SCHEDA SULLA CIVILTA’ NURAGICA

A cura di

FRANCESCO CASULA

PREMESSA GENERALE
La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore.
Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia –  di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”. 
 Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in Ile de Sardaigne (1861) parla della Sardegna “rimasta ribelle alla legge del progresso”, “terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi”.
Mentre l’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera The Fhoenician” parlerà della Sardegna come “regione sempre retrograda”.
Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmen e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo.
Con un’economia “dell’abbondanza”: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas
 Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.
La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.
Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila – secondo il linguista sardo Massimo Pittau – scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.
Finché i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola. Ma con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. 
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.
Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
 A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Lilliu a scriverlo –  ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Piero Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos.  
(Tratto dalla Introduzione di Letteratura e civiltà della Sardegna, Editrice Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011, Euro 20)

1. Età Nuragica
La civiltà nuragica, che ha inizio nella metà del secondo millennio a.C., si può dividere in tre periodi: Antico(1600 – 500 a.C.), Medio (900 – 500 a.C.) e Recente (500 – 200 a.C.) e nacque dall’incontro di genti mediterranee di culture diverse, sul suolo del piccolo continente sardo.
La civiltà nuragica, è nota sopratutto per le caratteristiche costruzioni, i nuraghi, da cui appunto prende nome.
La società nuragica era essenzialmente egualitaria: nella civiltà nuragica non esistevano gli schiavi né mai esisteranno in Sardegna. La popolazione era distribuita in moltissimi villaggi, autonomi e indipendenti fra loro.

2. I villaggi:
Quanti erano? Secondo l’archeologo Giovanni Ugas da 2500 a 3000 con una popolazione da 500.000 a 700.000 (molto di più di quella che aveva ipotizzato Giovanni Lilliu: 2000.000)
Il capo del villaggio era scelto in base alle sue capacità, soprattutto morali, I sudditi vivevano in villaggi fatti di piccole capanne a pianta circolare con alla base un muro in pietra a secco e una copertura a cono di legno raggruppate presso i nuraghi. L’interno di ogni capanna era costituito da una sola camera: al centro stava il focolare, lungo le pareti erano ricavate delle panche per sedersi e delle nicchie per gli oggetti d’uso.
Ancora oggi, anche se sempre di meno, i pastori costruiscono questo tipo di capanne; in sardo si chiamano pinnetas .
Si dormiva stesi a terra su strame e pelli. La vita era estremamente semplice: gli uomini si dedicavano soprattutto alla pesca e alla caccia: erano numerosissimi i cervi e i cinghiali, i daini e i falchi, i colombi e le pernici ma soprattutto le mufle e i mufloni, le lepri, i conigli e le galline prataiole.
I nuragici si dedicavano anche alla coltivazione agricola e alla pastorizia: ammansivano qualche mufla per il latte e il formaggio che serviva alla famiglia ma non allevavano grossi greggi di animali come saranno poi costretti a fare con le varie dominazioni, soprattutto quella romana né coltivavano grossi appezzamenti di terreno ma solo quanto serviva per l’autoconsumo.
Le donne tessevano, intrecciavano cesti e stuoie, preparavano i cibi. Tra gli oggetti ritrovati, il bronzo e il rame erano usati sopratutto per armi, accette, coltelli, mentre si faceva ancora impiego della pietra, dell’ossidiana, dell’osso e della ceramica.

3. I Nuraghi
I nuraghi sono grandiose costruzioni ricavate con massi enormi sovrapposti a secco e tenuti insieme dal loro peso. Essi venivano generalmente costruiti sulla cima delle colline:
I nuraghi sardi sono migliaia (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali). Essi sono costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmen e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo.
Tra i nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico grande vano interno, alcune nicchie scavate nell’intercapedine e una scala, anche lei scavata nell’intercapedine, che porta alla sommità della torre.
Ci sono anche molti nuraghi più complessi formati da più torri
raccordate a una torre centrale; hanno molte stanze, possono avere più di un piano e poi corridoi, scale e camminamenti coperti: sono le “fortezze” nuragiche, di arcaica bellezza e maestosa complessità come il nuraghe Losa presso Abbasanta (NU), il nuraghe Santu Antine di Torralba (SS) e il complesso Su Nuraxi di Barumini (CA) dichiarato patrimonio dell’umanità dall’UNESCO.

4. Funzione dei Nuraghi
Sulla funzione dei nuraghi non si può dare una risposta definitiva a tutti gli interrogativi che li riguardano. Alcuni storici ritengono che fossero destinati alla vigilanza e alla difesa, soprattutto quelli più complessi, che per la loro struttura e la posizione che occupano confermerebbero l’uso dei nuraghi come fortezze.
Altri che in queste case fortificate abitassero i capi tribù con la loro famiglia e la loro guarnigione: qualcosa di simile ai castelli medievali. Non è escluso che qualche nuraghe fra i più piccoli fosse semplicemente un’abitazione di pastori e che qualcuno più complesso sia stato usato per una destinazione diversa.
Un’altra ipotesi invece sostiene che i nuraghi fossero inabitabili per mancanza d’aria e di luce oltre che per il freddo e l’umidità e che erano incapaci ad assolvere le funzioni militari proprie dei castelli per gli spazi ridotti al loro interno; da ciò dovrebbe conseguire che avessero esclusivamente destinazione religiosa e funeraria: ovvero che i nuraghi semplici fossero usati come templi da singolo gruppi familiari. Queste le ipotesi sostenute nel passato: oggi molti archeologi e storici tendono sempre più a sostenere che i nuraghi fossero semplicemente dei Monumenti, senza alcuna funzione e utilizzo particolare, monumenti che ciascun villaggio costruiva per affermare la propria autonomia e indipendenza; altri, ancor più numerosi, che avessero una funzione astronomica.

5.Nuraghi come osservatori astronomici?
Un’altra ipotesi presa in considerazione dei ricercatori è quella che vede nei nuraghi una funzione prevalentemente astronomica descrivendoli come dei veri e propri osservatori fissi della volta celeste, disposti sul territorio secondo precisi allineamenti con gli astri, e abitati da sacerdoti astronomi. Secondo lo studioso Mauro Peppino Zedda i nuraghi furono edificati come osservatori astronomici e le torri sarebbero state disposte secondo precise regole astronomiche e sarebbero state utilizzate per la misura del tempo e per l’osservazione della volta celeste avvalorando l’ipotesi della funzione sacra di questi edifici i quali sarebbero viste come templi custoditi da sacerdoti astronomi.https://it.wikipedia.org/wiki/Nuraghe – cite_note-33.
Lo studioso sostiene che le torri del nuraghe trilobato Santu Antine siano state dei punti di osservazione per mezzo dei quali era possibile osservare il sorgere del sole sia al solstizio invernale sia al solstizio estivo, e dalle stesse si poteva osservare – sempre ai solstizi – il tramonto del sole. Secondo lo studioso il nuraghe Santu Antine è “l’apparecchio realizzato a secco tecnicamente più sofisticato di tutta la superficie terrestre”. Grazie alla loro posizione – sostiene lo studioso – “gli antichi Sardi erano in grado di stabilire la scansione temporale delle stagioni e avevano riferimenti spaziali sulla terra”.
La tesi di Mauro Zedda pare essere confermata da un grande archeoastronomo, Arnold Lebeuf, che a Cagliari il 4 maggio 2011 ha sostenuto: “Il pozzo nuragico di Santa Cristina? Un osservatorio astronomico perfetto. Un sistema raffinato per calcolare un fenomeno di grande complessità come quello delle fasi lunari e prevedere le eclissi”.
Sembra dunque non avere dubbi Arnold Lebeuf, francese archeoastronomo, docente di storia delle religioni presso l’università di Cracovia che scoprì per caso l’esistenza del pozzo sacro nel 1973, in un convegno in Bulgaria, grazie a un articolo di Carlo Maxia ed Edoardo Proverbio.
Molti anni dopo, nel 2005, approdò nell’isola per compiere ricognizioni e studi approfonditi ora raccolti nel volume, Il pozzo di Santa Cristina, un osservatorio lunare (edizioni Tlilan Tlaplan).Oltre duecento pagine, tra testi, calcoli scientifici, splendide foto (in parte realizzate dal fratello Guillaume e Tomas Stanco) che raccontano una tesi sbalorditiva. Tremila anni fa su quell’altopiano a due passi dalla Statale 131, i nuragici edificarono, nell’arco di diversi anni, una elaboratissimo osservatorio. Tale da suggerire conoscenze astronomiche e scientifiche avanzatissime in un’epoca così lontana. Un fatto probabilmente unico nella nostra geografia occidentale.
E così sul sito archeologico improvvisamente sembrerebbe accendersi una luce e allo stesso tempo aprirsi un enigma. Perché di quel raffinato sapere nuragico non è rimasta traccia? Si deve forse rivedere la tesi il pozzo fosse dedicato al culto delle acque?
“L’uno non esclude l’altro – risponde Lebeuf – Era un tempio delle acque come tantissimi altri nell’Isola. Qui, come citavano già Maxia e Proverbio nel loro articolo, la luna si rispecchia nel fondo del pozzo ogni 18,6 anni. Si chiama il ciclo del drago. Quando lo vidi nel 2005, costruito con le pietre e i gradini a degradare restai impressionato. E mi chiesi: se davvero si può verificare che la luce della luna ogni 18 anni giunge nel fondo del pozzo vuol dire che negli altri anni arriverà ad altri livelli. E questo significa che il sito non è più solo un luogo rituale, ma forse, un autentico strumento scientifico. Cioè un osservatorio. Non ha nulla a vedere con l’orientamento dei templi o delle chiese. A Santa Cristina è qualcosa di diverso e straordinario. Soprattutto per l’epoca: mille anni prima della nostra era. Qualcosa da far venire il mal di testa agli storici della scienza”.
Sulla stessa linea di Zedda e Labeuf si muove l’ingegner Paolo Littarru, studioso di archeoastronomia che in un’intervista dell’8 Giugno 2020 a Michela Girardi di Vistanet.it afferma: “Sì. il titolo (parla del suo libro Il contadino che indicava la luna) è volutamente provocatorio e allude al proverbio cinese secondo il quale “quando il saggio indica la luna, lo stolto si sofferma il dito”. Ho raccolto in un libro la vicenda scientifica di cui, per certi aspetti sono testimone oculare diretto. Tento di raccontare come per primo il linguista Massimo Pittau, recentemente scomparso, abbia demolito, fin dal 1979 il paradigma militarista di Antoniom Taramelli – Lilliu e successivamente l’architetto Franco Laner (che nel libro definisco “L’accabadore” del paradigma), abbia dato il colpo di grazia all’interpretazione militare del nuraghe, evidenziandone l’afferenza alla sfera del sacro”.
Littarru allude all’interpretazione del nuraghe come fortezza.
“L’archeoastronomia – prosegue Littarru –completa la demolizione del paradigma, ci conferma e ci rivela una destinazione “sacra” e “simbolica” dei nuraghi che per nulla si concilia con le interpretazioni attuali e mondane dei nuraghe come magazzini, case o, peggio ancora “centri polifunzionali”. Tali interpretazioni ritengo siano del tutto infondate.
Ho scritto questo libro per  la necessità di raccontare questa piccola rivoluzione scientifica, seppure in salsa locale, perchè nessuno possa dire “Non c’ero” o non sapevo. Ritengo di poter affermare che l’astronomia sta allo studio dei nuraghe come il Cristianesimo sta alla civiltà europea medioevale o l’Islam a quella Araba. Come felicemente sintetizza l’epistemologo Silvano Tagliagambe, che mi ha onorato con la postfazione del libro, “l’astronomia costituisce la chiave interpretativa imprescindibile per la comprensione della civiltà nuragica”.

6. Nuraghi semplici
Tra le migliaia di nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico grande vano interno, alcune nicchie scavate nell’intercapedine e una scala, anche lei scavata nell’intercapedine, che porta alla sommità della torre.
Un esempio di come doveva essere un villaggio nuragico è visibile a Barumini (CA) dove intorno alla maestosa “reggia nuragica”, si sviluppa un complesso agglomerato di capanne, recinti e costruzioni di vario tipo.

7. Il clima dell’età nuragica.
Secondo i paleoclimatologi (studiosi del clima antico) nell’epoca nuragica il clima era caldo umido con “ampio sviluppo di flora lussureggiante di tipo tropicale e habitat favorevole alle specie animali. Il nuraghe si sviluppò soprattutto in questo momento climatico, forse anche a seguito di una maggiore spinta demografica derivata dalle migliorate condizioni di vita e di alimentazione proprio per effetto del clima e degli animali selvatici che fornivano cibo facile e abbondante per tutti”.(Franco Serra)
La maggior parte del clima del periodo nuragico era quello oggi classificabile come atlantico caldo-umido, proprio delle attuali fasce intertropicali, caratterizzato da temperature piuttosto elevate, moderata escursione termica, piovosità abbondante.
La temperatura atmosferica media durante il mese più freddo dell’anno non era inferiore ai 18° centigradi per cui l’inverno era praticamente inesistente. Il numero dei giorni piovosi variava in rapporto alle diverse zone dell’Isola dai novanta ai centocinquanta l’anno. Insomma c’erano ogni anno dai 3 ai 5 mesi di pioggia. Le medie annue delle precipitazioni atmosferiche erano intorno ai 1500-2000 (oggi oscilla fra i 400/500 millimetri).
Un altro studioso, Francesco Fedele, confermando le osservazioni del paleo climatologo Franco Serra ribadisce che: “una vegetazione ricca copriva il suolo dell’Isola e lo sviluppo delle specie selvatiche era proporzionato a questa ricchezza. L’alimentazione degli abitanti della Sardegna poteva dunque essere completa:frutti della terra, cereali, latte e derivati,, grassi uova, miele, pesci e molluschi.
Numerosi prodotti spontanei forniscono sostanze per uso quotidiani:corna e palchi di erbivori per gli arnesi; lana per le vesti;legna da ardere e ramaglie per la costruzione delle pareti; legno scelto per ciotole e sughero per recipienti; frutti del lentisco e dell’olivastro, pestati, per olio da illuminazione e da condimento, orzo e frumento per farina”.

8. L’economia della Sardegna nuragica.
In ragione di questo clima molti storici parlano perciò di un’economia della Sardegna come economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce, formaggi, sale, stoffe, vini. Oltre che oro, argento, rame E anche la musica delle launeddas.
9. I Nuragici conoscevano la vite e il vino?
Semi di vernaccia e malvasia risalenti a circa tremila anni fa sono stati ritrovati nel pozzo che faceva da ‘frigorifero’ a un nuraghe nelle vicinanze di Cabras. La prova del carbonio 14 effettuata dal Centro conservazione biodiversità dell’Università di Cagliari conferma la datazione e fa ritenere che la coltura della vite nell’Isola fosse conosciuta sin dall’età del bronzo.

Riporto integralmente un articolo apparso su “Il Sole 24ore di Maria Teresa Manuelli  del 28 gennaio 2015
I vitigni più antichi del Mediterraneo occidentale si trovano in Sardegna e appartengono al cultivar della vernaccia e della malvasia. E’ la recentissima scoperta dell’équipe del Centro per la Conservazione Biodiversità dell’Università degli Studi di Cagliari. Sino ad oggi, i dati archeobotanici e storici attribuivano ai Fenici e successivamente ai Romani il merito di aver introdotto la vite domestica in questa parte del Mare Nostrum, ma la scoperta di un vitigno coltivato dalla civiltà nuragica riscrive, non solo la storia della viticoltura in Sardegna, ma dell’intero Mediterraneo occidentale.
Entrano in azione i paleobotanici
Tutto ha inizio una decina d’anni fa, quando gli scavi per la costruzione di una strada provinciale nella provincia di Oristano, a Sa Osa (Cabras), portano alla luce un sito archeologico risalente all’epoca nuragica. Le diverse strutture restituite alla luce nascondevano un tesoro biologico, ovvero dei pozzi scavati nella roccia dagli abitanti preistorici per conservare gli alimenti. Di altezza tra i 4,5 e i 6 metri, erano dei veri e propri ‘protofrigoriferi’ che hanno trasmesso integri fino a noi diversi materiali organici, vegetali e animali, destinati all’alimentazione: non solo i semi di vite, ma anche noci, nocciole, semi di fico, pigne da pinoli, leguminose, carne di cervo, pesce… Da questa scoperta è partito il lavoro dei paleobotanici del Centro per la Conservazione Biodiversità e solo un lungo e paziente lavoro di ricerca ha portato ai risultati pubblicati pochi giorni fa.

Semi perfetti dopo millenni
“L’eccezionalità di questa scoperta – dichiara Gianluigi Bacchetta, direttore scientifico del Centro Conservazione Biodiversità – è anche lo stato di conservazione di questi prodotti: praticamente perfetti, grazie all’assenza di ossigeno e alla forte umidità. I semi sono arrivati a noi così come sono stati posti nei pozzi”.
In collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano, gli oltre 15mila semi di vite ritrovati nel sito nuragico, sono stati poi datati al Carbonio14 come risalenti a circa 3.000 anni fa, periodo di massimo splendore della civiltà nuragica, scoprendo così che la viticoltura come la conosciamo noi oggi era già nota ai nostri antenati ben prima dell’arrivo di Romani e Fenici.

Antenati della Vernaccia
“Non solo – continua Bacchetta. Grazie alla perfetta conservazione si è potuto risalire anche alle varietà. In alcuni pozzi i semi appartenevano alla vite silvestre, pianta autoctona attualmente presente in Sardegna, mentre altri portavano già caratteri intermedi tra questa e le moderne cultivar di vitis vinifera. In particolare questi sembrano appartenere alle cultivar a bacca bianca, mostrando forti relazioni con le varietà di vernacce e malvasia coltivate ancora oggi proprio nelle aree della Sardegna centro-occidentale, nell’oristanese”.
Gli antichi sardi quindi conoscevano la domesticazione della vite e la viticoltura, resta da stabile se conoscessero anche la vinificazione. “La nostra ricerca prosegue in questa direzione. Vicino a Monastir, in provincia di Cagliari, è stato trovato un antico torchio nuragico, età del bronzo quindi, probabilmente utilizzato per fare il vino. Ma bisogna essere cauti. In Sardegna abbiamo un enorme patrimonio archeologico accumulato nelle strutture museali, ancora da studiare per capire la paleodieta, le coltivazioni, le conoscenze dell’epoca che erano molto avanzate rispetto a quello che pensiamo noi. Non dimentichiamo che la Sardegna era al centro di una grande rete di traffici che portava il vino sardo, e non solo quello, da una parte all’altra del Mediterraneo tra il primo e il secondo millennio prima di Cristo”. Un’attività vitivinicola fiorente testimoniata dal ritrovamento di anfore vinarie da trasporto provenienti dalla Sardegna, le cosiddette «zit a», un po’ dappertutto nel Mediterraneo occidentale, fino a Cartagine.
Prossimo passo consisterà quindi nel mettere in connessione l’enorme patrimonio archeologico sardo per approfondire usi e costumi alimentari di questa antica popolazione e stabilire le relazioni con quelli attuali, in sinergia con la Banca del Germoplasma che raccoglie, studia e classifica tutti i taxa vegetali endemici, rari, minacciati della Sardegna

10. La Sardegna Isola felice.
La Sardegna l’Isola vasta e feconda per Apollonio (II secolo a.c., libro IV Argonautiche); con un popolo prospero e felice per Diodoro Siculo (I secolo a.c., autore della monumentale storia universale la Biblioteca storica); poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola felice è Isola libera, indipendente e senza stato: acefala la definirà Lilliu.

11. La religione nuragica.
I nuragici avevano una religiosità di tipo naturalistico fondata sull’adorazione degli elementi della Natura, considerati come contenenti lo spirito divino: erano oggetto di culto le pietre, gli alberi e particolarmente radicato era il culto dell’acqua, piovana o sorgiva, considerata preziosa.
Esisteva anche il culto dell’acqua che era considerata un dono dato alla terra dalla Dea Madre. Il culto dell’acqua è strettamente legato al tipo di economia agro-pastorale dei nuragici. Dall’acqua infatti dipendevano l’agricoltura e il bestiame e di conseguenza la sopravivenza dei nuragici.
Per questo furono costruiti dei templi a pozzo dove l”acqua sorgiva veniva talvolta raccolta in templi sotterranei a pozzo e ad essa si chiedeva la fertilità dei campi e dove si svolgevano le cerimonie legate al culto delle acque.

13. I pozzi sacri
I templi a pozzo hanno una struttura composta di tre parti essenziali: il vano di ingresso, al livello del suolo, la scala che scende nel terreno e il vano interrato, con la volta a falsa cupola. Sul fondo del vano interrato, ai piedi della scala c’è la fonte sacra. In superficie un recinto di pietre delimita l’area sacra.
In Sardegna esistono circa 40 templi a pozzo.
Oltre al culto delle acque, i nuragici continuarono a praticare il culto della Dea Madre e del Dio Toro, potente coppia divina già oggetto di adorazione in età prenuragica.

14.La sepoltura
Anche i morti erano oggetto di culto. Essi venivano sepolti nelle Tombe dei Giganti che avevano la forma della testa del toro. Davanti alla Tomba dei Giganti si svolgeva il rito dell’incubazione: chi aveva bisogno di consigli o di cure li riceveva nel sogno, dormendo nello spiazzo davanti alla tomba anche per parecchi giorni. Nelle tombe dei giganti si seppellivano intere tribù.

15.betili
Spesso di fronte alla facciata della tomba dei giganti è presente un piccolo menhir, chiamato in sardo betile.
I nuragici comunque continuarono anche ad usare gli antichi tipi di sepolture come le domus de janas

16. I Nuragici conoscevano la scrittura?
Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici e dunque i Nuragici non la conoscevano. Da anni però alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale sostenendo che la scrittura sillabica in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano e l’utilizzavano.
A sostenere tale tesi vi è soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna che si occupa con una rigorosa e ormai decennale ricerca sull’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione (documentata in modo particolare nell’opera Sardoa Grammata,Editrice s’Alvure, Oristano, 2004) che i Nuragici conoscessero, utilizzassero e leggessero la scrittura.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle tavolette di Tzricotu (con le quali condivide chiari identici ‘principii’ e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna della fine del Secondo Millennio a.C., non di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della lingua nuragica; il rinvenimento di testi (come quello dei “cocci” nuragici di Orani) con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura del documento in base a nuove stupefacenti scoperte epigrafiche (i due “shalam” laterali, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma nella primavera di quest’anno), scoperte che spingono nella direzione di due letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura nuragica “numerica” a rebus, che dà un significato eccezionale nella storia della scrittura (anche perché del tutto imprevedibile) al documento; l’inopinata comparsa del nome di un “santo” nuragico, oggi santo celeberrimo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta, che fa scendere definitivamente dal piedestallo il falso Pumay”.
A conferma della presenza della scrittura nuragica inoltre, da più di un decennio, lo studioso oristanese ha proposto soprattutto le tavolette di Tzricotu di Cabras e il sigillo di S. Imbenia di Alghero oltre i “cocci” nuragici di Orani.
Eppure c’è da scommettere – scrive Sanna – che da parte dei soliti negazionisti e i feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio. Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione le vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi.

17. L’arte nuragica
a. I bronzetti
Anche a prescindere dalla conoscenza o meno della scrittura, dalle testimonianze dell’architettura e dell’artigianato possiamo ricostruire il modo di vivere, le abitudini e la cultura delle genti nuragiche.
I bronzetti, che furono eseguiti tra il VIII e il III secolo a.c: sono piccole statuine di bronzo che rappresentano uomini, animali, navicelle votive, (a conferma che i Nuragici erano grandi navigatori in tutto il Mar Mediterraneo e anche oltre), oggetti e avevano sia funzione di ex-voto che venivano offerti in dono alla divinità, ma anche pratica e ornamentale.
I bronzetti rivelano, infatti, molti aspetti della vita sociale delle genti nuragiche e dell’ambiente naturale nel quale vivevano: riproducono infatti strumenti di lavoro o di trasporto, come i carri e le navicelle; uomini di diverso rango sociale: capi, sacerdoti, guerrieri, pastori, suonatori, pugilatori, madri col proprio figlio; esseri soprannaturali dotati di molti occhi e di molte braccia, legati ad un mondo religioso del quale non riusciamo a capire pienamente i valori; animali domestici e non come buoi, pecore, mufloni, cinghiali, cervi, colombe, cani. Solo il cavallo non viene riprodotto, segno che i nuragici non lo conoscevano.

b. La scultura
Gli scultori nuragici rappresentavano spesso nelle loro opere gli stessi nuraghi: ci sono pervenuti numerosi esemplari di nuraghe in pietra, argilla e anche in bronzo, provenienti dai santuari.

c. L’architettura
L’architettura nuragica è scritta nelle rocce e con le pietre, con l’invenzione della volta ogivale, dell’arco acuto, del tempio tronco conico in pietra grezza, delle scale elicoidali entro coni di pietra, dei circoli megalitici, delle esedre, stele, absidi, ellissi, tombe di giganti, dolmens, betili mammellati.

c. La ceramica
la produzione ceramica si caratterizza per la presenza di vasi, spesso a pasta grigia, di varie forme con decorazioni geometriche e con motivi impressi o incisi: cerchielli concentrici, zig-zag, semplici linee e grossi punti.

d. I Giganti di Mont’ ‘e Prama
Nella lontana primavera del 1974 un contadino di Cabras nel Sinis, per caso, con l’aratro, mentre lavora il suo terreno, cozza contro una testa di pietra con gli occhi sbarrati. La scoperta viene segnalata alle autorità competenti e fin dal 1974 iniziano gli scavi, condotti da Lilliu e da alcuni docenti e allievi dell’università di Cagliari, che poi verranno proseguiti nel 1979 sotto la direzione di Carlo Tronchetti, portando alla luce i frammenti di 32 statue, oltre 4 mila. Sciaguratamente, per ben 32 anni essi verranno abbandonati, a sgretolarsi, negli scantinati bui e umidi del Museo archeologico di Cagliari. Perché? “Non sembrava un ritrovamento così importante” e “mancavano gli spazi … oltre che i soldi”: fu la risposta ufficiale. Dopo decenni la Sovrintendenza ai beni archeologici di Sassari e Nuoro assegna un appalto da un milione e 6oo mila euro per restauro, ricomposizione e musealizzazione dei reperti a Li Punti a Sassari, dove vengono ricoverati. Oggi, a restauro finito, l’odissea delle 32 statue di pietra arenaria non sembra finita. Non c’è accordo su dove portarli: le si vorrebbe divise fra Cabras e Cagliari. Che si portino subito a Cabras, dove sono state ritrovate. E soprattutto che si inizi a rivedere vecchie certezze storiche e archeologiche “perché – come ha affermato Maria Antonietta Boninu, responsabile del progetto – se tutte le evidenze scientifiche fin qui raccolte verranno finalmente riordinate andrà riscritta la storia dell’arte, perché si dovrà rimettere in discussione il primato della Grecia sulla statuaria del Mediterraneo”.
Le statue sono scolpite in arenaria gessosa del luogo e la loro altezza varia tra i 2 e i 2,5 metri; rappresentano arcieri, spadaccini e lottatori.
Le sculture ricostruite in seguito al restauro sono risultate in totale trentotto: cinque arcieri, quattro non riconosciuti, sedici pugili, tredici modelli di nuraghe; tuttavia le nuove campagne di scavo hanno portato alla scoperta di nuovi esemplari.
A seconda delle ipotesi, la datazione dei Kolossoi – nome con il quale li chiamava l’archeologo Giovanni Lilliu – oscilla dal IX secolo a.C. (900-801 a.C.) o addirittura al XIII secolo a.C. (1300-1201 a.C.), ipotesi che potrebbero farne fra le più antiche statue tridimensionali isolate dallo sfondo del bacino mediterraneo, in quanto antecedenti alle statue della Grecia antica, dopo le sculture egizie.

18. I Nuragici erano immuni dalla malaria.
In età nuragica la Sardegna era immune dalla malaria mentre la presenza dell’antico flagello è accertata per l’età cartaginese. È il risultato di uno studio storico-paleoimmunologico condotto nel 2013 dal dipartimento di Scienze Biomediche dell’università di Sassari, da quello di Scienze della Salute Pubblica e Pediatriche dell’ateneo di Torino e dalla divisione di Paleopatologia dell’università di Pisa. È stata inoltre verificata la presenza della leishmaniosi umana (un’antropo-zoonosi) nella forma viscerale, da mettere verosimilmente in relazione con il ravvicinato contatto degli allevatori-cacciatori raccoglitori con i cani.Lo studio «Approccio paleobiologico alla storia della malaria e della leishmaniosi in Sardegna dall’età Prenuragica al Medioevo» è stato condotto da un gruppo di ricerca su materiali osteoarcheologici forniti dalle Soprintendenze alle antichità di Cagliari e di Sassari, con fondi della Fondazione del Banco di Sardegna. Sulla base di una cartografia della malaria (collegata ai dati paleoclimatici), il gruppo di ricercatori ha impostato il lavoro con screening di ampia portata sulle collezioni osteoarcheologiche, capaci di accertare la presenza del patogeno. Nel caso della malaria, l’utilizzo di questi test, la cui sensibilità e specificità su materiale antico è già stata confermata in studi precedenti, permette di identificare le proteine delle diverse specie del genere Plasmodium (falciparum, vivax, ovale, malariae). Le indagini paleo immunologiche sono state effettuate su campioni di siti di varie aree geografiche, corrispondenti a diverse epoche storiche e datati con il metodo del radiocarbonio: età nuragica; età fenicia ; età romana; prima età moderna. Non sono stati identificati casi di malaria, nè di leishmaniosi umana nei reperti osteologici provenienti dai siti di età nuragica. Sono invece risultati positivi alla malaria due campioni esumati da siti come quello di Sa Figu (600 – 560 a.C., periodo Cartaginese). Qui è stato rilevato anche un possibile caso di co-infezione malaria-leishmaniosi.
Secondo molti studiosi sarebbe stata portata attraverso le truppe puniche guidate dal generale Malco e sbarcate in Saregna nel 540 a.C.
Pare, fra l’altro, che la malaria sia all’origine della bassa statura dei sardi, diminuendola, mediamente di 5/7 centimetri.
Le zanzare anofele rappresenteranno nell’Isola – per due millenni e mezzo – un vero e proprio flagello. Fino al 1946-50 quando saranno sterminate da industriali dosi di DDT con la Rockefeller Foundation.

Come vedono la civiltà nuragica due scrittori sardi: Sergio Atzeni e Eliseo Spiga e il più grande archeologo della Sardegna Giovanni Lilliu-

1. SERGIO ATZENI
“Non so definire la parola felicità. Ovvero non so che sia la felicità. Credo di aver sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado). E’ la felicità? Così breve? Così poca?
Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è la felicità.
Passavamo leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi nel mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.
A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascoli e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo,bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti[…]”
[Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ed. Mondadori, Milano 1996, pagine 28-29]

2. ELISEO SPIGA
”Anche il giardino che avevano esplorato i suoi antenati era certamente un paradiso terrestre dove c’era tutto quanto gli uomini avessero potuto desiderare per condurre una esistenza non ricurva. In questo non vigevano divieti o avvertimenti minacciosi e tutto vi avrebbero potuto conoscere. Non c’erano lupi, draghi o demoni. Non vi si nascondeva il serpente che avrebbe tentato le donne che andavano a cogliere le pere, i fichi, le bacche di corbezzolo, le erbe aromatiche o a prendere il miele dalle cavità delle querce o i cristalli di sale lavorati dal sole nelle buche calcaree o che scendevano nelle acque smeraldine racchiuse fra gli scogli a lavarsi delle dolci fatiche notturne.
Tra le garighe di timo odoroso e le steppe di sparto crescevano gli iris azzurri, le margherite a foglia grassa, i narcisi canicolari, i cespugli giallo-oro del tagete, le rose, la scrofularia a tre foglie, e le altre ortiche meno mansuete, e più in basso, verso gli stagni listati dalla salicornia purpurea, le foreste di pini, i canneti ondeggianti, le tife-fieno di stuoia, i tamerici e mille altri fiori arbusti e piante.
Sotto quell’eterno verde variamente sfumato e enfatizzato dalle punte bianche delle rocce e dalle macchie fiorite, tra il lentischio il rovo lo spinacristi e il ginestrone, schizzavano i prolaghi e chiocciavano le pernici, incuranti di volpi gatti e donnole, mentre tutt’intorno era un continuo aleggiare di uccelli di ogni specie: germani e anatre di tutte le forme e colori, oche, folaghe, gabbiani,piccioni, stornelli, gruccioni, aquile di mare e di monte; e un discreto passeggiare di gallinelle, di sontuosi polli-sultano dall’incredibile livrea turchina e dalle zampe rosso-corallo; e un frusciare di fenicotteri, che a migliaia in formazioni a cuneo, attraversavano il primo e l’ultimo sole della giornata. E cervi daini mufloni e cinghiali, distrattamente vagabondando, si fermavano per cibarsi di carrube e ghiande, abbondanti nella laguna di monte […]”.
[Eliseo Spiga, Capezzoli di pietra, Zonza editore, Cagliari 1998, pagina 50]

3. GIOVANNI LILLIU
Il 23 Novembre 2009 ha fatto una lectio magistralis sui «Contadini e i pastori nella Sardegna neolitica e dei primi metalli» la settimana di studi su «La preistoria e la Protostoria della Sardegna», convegno promosso annualmente dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e quest’anno dedicato all’isola, con appuntamenti a Cagliari, Barumini e Sassari.
 Lilliu ha novantaquattro anni ed è l’archeologo che ha gettato le basi per le moderne conoscenze sul passato della Sardegna, combinando uno studio analitico fondato su scavi e dati concreti a intuizioni geniali, come ad esempio la scoperta della reggia nuragica di Barumini, uno dei più significativi siti archeologici dell’isola, sicuramente il più conosciuto al mondo per quanto riguarda l’era nuragica. Dalla sua ricostruzione socio-economica degli antichi sardi è emersa l’idea di un momento aureo del passato isoano. Infatti:
1.Nella Sardegna preistorica ci fu un’età aurea in cui gli abitanti vivevano di agricoltura e caccia ed erano un popolo pacifico di laboriosi artigiani. Producevano in abbondanza e si dedicavano ai commerci, spingendosi in ogni angolo dell’isola e anche oltre il mare, tanto che tracce della loro cultura si sono ritrovate in Francia e in Spagna.
2.Ma soprattutto era un popolo libero e indipendente, prima che dal mare arrivassero colonizzatori portatori di nuove culture, spesso imposte con le armi e la guerra.
3.le raffinate opere di architettura sacra (ad esempio l’altare di Monte d’Accoddi-Sassari) e funeraria (le grotticelle ipogeiche di Sant’Andrea Priu-Bonorva, di Mandra Antine-Thiesi, di Montessu-Villaperuccio)
4.le eleganti ceramiche con le decorazioni tipiche di quel periodo, i gioielli e gli ornamenti rinvenuti nelle sepolture, utilizzati come corredo e protezione magica dei defunti.
5.In esse già si coglieva una certa aspirazione democratica, dove anche il singolo partecipava attivamente alla crescita della comunità.
6.Ecco, in estrema sintesi, il quadro della civiltà che gli studiosi definiscono di “Ozieri o San Michele” e fanno risalire al Neolitico recente (tra il 3500 e il 2500 a. C.). Un’età mitica, forse ineguagliata nella preistoria della Sardegna, che si anima come un paradiso perduto nelle parole di Lilliu.
Conclusioni
La Proposta di includere la Civiltà nuragica nel Patrimonio culturale dell’Umanità*.

“L’idea di proporre l’inclusione dei monumenti della Civiltà nuragica nel Patrimonio culturale dell’Umanità dell’Unesco, nasce dalla presa di coscienza dell’importanza che negli ultimi decenni essi hanno assunto per i Sardi, quali segni fondamentali della loro identità a fianco degli altri grandi valori culturali e naturali posseduti. La Sardegna appare come un Museo aperto, con innumerevoli beni culturali e paesaggisti, spesso poco conosciuti agli stessi Sardi nonostante la loro importanza scientifica e bellezza. A questo sentire, corrisponde l’azione di salvaguardia da parte delle Istituzioni attraverso le norme di tutela statali, regionali e comunali, ma è necessario un ulteriore sviluppo di questa sensibilità generale per tutelare e fruire, attraverso un’attenta gestione dello straordinario patrimonio culturale, con il concorso di tutta la comunità isolana ma anche con il fondamentale supporto dello Stato italiano e dell’Unesco. L’istanza presentata alla Commissione Nazionale Italiana Unesco lo scorso 30 settembre deve dimostrare L’Eccezionale Valore Universale e l’Autenticità e Integrità dei Monumenti nuragici. Per la sua strategica posizione insulare, il suo clima mite, la fertilità dei suoli, la bellezza e le notevoli risorse naturali, celebrate già dagli scrittori classici, la Sardegna attrasse a più riprese i gruppi umani e divenne un crocevia di genti, provenienti da vari angoli del Mediterraneo e d’Europa per commercio o per emigrazione, che hanno forgiato le sue radici culturali e ad un tempo influito sui cambiamenti e sulla particolare conservazione del suo straordinario aspetto naturale, plasmandone l’identità. L’antico ruolo centrale dell’isola emerge particolarmente dalle innumerevoli testimonianze dell’architettura della pietra che, integrandosi armoniosamente con la natura dei luoghi, originano uno straordinario paesaggio culturale, segnato da due fenomeni eclatanti, talora intersecantisi: il megalitismo, inteso nella sua accezione più ampia, vale a dire l’architettura sopra suolo della (grande) pietra; l’ipogeismo, vale a dire l’architettura ctonia, sotterranea. Il megalitismo isolano trova il suo culmine nell’età del Bronzo, con il diffondersi su tutta l’isola dell’edificio turrito noto come nuraghe, un’opera così mirabile da essere ritenuto dagli antichi autori greci una geniale creatura di Dedalo. La grandiosità e la straordinaria diffusione dei monumenti nuragici (oltre sei mila i siti già censiti), dando un’impronta indelebile al paesaggio sardo, fanno emergere una civiltà di grandi architetti e scultori. Nel dettaglio la Civiltà nuragica, che fiorì per un millennio di anni tra il Bronzo Medio e il I Ferro (circa 1600- 510 a.C.), ci ha lasciato, oltre che numerosi e importanti reperti mobili, i seguenti monumenti, il cui numero è ancora in evoluzione con le nuove ricerche: •
-Nuraghi arcaici (protonuraghi), tipo Front’e Mola di Thiesi, Su Mulinu di Villanovafranca, Is Fogaias di Siddi;
-protonuraghi con cinte megalitiche prive di torri, tipo Frenergazu di Bortigali, Monte Sara di Macomer;
-nuraghi evoluti (castelli e torri) del Bronzo recente e finale, suddivisi in: torri singole o monotorri (es. Nuraxi di Goni); castelli senza cinta esterna (es. Santu Antine di Torralba, e castelli con cinta esterna (es. Nuraghe Arrubiu di Orroli, Domu Beccia di Uras e Casteddu de Fanari di Decimoputzu,;
-nuraghi trasformati in tempio (es. Su Mulinu di Villanovafranca; Nurdole di Oliena);
-nuraghi con villaggi (es. Palmavera di Alghero, La Prisciona di Arzachena; Genna Maria di Villanovaforru e Su Nuraxi di Barumini già inserito nel Patrimonio Culturale dell’Unesco);
-monumenti dei villaggi nuragici (abitazioni, templi dell’acqua, templi “a megaron”, rotonde del consiglio e altri edifici pubblici e privati (es. Santa Vittoria di Serri, Su Romanzesu di Bitti, Sant’Anastasia di Sardara, Sa Carcaredda di Villagrande);
-templi dell’acqua isolati (Su Tempiesu di Orune);
– grotte ad uso santuariale (Grotta Pirosu di Su Benatzu in Santadi) e ad uso funerario (es. Dom’e s’Orcu di Urzulei) dell’età nuragica;
-tombe collettive a corridoio e absidate (“tombe di giganti”): con emiciclo (esedra) di lastre ortostatiche sulla fronte attorno alla grande stele centinata dell’ingresso (es. Li Lolghi di Arzachena); con emiciclo in muratura (San Cosimo di Gonnosfanadiga); senza emiciclo senza fronte e seminterrate (es, su Fraigu di San Sperate);
-tombe ipogeiche con grande stele centinata scolpita sulla fronte (es. Sos Furrighesos di Anela);
-tombe in anfratti (tafoni) nuragiche della Gallura;
-aree funerarie (con tombe a pozzetto, a fossa, a circolo etc.) talora monumentalizzate con betili (es. Monte Prama di Cabras), cippi a forma di nuraghe e grandi statue (Monte Prama di Cabras”.
*di Antonello Gregorini

SCHEDA SULLA CIVILTA’ NURAGICAultima modifica: 2020-12-02T21:41:23+01:00da zicu1
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