Onore a Francesco Pilu

Onore a Francesco Pilu suggestivo cantore, con i Cordas e Cannas, della Sardegna.
Chi sa terra ti siat lebia!
di Francesco Casula

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Dopo lungo e doloroso calvario,oggi è morto Francesco Pilu : la voce, l’anima, il leader dei CORDAS E CANNAS. Una immane perdita per tutta la Sardegna: di cui ha cantato, in modo passionale ed energico la sua malefadada storia, la sua poesia, la sua civiltà: con la nostra lingua nadìa. Orgogliosamente, convintamente.
Qualche anno fa ho avuto occasione di conoscerlo personalmente, in occasione del Premio che come Giuria dell’Ozieri avevamo assegnato a lui e al suo Gruppo, come migliore band musicale sarda.
Amavo ascoltare le sue canzoni, la sua musica, sua e del suo Gruppo,“quattro ragazzi dalle radici affondate nell’alveo profondo delle culture neolitiche e civiltà nuragiche, orientate a una visione futura”, scrivono opportunamente in un bellissimo libro, «Terra Muda», Decimo Lucio Todde e Bruno Piccinnu.
Cordas e Cannas è la più longeva formazione della World musica sarda che da oltre quarant’anni ha deliziato con la sua musica il pubblico sardo e non solo sardo: la band infatti ha fatto conoscere e portato le sue canzoni in varie parti del mondo, dall’Australia agli Stati Uniti, dal Sud America al Nord Europa.
Dei loro canti e della loro musica scrivono ancora e in modo struggentemente lirico, gli Autori di «Terra Muda»:“I Cordas e Cannas liberavano nell’etere musiche e canti profusi in echi risuonanti, sprofondati in abissi primordiali; evocanti i palpiti dell’incanto e dell’ignoto per innalzarsi in riverberi di pietra sulla volta agli orizzonti futuri”.
Una musica, quella della band olbiese che ha saputo attingere dalle sonorità ancestrali dimenticate, per condurle nel vivere di tutti i giorni, al fine di raccontare in musica la storia della Sardegna e nel contempo della stessa più alta letteratura e poesia sarda tradizionale, ad iniziare dai sublimi Peppino Mereu e Montanaru, Francesco Ignazio Mannu e Melchiorre Murenu di cui hanno musicato e cantato i loro più bei cantici. Ma anche di Sergio Atzeni, Fabrizio de Andrè, Marisa Sannia e Pinuccio Canu.
Una musica che ha saputo recuperare sonorità indigene, coniugandole e intrecciandole con saund moderni, europei e non solo, di alto livello, proponendosi nel solco di altre esperienze musicali intrernazionali: in tal modo i Cordas e Cannas, proiettano e risvegliano sonos antigos, per condurli nel linguaggio musicale aperto alle espressioni di culture diverse. Rimanendo in tal modo fedeli alla tradizione, ad iniziare da quella orale, ma aperti al mondo, a culture «altre», viepiù arricchenti quella etnica. Così, grazie alla sensibilità musicale, al rispetto di Su Connotu,alla innata creatività e a una grande capacità compositiva, che sono solo alcuni degli affluenti di un prezioso fiume sonoro, in questi quarant’anni la band di Olbia ha potuto soddisfare quel bisogno di musica del nostro popolo, del popolo sardo.
Una musica, quella dei Cordas e Cannas, scrivono ancora gli Autori di «Terra Muda», in termini suggestivi e fascinosi, mitici e fortemente lirici, “concepita nel segno di una nuova coscienza musicale e ambientalista; fiorita fra gli orditi di janas tessitrici, vestite di giungo e paglia, adornate di collane e diademi. Nel suo destino soffia il vento della musica etnica isolana sospinta nei microcosmi musicali di culture diverse, per comporre con evoluti intarsi sonori il mosaico dei popoli minori”.
Un gruppo musicale, quello dei Cordas e Cannas che un poeta come Pinuccio Canu (autore fra l’altro di due testi da loro musicati e cantati (Che foza in su ‘entu e A Manu tenta), «zustamente gosi contat e cantat»: Dae cando at comintzadu, su sòtziu leat una filada e ponet conca a una cherta musicale chi esseret a bessu de ‘ettare a unu e ponner in ispiccu cantu b’aiat in comunu tra su connotu sardu carradu dae ‘ucca in bucca e ateras musicas populares europeas e de atterùe, fintzas a ch’imbatter in sa musica nòdida e famada e in su jazz. S’oriolu e su bisu de sos Cordas e Cannas est cussu de pertziare comente si devet e de suguzare cun afficcu tottu su chi sa musica sarda podiat narrer (siat cussa a boghe sola, siat cussa strumentale) e de nde ‘ogare a pizu totu sos segnales prus semodados e galu aggradessidos a sos de como.
A tali caratteristiche occorrerà aggiungere – ma si sarà ampiamente capito – quella che a mio parere è fondamentale e prioritaria per una band che canta e fa musica etnica isolana: l’utilizzo della lingua sarda. Essendo essa, la nostra lingua materna, la nostra lingua nadìa l’elemento più pregnante e alto della nostra identità. Quella lingua che è soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.
Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine «lirica» e «aoidòs» in greco significa cantore.
Ma «cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso, Leopardi e un poeta del ‘900 come Dino Campana (Canti Orfici).

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E i cantadores sardi, ad iniziare dai poeti improvvisatori che cantano con la lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, «tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano, del tiranno – la Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio.
Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque, ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia e «paristoria, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.
Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, viepiù fredde, commerciali e burocratiche, viepiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini. Come la stessa lingua italiana.

Onore a Francesco Piluultima modifica: 2022-12-28T17:22:51+01:00da zicu1
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