quale l’imperatore si era degnato di mostrarsi alla popolazione acclamante, affinché nessun mortale potesse più affacciarvisi. Storici come Brigaglia, Mastino e Ortu scrivono invece che, semplicemente Carlo V “se ne stava alla finestra sbocconcellando dei biscotti bianchi e bevendo acqua di cannella, perché soffriva di stomaco. Intanto giù nella piazza i suoi soldati avevano dato vita a una specie di corrida, inseguendo e ammazzando sul posto le vacche e i montoni che gli algheresi avevano preparato per approvvigionare la flotta”. Senza alcun fondamento storico è anche il giudizio, “Locos, pocos y male unidos” poco benevolo nei confronti dei Sardi che la tradizione gli attribuisce, ma che mai è stato verificato da nessun documento o altra fonte storica. Ma noi sardi continuiamo a ripetere questo becero e trito luogo comune.
 
 
 
 
 
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Le origini sarde di Jean Paul Marat. Il padre era di Cagliari

Le origini sarde di Jean Paul Marat. Il padre era di Cagliari.
1. Un protagonista della Rivoluzione francese Jean Paul Marat è stato tra i protagonisti della Rivoluzione francese quello più radicale. Deputato della Convenzione fu anche presidente del Club dei Giacobini. Fu estremamente critico anche nei confronti della dichiarazione dei Diritti dell’uomo dell’89, che considerò “un’irrisoria esca per distrarre gli sciocchi” un’atroce beffa per il popolo perché – scrive – Votre fameuse déclaration des droits n’etait donc qu’un leirre derisoire pour amuser les sots …puisqu’elle se réduit en derniere analysi à conférer aux riches tous les avantages, tous les honneurs du nouveau régime. La dichiarazione dei diritti aveva infatti proclamato l’uguaglianza degli uomini in linea di diritto ma non di fatto: aveva infatti affermato e riconosciuto a tutti il diritto di concorrere al potere e alla ricchezza e aveva conseguentemente dichiarato guerra al privilegio ereditario ma aveva creato altri “privilegiati”: la borghesia. Si era infatti dimenticata di proclamare l’uguaglianza economica dei cittadini. Sono stati distrutti i privilegi ed è stata regolata la proprietà – sosterrà Marat – ma ciò non riguarda il popolo che non ha niente da difendere: ”Les changements survenus dans l’Etat, ils sont tous pour le riche”Occorreva dunque secondo lui, quindi riformare radicalmente il regime economico, abolendo la proprietà privata: questa sarà la sua battaglia come deputato alla Convenzione, battaglia che perderà e anzi, la società borghese uscirà consolidata dal travaglio della grande Rivoluzione. Fin dal 1789 inizia una lotta contro il regime borghese del censo agli effetti elettorali esaltando la sovranità popolare la quale può essere solo delegata, con mandato sempre revocabile.. 2. l’origine sarda Sull’origine sarda di Jean Paul Marat non vi sono ormai dubbi. A documentarlo con certezza vi sono studi rigorosi con relative documentazioni e prove, ad iniziare dagli Atti di nascita, di battesimo e di matrimonio. L’ultima opera sul rivoluzionario, corposa (596 pagine in due tomi) ed estremamente documentata, Marat en famille-La saga des Marat è della professoressa belga Charlotte Goetz, con corredo di note, bibliografia e riproduzione di documenti fra cui quelli provenienti da archivi sardi. Molti sono stati forniti da Carlo Pillai(1), già Sovrintendente archivistico per la Sardegna e autore di numerosi articoli su Jean Paul Marat. A documentare l’origine sarda, fin dagli inizi del Novecento è stato Egidio Pilia(2), – avvocato e saggista, nonché uno dei fondatori del Partito sardo d’azione – con l’opuscolo Gian Paolo Marat. Il protagonista della Rivoluzione francese, di cui rappresentava l’anima più radicale e popolare, non a caso fu soprannominato l’ami de peuple, nacque a Boudry, nel cantone di Neuchâtel in Svizzera il 24 maggio 1743 da Giovanni e da Luisa Cabrol. L’8 giugno verrà battezzato e nell’Atto, conservato – precisa Pilia – nel Registro dei battesimi di Neuchâtel dove si accenna esplicitamente a “Jean Paul, fil de M. Jean Mara de Cagliari en Sardaigne et de Loise Cabrol de Geneve”. Ma lo stesso rivoluzionario, ci ha lasciato più di una prova a conferma della sua origine sarda: nella Biblioteca universitaria di Neuchâtel si trova ancora conservato un dizionario latino-francese, a lui appartenuto in gioventù, che porta sulla prima pagina il nome Jean Paul Mara, scritto di suo pugno. 3. Chi era il padre? Esiste a Cagliari nella Parrocchia del Quartiere Marina,(Pagina XVI del volume XVI Quinque libri) dal quale risulta che Juan Salvador padre di Giampaolo, nacque a Cagliari da Antonio Mara e Millana Trogu e fu battezzato nella chiesa parrocchiale di Marina il 9 agosto 1704 :”En los nueve dias del mes de Agosto del presente anno del mille siete sientes y quatro yo el reverendo Costantino Espissu, domero de la Iglesia Parroquial de la Marina bautize segun el rito de la santa Iglesia romana à Juan salvator Mara y Millana trogu, coniuges de la Marina etc. etc.” . Ma un contributo decisivo sulla vita e sulla figura di Juan Salvador Mara ce lo offre Carlo Pillai Dalle sue ricerche archivistiche risulta senza ombra di dubbio che il padre del rivoluzionario, nato a Cagliari nel 1704 divenne frate Mercedario il 10 agosto 1720. “Ben presto fu avviato alla carriera ecclesiastica – scrive Pillai – e a quattordici anni vestì l’abito dei Mercedari nel convento di Bonaria. Nel 1726 era diacono e dopo la nomina a lettore fu inviato a Bono, in un convento di nuova istituzione” (3) .“A causa del suo carattere irruento e focoso – è sempre Pillai a scriverlo – ebbe a scontrarsi vivacemente col potere secolare, in relazione al pagamento di certe quote arretrate del Regio Donativo dovute dal Convento”. Con il potere politico si scontra anche in merito ad altre questioni tanto che il viceré, conte d’Apremont ordinò un’inchiesta, “manifestando il proposito di punire a dovere quel frate ribelle che osava mettere in discussione l’ordine costituito. Pertanto ordinò ai superiori dell’Ordine di farlo rientrare a Cagliari, dove l’avrebbe convocato alla sua presenza per comunicargli il meritato castigo” (4) . Avuto sentore del pericolo che correva Juan Salvador scappa abbandonando la Sardegna. Si spreta e si reca a Ginevra dove vivrà facendo il disegnatore per un’industria tessile. E a Ginevra si sposerà con la calvinista Luisa Cabrol, sedicenne da cui avrà Jean Paul e altri cinque figli. 4. Perché il padre al cognome Mara aggiunge Bonfils e non Trogu, il cognome della madre? Nasce a questo punto un problema: se il padre di Giampaolo, Giovanni è figlio di Millana Trogu, come mai si firma aggiungendo sempre al cognome paterno Bonfils e non Trogu? Ebbene il cognome Bonfils, usato da Giovanni Mara è quello della sua nonna paterna, come risulta dall’atto di matrimonio celebrato nella Chiesa parrocchiale di Marina a Cagliari (Atti di Matrimonio dal 1693 al 1703, Foglio59) in cui il domero Costantino Espissu…en onze diade mes de meayo del presente anno del mil seicentos nouenta y ociodesposò por calabra de presente, en mi presencia, segun el rittu de la Santa Iglesia Romana, Antonio Mara de la ciudad de sasser, hijo de Antonio Mara y de Maria Vittoria Bonfils, coniuges vesinos de dicha ciudad y a Millana Trogu de la Marina etc. etc.”. Sappiamo dunque da quest’Atto di matrimonio che Antonio Mara, bisnonno del nostro rivoluzionario era oriundo di Sassari e che egli era un Bonfils, come si firmava il padre.“Questa tesi – scrive Egidio Pilia – è corroborata da un altro documento: l’Atto di matrimonio intervenuto a Ginevra il 21 dicembre 1740 fra Giovanni Mara e la sedicenne Luisa Cabrol dalla cui unione dovrà nascere tre anni dopo l’ami du Peuple. Dall’atto redatto dal notaio Marco Fornet, in Ginevra, risulta all’evidenza che il cognome Bonfils apparteneva ad Antonio Mara, non al figlio Giovanni. L’Atto infatti suona così : «Contrat intervenu entre sieur Jean fils de sieur Antoines Mara Bonfils, peintre et dessinauteur, natif de Caìllary, dans l’île de Sardaigne, demeurant dès quelque temps en cette dille de Genève, d’une part et demoiselle Louise, fille de sieur Louis Cabrol, native d’autre part etc. etc.» (5) . 5. Perché aggiunge una t al suo cognome. Acclarato che Jean Paul Marat è Giampaolo Mara rimane una questione: perché ha voluto aggiungere al cognome Mara la t diventando Marat.Uno dei biografi del rivoluzionario il francese François Chèvremont6, riporta una lettera scrittagli il 2 luglio 1867 dal Giovanni Mara, nipote di Jean Paul e ricevitore del registro e bollo a Genova, dalla quale si apprende che fu il proprio il rivoluzionario ad aggiungere «un t final a son nom pour le rendre francais, t chi ne se trouve ni dans son acte de maissance ni dans aucun de ceuux des membres de notre famille».“Dall’esame degli atti di nascita dei numerosi figli – scrive ancora Egidio Pilia (6) – non risulta infatti esserne neppure uno in cui si trovi traccia di t finale, compreso quello di Albertina, che pure fu l’unica, ad imitazione del fratello Gian paolo, a firmarsi Marat, anzi in quello di Davide Mara, l’origine cagliaritana del padre risulta confermata. Solo quando Giovanni Mara riesce a ottenere la cittadinanza svizzera (21 aprile 1760) egli non è più indicato negli atti di nascita dei propri figli come natif de Cagliari en Sardaigne ma come ma come bourgeois de Boudry”(7) . Ma c’è di più: il fratello Giovanni, nell’atto di richiesta degli oggetti lasciati da Jean Paul dopo che fu assassinato dalla girondina Charlotte Corday, dice di essere «Jean Mara, horloger, demeurant à Genève, fils de Jean Mara de Cagliari en Sardaigne, recue abitant de Genève le dexième mars milseptcent quarentun(8)». Anche il fratello minore, quando il 4 aprile 1791 si sposa, a Genova, firma il suo contratto matrimoniale col cognome paterno dei Mara, sebbene il fratello Gian Paolo fosse ormai celebre con il cognome Marat. Bibliografia 1.Carlo Pillai, Le ascendenze sarde di Jean Paul Marat, in Nobiltà 2005 e Carattere focoso e pensiero acuto in Almanacco di Cagliari anno 2003. 2. Egidio Pilia, Gian Paolo Marat, Edizioni Fondazione il Nuraghe, Cagliari 1925. 3. Carlo Pillai, Carattere focoso e pensiero acuto, articolo cit. 4. Ibidem 5.Chèvremont Francois, J. Paul Mara “L’Esprit politique” -2 volumi in 8.0- Parigi 1880. 6. Egidio Pilia, Gian Paolo Marat, op. cit. 7. Docteur Cabanès, Marat Inconnu-l’homme privé, le medicin, le savant, Nuovelle Edition – Paris – Albin Michel 1891. 8. Archives Nationales de Paris: F – 4885, dossier Corday, pièce n.5
 
 
 
 
 
 
 
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