Gli intellettuali federalisti italiani e sardi

L’Unità d’Italia, un’unità biecamente centralista e accentrata, si realizzerà a dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

Di questi i libri di storia non parlano, per molti non vi è neppure un cenno: evidentemente per loro non vi è spazio, questo infatti è occupato per intero dai Cavour, Mazzini, Garibaldi. Eppure sono molti e di grande spessore culturale e politico. Un bel volumetto (1) degli storici Renzo Del Carria e Claudio de Boni documenta con puntigliosità e rigore che erano federalisti la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria (da Cattaneo a Ferrari, da Mamiani a Rosmini, da Cernuschi a Balbo e Gioberti, da Durando ad Amari, da Perez a Ferrara, da Montanelli a Busacca, da Matteucci a Busi, da Lambruschini ad Alberi e Ridolfi) come dell’Italia postunitaria (da Anelli a Bovio, da Mario a Salvemini, da Trentin ai sardi Umberto Cao, Egidio Pilia, Camillo Bellieni, Emilio Lussu). Di cui non conosciamo niente o quasi. Sono moderati altri democratici e progressisti ma tutti sono uniti da una comune analisi: la penisola italiana non era una realtà unitaria, perché dalla protostoria agli albori del Risorgimento, era stata sempre un’entità geografica e mai un’entità politica. E anche quando negli ultimi 500 anni era diventata un’entità culturale, lo era stata solo per una ristretta èlite, per la quale il toscano filtrato dallo “stil nuovo”, da Dante, Petrarca e Boccaccio, era diventata la lingua letteraria <franca>, in graduale sostituzione del precedente latino.

   Ma fino agli albori del ‘700 i vari popoli della penisola italiana costituivano delle <etnie regionali> fra loro ben distinte per usi, costumi, lingue, storia e geografia. E’ questo il motivo principale che porta la gran parte degli intellettuali dell’Italia preunitaria a sposare le tesi federaliste e non quelle unitariste e centraliste, convinti com’erano che solo la forma statuale federalista avrebbe salvaguardato l’autonomia, la diversità e la particolarità di ogni etnia, oltre che la libertà di ogni singolo cittadino.

   Fra i moderati, uno degli esponenti più lucidi è Cesare Balbo che scrive (2) :”La Confederazione è l’ordinamento più conforme alla natura e alla storia italiana perché la penisola raccoglie da sé, da Settentrione a Mezzodì, province e popoli quasi così diversi fra di loro, come sono i popoli settentrionali e più meridionali d’Europa, ondechè fu e sarà sempre necessario un governo distinto per ciascuna di tutte o quasi tutte queste province”.    Sullo stesso versante si muove Giacomo Durando: noi siamo sette nazioni o, se si vuole, sette subnazionalità provinciane. Concentrarsi in una sola non è possibile…l’italiano insulare non è lo stesso che l’eridanio o l’apennino. Il siciliano e il sardo sono, se così posso esprimermi, di una pasta differente da quella di un lombardo”.

   Sulla divisione storica si sofferma anche Terenzio Mamiani: “L’Italia è da secoli divisa e rotta in più stati e ha fra essi poca o veruna comunanza di vita politica, per la qualcosa non potendosi togliere di mezzo le divisioni e volendo pure che l’Italia sia una quanto è fattibile mai, rimane che noi ci acconciamo a quella forma di unità che sola può coesistere con la pluralità degli stati, cioè a una confederazione”.

   Fra i democratici, Carlo Cattaneo insieme a Ferrari, è l’esponente che con maggiore coerenza sviluppa il suo pensiero ponendo l’accento sul nesso inscindibile fra federalismo e libertà. Così scrive: “Non potersi conservare la libertà se il popolo non vi tiene le mani sopra. Sì, ogni popolo in casa sua sotto la sicurtà e la vigilanza degli altri tutti….io credo che il principio federale, come conviene agli stati, conviene anche agli individui. Ognuno deve conservare la sua sovranità personale, ossia la sua libera espressione…la federazione è la sola unità possibile in Italia…è la pluralità dei centri viventi ed è meglio vivere amici in dieci case che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare, ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici qualche cosa che non si appaga con la nuda aritmetica e col brodo”.

   Nella polemica con gli unitaristi e i centralisti insiste Giuseppe Ferrari secondo cui: “L’unità italiana non esiste se non nelle regioni della poesia e della letteratura e in queste regioni non si trovano popoli e non si può ordinare verun governo…la realtà italiana è la divisione storica degli stati, il diritto di ogni italiano è di vivere libero nei propri stati. E a ogni stato la sua assemblea, il suo governo, i suoi ministri, la sua costituzione. La rivoluzione conduce necessariamente le repubbliche a una federazione repubblicana”. E a fronte delle accuse di <divisione> Ferrari rispondeva: ”Fu sparso l’errore che la Federazione volesse dire divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da foedus, vuol dire patto, unione, reciproco legame”.

 Sullo stesso terreno, polemizzando con Cavour, Enrico Cernuschi afferma: “Improvvisata in Italia l’unità, col sopprimere gli stati, sopprime tutti quanti i centri di emulazione, non ne vuole che uno solo, fittizio e odiato da tutti; essa offende gli interessi, le consuetudini e i sentimenti; scompone, in una parola, tutto intero il paese senza poterlo ricomporre perché ci vuole lentezza assimilante o violenza decisa a ricomporre unpaese…la federazione invece mantiene le autonomie, lascia ogni stato padrone del proprio governo, vivifica le emulazioni, acqueta gli interessi”. 

Per il sicilianoFrancesco Ferrara: ”La Sardegna è una specialità alla quale ciò che di più pernicioso può farsi è il volerla costringere ad una assimilazione completa di forme, contrastate a ogni passo dalla natura. Il Piemonte nella sua condizione di possessore di un’isola, può dirsi già fortunato dell’avere incontrato nel buon senso dei Sardi una docilità, anzi una vogliosità di fusione, che non è molto agevole rinvenire nell’indole dell’isolano; ma non ci illudiamo perciò: una nota di gratitudine, uno slancio di patriottismo non bastano a mutare il suolo, il clima, il carattere, i bisogni, le attitudini individuali e produttive, il dialetto, le conseguenze di un lungo passato.

   La grande utopia del secolo è questa delle fusioni: nulla di più agevole che congiungere e assimilare in belle frasi scappate nel calore di una improvvisazione politica….ma nulla di più puerile che l’illudersi sull’effetto reale delle belle frasi. Nella natura materiale non si combinano che molecole affini. Nella natura umana, se vi ha mezzo di combinare due popoli, è quello di non sforzarne le specialità”.

Infine i federalisti sardi.  Per tutti e quattro (Pilia e Cao, Lussu e Bellieni) la lotta contro il centralismo politico si traduce anche in critica del decentramento fino ad allora praticato, perché illusorio oppure limitato al solo momento amministrativo, senza respiri di politica regionale che sorgano dal basso e non siano mere concessioni alla “periferia” provenienti dall’alto.

   Scrive Cao: “La compartecipazione politica della Sardegna nello stato italiano, non dovrà essere limitata all’opera insufficiente di una scarsa dozzina di emissari, ineluttabilmente destinata a disperdersi nella baraonda parlamentare, ad essere irrisa e travolta nella corrotta burocrazia della capitale e vinta dalla sopraffazione dell’affarismo politico degli industriali e degli agrari….occorrerà il ristabilimento di speciali ordinamenti regionali, consoni alla loro natura etnica e allo sviluppo secolare del loro diritto”. E tutto ciò – per Cao – sarà possibile solo “con l’annientamento dell’attuale stato sfruttatore, parassitario, apoplettico, soffocatore”.

   Sostiene Pilia: ”La forma federale repubblicana apparve allora ai migliori dei nostri l’unica che potesse conciliare le esigenze della libertà e indipendenza sarda con le ragioni del movimento unitario italiano; e le pagine immortali del Tuveri e del Brusco-Onnis sono la prova di questo stato d’animo diffuso nell’Isola nei primi decenni dopo l’Unità d’Italia”

   Per Bellieni il riordinamento in senso autonomistico della regione deve dar luogo all’instaurazione di uno stato federale perché “la macchina statale del presente ci soffoca e ci opprime”. 

Lussu infine scrive che “Non basta più dire <autonomia> bisogna dire <federazione>. ”Il Federalismo non è certo una miracolosa <acqua di catrame> fatta per sanare tutti i mali, ma non v’è ombra di dubbio che la cosiddetta crisi della democrazia moderna, è in gran parte prodotto del centralismo statale….e il centralismo statale ha fatto fallimento nel nostro Paese”.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1)Renzo Del Carria-Claudio De Boni, “Gli Stati Uniti d’Italia” ed. D’Anna, Ancona-Mressina 1991

2) Questa citazione come tutte le altre che seguiranno sono tratte dal volume citato al punto 1di Del Carria-De Boni

 

La truffa e l’imbroglio del cosiddetto “Risorgimento italiano”

PREMESSA:

Nonostante la posizione di Cavour, che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self-gouvernement e non il modello franco napoleonico, cui si rifaceva sostanzialmente l’ordinamento piemontese, è la scelta di stato unitario e accentrato ad imporsi con il Risorgimento italiano.

Essa è nel contempo, secondo lo storico marxista Ernesto Ragionieri (1), “specchio e indice dei rapporti di classe allora esistenti” e si ricollega – secondo Giorgio Candeloro (2) – alla “ristrettezza del ceto politico risorgimentale identificabile nell’alleanza della borghesia agraria-mercantile-bancaria centrosettentrionale con quella terriera del Sud comprendenti entrambe la maggioranza dei ceti aristocratici, più o meno imborghesiti, delle varie Regioni”. Quell’alleanza che Antonio Gramsci (3) identificava sostanzialmente nel “blocco storico” composto  della borghesia settentrionale e dal latifondo meridionale.

   Tale ristrettezza è evidenziata esemplarmente dai dati elettorali: nel 1861 su un totale dell’1,9% degli aventi diritto al voto, votarono il 50-60% e un deputato veniva eletto con qualche centinaio di voti. Se causa di tale ristrettezza è la mancata rivoluzione agraria – invano auspicata e sostenuta da Filippo Buonarroti e Carlo Pisacane ma di fatto osteggiata e comunque boicottata dai democratici come lo stesso Mazzini e Garibaldi – e non solo, naturalmente, dai moderati – la conseguenza sarà uno sviluppo economico territorialmente e regionalmente squilibrato.

   Infatti, a un modello di sviluppo economico che implica lo squilibrio territoriale, cioè il sottosviluppo di alcune parti del Paese – nella fattispecie la parte meridionale – è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste Autonomie Locali. Infatti se i Governi regionali avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale degli elettori – sopra citata – e fossero stati provvisti di potere di orientare le politiche e le economie locali in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni locali, avrebbero potuto respingere un tipo di sviluppo che imponeva il sacrificio economico sociale dei loro territori.

   Quel modello di sviluppo presupponeva quindi l’assenza di consistenti Autonomie locali. Di qui risulta chiaro il nesso e l’intreccio fra accentramento politico e amministrativo, modello di sviluppo e alleanze politiche di classe.

   Tale scelta centralistica ha avuto ieri ed ha ancora oggi – sia pure molto meno – i suoi sostenitori, di parte conservatrice e liberale ma anche  se non soprattutto – di parte progressista e di sinistra, a tal punto da avere imposto e da continuare ad imporre al senso comune l’idea dello Stato unitario e centralizzato come la forma più alta e moderna di ordinamento statuale.

   Ogni altra soluzione diversa da quella centralistica e unitaria – ha sostenuto lo storico liberale Rosario Romeo (4) – sarebbe andata a vantaggio delle componenti clericali, perciò antiunitarie, filoborboniche e legittimiste. In altre parole concedere l’Autonomia rinunciando all’accentramento avrebbe significato –  è lo storico Alberto Caracciolo (5) a sostenerlo – “trasferire una parte del potere a forze che erano antagoniste rispetto a quelle che avevano guidato l’unificazione politica e l’ordinamento regionale avrebbe rappresentato un pericolo per l’unità nazionale, tanto faticosamente raggiunta”. Forze e ceti che a causa dell’esiguità e della gracilità del tessuto sociale e culturale sarebbero intenzionati – sempre secondo Caracciolo – a “servirsene in senso regressivo”. Secondo un altro storico, sempre di matrice liberale, Carlo Ghisalberti (6) “ l’accentramento amministrativo è di per sé un dato progressivo, in quanto connesso alla linea di sviluppo dello stato moderno”. In altre parole lo Stato accentrato è visto come soluzione adeguata e necessaria per l’arretratezza della società dell’epoca. In altre parole l’organizzazione e l’assetto centralistico dello Stato è coerente con il modello di sviluppo che implica lo squilibrio territoriale in cui al sottosviluppo di alcune regioni è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste autonomie locali. Infatti dei governi regionali che avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale di elettori sopra citata, e fossero stati provvisti del potere di orientare la politica e l’economia locale in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni, avrebbero potuto respingere e avrebbero respinto un tipo di sviluppo che imponeva e richiedeva il sacrificio economico sociale delle loro Regioni.

    Quel modello di sviluppo presupponeva quindi come condizione necessaria – consapevoli o meno poco importa – l’assenza di consistenti autonomie locali.

    Ma si sostiene l’accentramento anche sul versante politico di sinistra, spesso in modo identico, utilizzando persino lo stesso lessico e  forse addirittura in forme ancora più nette e decise da parte dei grandi maestri e teorici illustri come Engels che sosteneva l’accentramento dello Stato unitario e indivisibile.” Il proletariato – affermava nel 1847 – può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile” e “non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”.

   Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo “perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali”.

    La tradizione engelsiana non influenzerà solo la sinistra ma tutto il senso comune progressista per cui l’idea dello Stato unitario e centralizzato sarà considerata la forma non solo più efficiente ma anche più alta e moderna, evoluta e giusta di ordinamento statuale; di contro, ciò che allo Stato unitario e centralista si oppone – il Federalismo – “appare come arretrato, regressivo, premoderno e residuale” (7).

 

1)      RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

2)      Ernesto Ragionieri, “Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita” Bari 1967

3)      Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna. La costruzione dello stato unitario” vol. V, ed. Feltrinelli, Milano 1968

4)      Antonio Gramsci, “Il Risorgimento”, Ed Einaudi, Torino 1955

5)      Rosario Romeo, “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale”, Torino 1963

6)      Alberto Caracciolo, “La formazione dello stato moderno” Bologna 1970 e “Stato e società civile: Problemi dell’unificazione italiana” Torino 1960

7)      Carlo Ghisalberghi, “Sulla formazione dello stato moderno in Italia” Milano 1967

7)   Luigi Manconi, Unione Sarda 13.19-1983

 

2. La truffa del Risorgimento

All’inizio degli anni ’70, alcuni intellettuali fra cui Nicola Zitara(1), Anton Carlo e Carlo Capecelatro (2) – che verranno poi chiamati nuovi meridionalisti- furono tacciati brutalmente dall’Unità di essere filoborbonici e reazionari. Avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento; avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e  al  centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

   Come spiegare diversamente –ma è solo un esempio– l’atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto “naturalmente”  come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”. Come fu santificato il Risorgimento, cui il Fascismo si collegava strettamente perché visto “ come il periodo di maturazione del senso dello Stato”, “uno Stato forte, realtà morale, <etica> e non naturale, che <subordina a sé ogni esistenza e interesse individuale>.

  Dopo il fascismo, prima nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni ‘80 fu osannato da Spadolini – e dunque divenne repubblicano – “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”; fu celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”; infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco è proprio questo unanimismo, questa unione sacra – destra, sinistra centro, tutti d’accordo – intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince; è questa intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica  rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia e l’oleografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

  Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud –  il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

   C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1.      Nicola Zirara, “L’Unità d’Italia- nascita di una colonia”, ed. Jaca-Book, Milano, 1971.

2.      E. M. Capecelatro- A. Carlo, “Contro la Questione Meridionale”, ed. Savelli, Roma 1972.

 

28 ottobre 1922:riunione dei dirigenti sardisti a Nuoro per organizzare “la resistenza armata al fascismo”.

L’ipotesi, di fare della Sardegna “un centro di resistenza armata al fascismo”, da parte dei dirigenti sardisti Lussu, Mastino, Bellieni, Sale, Putzolu, Pili, Puggioni, Oggiano, Giacobbe, Adami, Manca e A. Senes.

 

Il Congresso dei Combattenti prima (il 28) e quello del Partito sardo poi (1l 29) si svolgono mentre la politica italiana è sconvolta dalla Marcia su Roma. Dino Giacobbe ricostruirà in una Lettera spedita a Gaetano Salvemini da Cagliari il 2 settembre 1926 quello che succederà a Nuoro proprio il 28 ottobre, dopo la chiusura del Congresso dei Combattenti in cui viene eletto delegato regionale. Lo ricorda – fra gli altri – Salvatore Cubeddu in Sardisti.

Ecco la sintesi: i dirigenti sardisti si riuniscono in casa dell’On. Pietro Mastino. Sono presenti Lussu, Mastino, Bellieni, Sale, Putzolu, Pili, Puggioni, Oggiano, Giacobbe , Adami, Manca e A. Senes.

Alcuni di loro ritengono che la Monarchia si accorderà col Fascismo eliminando tutte le libertà. In questo caso occorrerà iniziare subito “entro poche ore, un’azione di sorpresa contro i principali presidi militari dell’Isola” per fare della Sardegna “Un centro di resistenza per tutta l’Italia”.

Altri invece pensano che sia possibile agire solo se si verifichino almeno una di queste condizioni:”che resista il popolo, con successo in buone parti d’Italia; che resista l’esercito”.

Insomma: alcuni vogliono agire, qualunque cosa succeda: anche perché in quel frangente non era difficile radunare i Combattenti, per personaggi come Lussu e lo stesso Giacobbe che ne era il rappresentante.

Altri invece solo a determinate condizioni. Ma non viene elaborato un piano preciso. Non si farà niente.

 Allorchè scrive a Salvemini quattro anni dopo i fatti ricorda Cubeddu Dino Giacobbe è totalmente consapevole che il PSD’A di cui egli stesso era uno dei massimi dirigenti, aveva perso una storica occasione”.

 

 

Lettera aperta al Sindaco di Quartu Sant’Elena Mauro Contini

 

Egregio signor sindaco

Abbiamo appreso dall’Unione sarda che la Provincia ha ceduto al Comune di Quartu, in comodato d’uso gratuito per 30 anni, la casa cantoniera di Flumini. Che, ristrutturata – come Lei stesso ha dichiarato – svolgerà un ruolo basilare per realizzare i servizi che gli abitanti di Flumini chiedono. Non possiamo che salutare con piacere e soddisfazione la concessione e, sperando che non passino tempi biblici, la ristrutturazione della cantoniera. Lei sa bene quanto ci sia bisogno a Flumini di locali pubblici: non solo per riaprire i vecchi uffici della circoscrizione (anagrafe, stato civile ecc.); ma per metterli a disposizione di quanti – ad iniziare dalle Associazioni e gruppi di volontariato – vogliano svolgere attività culturali, artistiche, musicali, per la crescita civile della comunità fluminese. Ci rivolgiamo a Lei proprio come Associazione culturale ITA MI CONTAS per ricordarLe che in un Incontro tenutosi al Municipio qualche mese fa, ci aveva assicurato la possibilità di poter utilizzare nella Cantoniera ristrutturata un locale per le nostre iniziative. Le saremo grati se confermasse tale assicurazione e impegno:il locale di cui nei due anni di attività la nostra Associazione ha fruito ( la Biblioteca circoscrizionale di Via Mar Ligure,3) si rivela infatti viepiù insufficiente e angusto. Per questo abbiamo bisogno di spazi più ampi. Siamo infatti decisi a continuare nelle nostre iniziative settimanali (che riprenderemo fin dagli inizi di settembre) e che saranno incentrate nella presentazione di libri; in conferenze sulla cultura, la storia e la lingua sarda da parte di studiosi ed esperti; in manifestazioni artistiche e musicali; in Caffè letterari: il tutto con particolare riferimento a Quartu e al suo territorio. La ringraziamo anticipatamente

Francesco Casula

Presidente dell’Associazione ITA MI CONTAS

LE INCURSIONI BARBARESCHE IN SARDEGNA (700/1800)

 

La Sardegna e le invasioni arabe-turco barbaresche.

di Francesco Casula

PREMESSA:ruolo dei Sardi nel difendere l’Europa dall’invasione araba.

Scrive lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi*:

“E’ opinione comune che l’Europa sia stata preservata dall’invasione araba mercè la vittoria di Leone Isaurico a Oriente e di Carlo Martello a occidente. Il primo sbarrò il passo agli Arabi avanzati dall’Asia minore, il secondo a quelli che già si erano impadroniti della Spagna. Nessuno può contestare che queste vittorie e poi le lotte intestine degli Arabi abbiano salvato l’Europa da una dominazione che aveva molte probabilità di riuscita. Senonché è stato dimenticato che l’Europa non aveva e non ha queste due sole vie di accesso; essa era altrettanto vulnerabile dal Sud, dal mediterraneo occidentale, ove gli Arabi avevano minori ostacoli e scarsa difesa che nelle vie terrestri.

Se uno sbarco era riuscito contro la Spagna, l’esito non sarebbe stato diverso in qualunque altro punto del mediterraneo occidentale…Le stesse considerazioni, per quanto riferite a un se ipotetico, devono essere fatte per la Francia mediterranea e per tutta l’Italia. Sarebbero esse rimaste immuni da invasioni, se gli Arabi si fossero insediati stabilmente nella Sardegna e nella Corsica? Lo crediamo molto difficile. Avendo le basi in queste isole, gli Arabi non si sarebbero limitati, come fecero, a semplici scorrerie a scopo di bottino nella Provenza o sulle coste italiane del Tirreno. Possiamo immaginare quali sarebbero state le conseguenze, oltre che per la Francia e l’Italia, per il resto d’Europa: a Occidente sarebbe stata possibile la congiunzione con gli Arabi di Spagna che a più riprese avevano invaso la Provenza ed erano penetrati fin nelle Alpi, a Oriente avrebbero preso a rovescio Costantinopoli.

Questi sono tutti certo dei se  e dei ma che però non devono essere trascurati dagli storici: poiché le probabilità di invadere l’Europa dal Sud sarebbero state numerose e se vennero a mancare è precisamente perché la Corsica e la Sardegna respinsero tutti i tentativi arabi di stabilirvisi.

Che la Sardegna apparisse agli Arabi preziosa per la sua posizione particolarmente strategica, lo dimostra il succedersi sistematico delle spedizioni con un accanimento che non ha riscontro altrove. Spedizioni il più delle volte a scopo di conquista, chè la Sardegna, specialmente in quei secoli, era troppo povera per poter offrire ricco bottino, che compensasse le dure perdite che subivano gli assalitori. L’ultima spedizione, dell’inizio dell’XI secolo, quella di Mugahid, che appare la più notevole in quanto è meglio conosciuta delle precedenti, mirava ancora al possesso dell’Isola. Se non riuscì, continuano a ripetere gli storici, si deve all’intervento delle flotte collegate di Genova e Pisa; come se nei secoli anteriori i Sardi avessero avuto bisogno del soccorso dei due comuni, i quali avevano ancora da costruirsi le flotte e pensare a difendere se stessi ugualmente dagli arabi.

La Corsica venne difesa dai Franchi e la Sardegna dai Sardi. Nessuna antica o recente fiaba può contestare questo merito ai sardi, questa pagina eroica e sanguinosa, fra le altre dimenticate o malnote della storia. E anche il merito di aver contribuito in tal modo a preservare l’Europa da un’invasione.

Altro merito dei Sardi è il contributo dato con la difesa della propria terra alla cristianità, mal ricambiato dai pontefici dei secoli successivi; e ciò vedremo a suo tempo”.

*Storia della Sardegna, Raimondo Carta-Raspi, Capitolo VIII, pagg.340-341.

Cronologia delle incursioni musulmane (703-1016)

Le notizie sulle incursioni e sui tentativi di occupazione nei secoli VIII-X e su quella più importante, nel 1015 ( da parte di Mujahid  -passato alla storia con il nome di Musetto) sono state tramandate soprattutto da cronisti arabi che scrivevano nei secoli XII-XV e anche nel XVI. Si tratta dunque di fonti indirette. In tutti comunque non vi è mai alcun riferimento a una dominazione straniera o a una difesa che non fosse fatta dagli stessi Sardi. Per il resto esse sono unilaterali e mirano a esaltare imprese con risultati sempre favorevoli agli Arabi.

703-704. (24 gennaio 703/13 gennaio 704) A detta dello scrittore libico moderno Mohamed M. Bazama, il primo assalto arabo all’Isola, forse alla base navale di Sulci (Sant’Antioco) avvenne in questo lasso di tempo.

705-706 . Tre anni dopo (Fra il 23 dicembre 705 e l’11 dicembre 706)  nuova incursione –riportata dall’antico storico Al Himyari – secondo cui Abd Allah nel 705 “occupò e fece prigionieri e bottinosenza dire dove.

Nel 706 nuova incursione:”invase la Sardegna conquistando città e facendo ricchissimo bottino, tremila sono catturati oltre l’oro, l’argento ecc…”

709  – Incursione ordinata dall’emiro Musâ.

710-711 (29 ottobre 710-18 ottobre 711) Nuova Importante incursione araba sulla Sardegna, comandata ancora da Musâ, contemporanea della conquista della penisola iberica. Sebbene fallita da più punti di vista, questa incursione è rappresentativa di un decisivo balzo in avanti dell’espansionismo islamico. E’ attaccata una città sarda, forse Cagliari.

Nella difesa delle città e dei paesi litoranei vengono organizzati i soldati di confine non bastando quelli di manovra, reclutando le milizie fra i possidenti di terre marginali: per potenza si distinguono famiglie locali, fra cui una di Laconi, al confine barbaricino dell’alto Flumendosa e una della villa Gallurese di Gunali o Unali, per la salvaguardia della frequentata zona di Olbia o Fausania.

Le incursioni arabe fecero scattare in Sardegna il sistema bizantino dell’autocrate, cioè dell’unico comandante con funzioni sia civili che militari, come l’esarco, più agile nell’attività di governo e più adatto alle situazioni di emergenza. E’ sicuro che scomparve il dux di Forum Traiano (Fordongianus) e il giudice provinciale divenne la massima autorità dell’Isola romea.

721-722 (1 luglio 721-20 giugno 722) Dopo una stasi di dieci anni, gli Arabi con i Berberi islamizzati attaccarono nuovamente l’Isola. Riferisce lo storico Al Himyari:”Bishr Ibn Safwan, governatore dell’Africa, catturò prigionieri e fece ritorno senza perdite”.

Fu una tragedia per i Cristiani: ne parlò nella lontana Britannia perfino il venerabile monaco Beda (672-735) e Liutprando, re del Longobardi (712-744), inviò a Caralis alcuni messi per acquistare le spoglie di Sant’Agostino, ( che erano state portate a Cagliari da Feliciano, vescovo di Ippona, esiliato in Sardegna, a Cagliari, in seguito alle persecuzioni di Trasamondo, re dei Vandali) e preservarle da possibili profanazioni, nella sua capitale Pavia, dove sono custodite nella cattedrale di san Pietro in Ciel d’Oro.

724-725-727-728-732-733- Ancora incursioni degli Arabi in Sardegna. Intanto nel 732 a Poitiers Carlo Martello, re dei Franchi, ferma gli arabi di Abd Ar-Rahman, salvando la Cristianità dall’invasione mussulmana. La Chiesa entra nell’orbita imperiale bizantina e dà inizio, con l’acquisto di Sutri nel 728, allo Stato territoriale della Chiesa.

735736-737- Anche dopo Poitiers non si arresta l’attività della flotta mussulmana contro la Sardegna (la Sicilia e l’Italia) fin’ora attaccate più con l’intento di indebolire i capisaldi bizantini e di depredare gli abitanti locali che di occupare permanentemente le terre.

753 – In seguito ad un attacco, secondo un’attendibile fonte araba riportata da M. M. Bazama (Ibn-al-Atîr), viene imposto ai Sardi il pagamento della gizyah.Si tratta di un’imposta applicata con precise condizioni e regole dai Mussulmani sui popoli che non preventivamente convertiti all’Islam, riconoscevano prima dell’annientamento delle proprie truppe di essere stati vinti in un’azione di guerra santa.

Alla gizyah erano sottoposti tutti i liberi adulti di sesso maschile socialmente attivi i quali in media dovevano versare ognuno alla fine dell’anno lunare quattro monete d’oro dette dìnar, ciascuna pari al peso di 21 e ¾ di semi secchi di carrubo oppure quaranta monete d’argento dette dirham del peso di 14 e 17/20 di semi secchi di carrubo.

Non si sa per quanto tempo e a quali condizioni i Sardi pagarono la gizyah

Dopo il 732 segue un periodo di circa cinquant’anni sul quale non abbiamo notizia di incursioni.

807 – Tentativo di incursione degli Arabi di Spagna (probabilmente presso le coste di Oristano), che però viene bloccato, con gravi perdite fra gli invasori (il fatto è narrato nella Cronaca di Saxo [Historia Danica di Saxo Grammaticus] dei primi secoli del Medioevo, che dovette avere una certa risonanza fuori dell’isola).

 

ØLa resistenza dei Sardi

Ludovico il Pio era appena succeduto al padre Carlo Magno e i delegati (dona ferentes) con i Franchi che all’epoca, detenevano la Corsica, in vista di una coalizione antiaraba, stabilirono rapporti di buon vicinato e collaborazione difensiva tra le due isole. Anche se il risultato fu positivo i Sardi –pare di Calaris- si difesero ancora da soli sia nel 816 che nel 821-822.

L’accordo fra i Sardi e i Franchi si protrasse attraverso i decenni fino al secolo XI. I sardi avevano potuto resistere alla marea araba per tutto l’VIII secolo; ma lo sforzo fu sovrumano e forse temettero di non poter continuare indefinitamente senza un’intesa con i popoli vicini. Scrive il Carta-Raspi:

Le popolazioni interne e soprattutto i Barbaricini non avevano a temere dalle incursioni né dai tentativi di conquista: avevano resistito alle legioni romane, avevano contrastato le signorie vandale e bizantine.

Altrettanto non era però per le città costiere e per i minori centri poco discosti dalle spiagge, continuamente esposti ai terribili assalti mussulmani. I nemici piombavano improvvisamente sulle coste, forti di decine di navi e prima ancora che la difesa entrasse in azione, incendiavano i legni ancorati nei porti, seminavano strage e rovina fra le popolazioni, predavano quanto trovavano, e catturavano schiavi, specialmente donne per gli harem. Solo quando le vedette scaglionate lungo le coste riuscivano ad avvistare in tempo le navi era possibile darne avviso e predisporre le resistenze: ma il più delle volte il nemico profittava delle tenebre e riusciva a sbarcare inosservato”.

L’unico modo di difendersi era comunque quello di opporre flotte a flotte, che la Sardegna possedeva: a documentarlo –fra gli altri- lo storico Eginardo. Oltre alle testimonianze nel secolo XIII per i Giudicati di Torres e di Cagliari e nel XIV secolo per quello di Arborea.

La Sardegna infatti aveva ripreso la sua antica tradizione marinara con la fine della signoria bizantina e l’affermarsi dei Giudicati, che manterrà finché non cadrà sotto il dominio aragonese prima e spagnolo dopo.

816 – Saccheggio di Cagliari, la flotta viene però dispersa al ritorno da una tempesta: di tutti gli equipaggi poterono salvarsi appena pochi uomini.

821-822  Altra incursione, in cui –è sempre Ibn-al-Atîr  a riferirlo- gli Arabi “ne dettero, ne presero e quindi se ne tornarono”. Esattamente le fonti scrivono: “I Mussulmani effettuarono dall’africa un’incursione contro l’Isola di Sardegna dove massacrarono degli indigeni e da loro furono massacrati, poi tornarono con le prede”.

827 – Gli Arabi iniziano l’occupazione della Sicilia; questo evento è probabilmente rilevante nel segnare una tappa della separazione della Sardegna dall’impero bizantino.

828– Il conte Bonifacio, governatore franco della Corsica,(è infatti il feudatario carolingio preposto alla Toscana e alla difesa navale nel Tirreno oltre prefetto della Corsica)  passò per la Sardegna al fine di colpire le coste del nord Africa oramai arabo con una spedizione militare, definendo la Sardegna Insula amicorum. La Sardegna fu allora decisiva perché divenne uno dei confini più importanti tra mondo latino e Islam.

Dopo l’incursione del 828, per oltre cent’anni gli Arabi lasciarono tranquilla la Sardegna. Nel secolo X la sola incursione che si ricordi è del: 

934 – A quest’anno risale un’incursione proveniente dall’Africa; si trattò di un fatto di una certa gravità; la cronaca di Ibn-al-Atîr parla di una grande strage di abitanti e di distruzione di navi effettuata in Sardegna da una flotta –composta di trenta navi da guerra “harbî”- diretta a saccheggiare Genova e la Corsica.

947 – Trattato di pace tra Impero bizantino e Califfato omayyade di Spagna.

9721001 – Al-Mansur è ministro e, dal 996, califfo a Cordova. Avvia un’ambiziosa politica espansionistica. È suo liberto e protetto Mujahid, conosciuto come Museto, poi wali (principe) di Denia (Baleari).

Agli inizi dell’XI secolo la pressione degli Arabi si fece ancor più minacciosa e nel:

ØTentativo di occupare l’Isola da parte di Musetto

101516 c’è un tentativo di conquista dell’isola da parte di Mujahib (più noto come Museto). Musetto, che aveva istituito un principato sulle coste meridionali della Spagna, sbarcò a Cagliari con una flotta di un centinaio di navi, riuscendo a occupare buona parte della pianura del campidano ma non proseguì subito verso l’interno dell’Isola e rientrò in Spagna, lasciando però i suoi uomini nelle zone occupate.

Secondo alcuni storici –contraddetti da Carta-Raspi, vedi Premessa-  l’intervento di Pisa e Genova, avrebbe ricacciato l’esercito di Museto, aprendo le porte della Sardegna alle due repubbliche marinare.

Pisa e Genova infatti –vedi  l’Antologia storico-letteraria di De Gioannis-Serri, Ed. La Nuova Italia, Firenze, pag.366- “già impegnate nella lotta contro l’espansionismo arabo, decisero di costruire un’alleanza per fermare definitivamente la pericolosa avanzata delle forze mussulmane. Pertanto quando Mugahid l’anno successivo tornò in Sardegna per proseguire nell’occupazione dell’Isola, si scontrò con una forte flotta organizzata dalle due città:sconfitto duramente, fu costretto a tornare in Spagna, lasciando nelle mani nemiche gran parte dei suoi soldati. Questo fu l’ultimo tentativo di occupazione della Sardegna da parte degli arabi, anche se le loro incursioni sulle coste continueranno per secoli: ma fu anche il momento di inizio del dominio di Pisa e di Genova sull’isola, dapprima esercitato con i loro mercanti e poi con l’occupazione di una parte del suo territorio”.

Dopo il tentativo  -fallito- di conquistare la Sardegna da parte di Musetto, sono ricordate poche incursioni arabe in Sardegna. Ma, sia pure sporadicamente, di sicuro ce  ne furono ancora. Ci sono molti indizi. Per esempio: un cronista arabo Ibn Kardun, dà la notizia che la Sardegna sarebbe stata assalita dagli Arabi per un altro secolo dopo la sconfitta di Mugahib, cioè fino al secondo decennio del XII secolo. Altro indizio può essere il trasferimento della popolazione e del governo giudicale, per motivi di sicurezza da Tharros a Oristano, ovvero nell’entroterra. Tale trasferimento, secondo un antico codice manoscritto consultato dallo storico GianFrancesco Fara intorno al 1580, sarebbe avvenuto intorno al 1070. Il codice parla di punnas (scontri guerreschi). Non poteva che trattarsi di scontri con gli arabi: non essendo possibile attribuirli a contrasti interni, in quegli anni ancora lontani.

Per quanto riguarda il XIII secolo la tradizione –precisa Pietro Martini in Storia delle invasioni degli arabi e delle piraterie dei barbareschi in Sardegna, citando l’Itinerarie de l’île de Sardaigne di La Marmora ci ha conservato un solo ricordo. Il villaggio di Magumadas, un tempo situato nelle strette vicinanze delle cosiddette marine della Planargia fu invaso nel 1226 e quasi interamente distrutto dai Saraceni. Allora gli abitanti, gli abitanti che scamparono dal fuoco e dalla schiavitù si stabilirono dove si trova ora il villaggio, in un luogo più lontano dal mare e perciò meno esposto alle scorrerie dei barbari”.

Poi, fino a tutto il secolo XIV non vi è alcun ricordo. Le scorrerie invece ricominciano nel secolo XV e sempre più nei seguenti, quando la Sardegna, caduta sotto il dominio spagnolo è alla mercè dei sovrani spagnoli e la difesa si dimostrerà del tutto insufficiente e gli abitanti, senz’armi, subivano gli attacchi barbareschi “quasi sempre in perdita” scrive Carta-Raspi.

Cronologia delle incursioni musulmane (1414-1509)

1418: i Barbareschi approdano a Terranova (Olbia), si introdussero nella regione di Telti, invadono la popolazione, saccheggiano e portano con loro persone e cose.

1428: Una forre armata  turca semina il terrore in tutta la Sardegna. Al suo avvicinarsi alla isola Rossa, vicino a Teulada, il governo di Cagliari ordina ai baroni del capo meridionale di far accorrere alla capitale quanta più gente possibile , sia a piedi che a cavallo, per difendere la baia. A fronte di ciò, l’armata turca si allontana dal golfo di Cagliari. E’ sempre Pietro Martini a scriverlo.

ØChi erano i Barbareschi?

Barbareschi era il termine con cui vennero genericamente indicati i corsari musulmani che, a partire dal secolo XVI, sostenuti dai Turchi, si insediarono lungo le coste dell’Africa settentrionale impadronendosi di Algeri, Tunisi e Tripoli, dove rovesciarono le antiche dinastie e diedero vita a vere e proprie città-Stato, formalmente dipendenti dall’Impero ottomano, ma in realtà autonome e dedite esclusivamente alla guerra di corsa. I Barbareschi erano anche Turchi provenienti dalle isole del Mediterraneo orientale; moriscos provenienti dalla Spagna e animati da profondo spirito di rivalsa; schiavi cristiani, catturati e islamizzati, che col tempo avevano conquistato posizioni di primo piano nella comunità. L’attività principale di questi corsari erano l’assalto e la cattura delle navi cristiane e le spedizioni lungo le coste degli stati cristiani per catturare schiavi da vendere nei mercati delle città barbaresche o per i quali ottenere cospicui riscatti. Numerose incursioni furono effettuate da questi corsari lungo le coste della Sardegna. 

ØL’attacco barbaresco al litorale occidentale della Sardegna ma anche a quello orientale: uccisioni, catture, saccheggi.

Scrive a questo proposito Raimondo Carta-Raspi: “Quasi nessuno dei villaggi siti in prossimità delle coste rimase immune da queste incursioni e molte popolazioni dovettero abbandonare le regioni esposte per rifugiarsi più all’interno. L’audacia di questi pirati, tanto più baldanzosa in quanto sapevano di non scontrarsi con una difesa organizzata, fu tale che ebbero l’ardire di inoltrarsi a notevoli distanze dalle spiagge, saccheggiando i villaggi e catturando gli abitanti che non facevano in tempo a fuggire.

vLa maggior parte delle incursioni era diretta sul litorale occidentale, anche per essere la regione più popolata e il terreno pianeggiante. Alcuni villaggi come Cabras, Sant’Antioco, Quartu, furono più volte presi di mira, nonostante la breve distanza che li separava il primo da Oristano il terzo da Cagliari. Meno frequenti nel litoraneo orientale, spopolato e di poco bottino, le incursioni piratesche si abbatterono invece numerose anche sulle coste settentrionali dell’Isola, muovendo più volte dalla Corsica, la stessa roccaforte di Castellaragonese, poco prima ricordata, fu ripetutamente assalita seppure senza esito” .

vDobbiamo  però precisare, rispetto a quanto scritto dal Carta-Raspi che nel settore orientale della Sardegna, pur essendo meno numerose le incursioni saracene o barbaresche che si voglia, furono ugualmente presenti: nel Sarrabus e nell’Ogliastra (Muravera, San Vito e Villaputzu, Tertenia)  ma soprattutto a Siniscola (Santa Lucia e La Caletta), a Orosei, Posada e Torpè. 

Principale fattore di insicurezza, specie ad iniziare dagli inizi del secolo XVI divennero sia la continua situazione di belligeranza tra l’impero spagnolo e le potenze europee concorrenti (segnatamente la Francia), sia le ricorrenti incursioni dei Barbareschi, tali erano detti gli abitanti mussulmani –ripetiamo- dove avevano costruito piccoli stati che facevano parte dell’impero turco, ma che si reggevano autonomamente, fondando la loro economia sull’attività corsara o piratesca, esercitata sul mare e le coste mediterranee. Le navi barbaresche partivano soprattutto dalle sedi di Tunisi e Algeri, scorazzavano per tutto il bacino mediterraneo assalendo navi mercantili o sbarcando lungo le coste, per attaccare gli insediamenti litoranei meno difesi, facendo razzia di uomini e di cose.

La Sardegna, al centro del mediterraneo –scrivono gli storici De Gioannis-Serri- costituiva per questi pirati uno degli obiettivi privilegiati. Essi arrivavano all’improvviso con le loro piccole navi, sbarcavano penetrando fulmineamente nell’immediato retroterra, attaccavano i villaggi indifesi, uccidevano o catturavano uomini, donne e bambini e dopo aver saccheggiato le case, ripartivano col loro bottino. I prigionieri venivano venduti come schiavi o, talvolta restituiti dietro pagamento di un riscatto”.

A fronte di tali pericoli ricorrenti perennemente, l’imperatore Carlo V dovette allestire due grandiose spedizioni che ebbero come base di partenza la Sardegna (Cagliari e Alghero). Ma le spedizioni si rivelarono sostanzialmente fallimentari, almeno ai fini delle liquidazione delle incursioni: 

ØLe due spedizioni di Carlo V contro Tunisi (1535) e Algeri (1541)

La prima nel 1535 ebbe come ultima base di partenza  Cagliari, in cui Carlo V sbarcò trattenendosi alcune ore. Si radunarono due flotte, una proveniente da Barcellona e una dall’Italia: oltre alla flotta spagnola e portoghese infatti era presente la genovese di Andrea Doria cui si aggiunsero rinforzi inviati dal Papa. In tutto –ricorda Carta- Raspi- “Quattrocento navi fra grandi e piccole, di cui novanta galere reali, con all’incirca trentamila uomini, per buona parte spagnoli, tedeschi e italiani”.

Ed anche un contingente di sardi, guidati da alcuni grossi esponenti della nobiltà locale (fra cui Salvatore Aimerich).

Il principale movente doveva essere la distruzione della flotta del famoso corsaro Khair, detto Barbarossa, il flagello delle popolazioni costiere. Con lui c’era Hazan-Haga, ( o Assan Agà) che per la carica che rivestiva veniva chiamato Hazan-bey. Allevato dal Barbarossa e nominato suo luogotenente e più tardi comandante in capo e infine rappresentante del sultano, era nato in Sardegna, pastorello della Nurra, catturato con altri in una delle tante incursioni barbaresche.

Verrà etichettato come “Sardo renegado” , diventerà terzo re di Algeri e sconfiggerà Carlo V nel 1541, in seguito alla seconda spedizione.

Ma torniamo alla prima spedizione: dopo circa un mese di assedio, la flotta del Barbarossa, cadde quasi al completo nelle mani degli imperiali che poterono occupare Tunisi e liberare ben 20.000 schiavi cristiani, fra cui 1.119 schiavi sardi. Probabilmente in quel periodo la presenza dei Sardi schiavi si aggirava intorno alla 2.000-2.500 persone, circa l’1-1,5% dell’intera popolazione isolana!  

“Due iscrizioni cagliaritane –annota Carta-Raspi– ricordano l’impresa e celebrano la vittoria dell’imperatore, quasi come propria, poiché la maggior parte degli abitanti di Cagliari e soprattutto i Consiglieri erano spagnoli; ma la Sardegna era stata allora, come lo fu durante tutto il dominio spagnolo, semplice spettatrice e non partecipe degli avvenimenti militari, anche perché si svolgevano in territori lontani, per interessi che non erano i suoi, che comunque non avrebbero mutato il suo stato di soggezione”.

Sia come sia la sconfitta di Tunisi non fu totale né definitiva: la flotta imperiale, stremata, non era stata in grado di proseguire l’offensiva contro Algeri, dove il Barbarossa era riuscito a rifugiarsi e da dove lo stesso anno ripresero le incursioni piratesche in tutto il Mediterraneo occidentale con a capo i vari Khair en-Din (Barbarossa), il sardo Hazan-Haga, Occhialì. Assan Corso e altri.

Ripresero anche contro la Sardegna: nel 1538 fu saccheggiata la Basilica di San Gavino in Torres (Porto Torres), nel 1540 fu distrutta Olmedo. 

Di qui, dopo sei anni:

La  seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi,  nell’ottobre del  1541, da parte dell’imperatore. Anche stavolta la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non –come ebbe a sostenere Carlo V -per visitare Alghero,dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato.

La spedizione fallì miseramente: una violenta tempesta infatti distrusse quasi completamente la flotta.

ØLa costruzione delle Torri

A questo punto la politica spagnola da offensiva si fece difensiva: per bloccare in qualche modo le incursioni barbaresche che continuano -infatti  iniziano a diminuire solo dopo la battaglia di Lepanto, contro Alì Pascià, a cui prese brillantemente parte il reggimento sardo chiamato Tercio de Cerdeña, sotto il comando del fratello del Re di Sardegna, Don Giovanni d’Austria– alla fine del ‘500, sotto Filippo II fu rafforzato e completato il sistema di torri costiere, poste in vista una dell’altra, in parte già esistente, per l’avvistamento dei pirati.

Si iniziò a costruire le torri di avvistamento a partire dal 1572 sotto la direzione di Marco Antonio Camos. Alla fine del Cinquecento quelle costruite sul mare erano ben 82. Un piccolo contingente di soldati, insediato sulle torri, una volta avvistate le navi in arrivo, dava l’allarme ai villaggi vicini, permettendo così alle popolazioni, di predisporsi alla difesa o di mettersi in salvo. Dei grandi padelloni in ferro battuto, collocati in cima alle torri, servivano da contenitori per bruciare l’erica bagnata ed il bitume: si formava così un fumo denso e scuro, ben visibile da lontano.

In tal modo molte incursioni barbaresche falliscono e i pirati vengono uccisi o fatti prigionieri. Ancora oggi le torri rimaste in Sardegna sono un centinaio: si vedono ergersi a presidio delle spiagge isolane da Stintino a Porto Torres e a Santa Teresa di Gallura, da Posada a Barisardo e Villasimius, da Quartu a Teulada, da Carloforte ad Alghero: rimarranno attive fino al 1815, quando dopo il Congresso di Vienna venne imposto agli stati barbareschi la fine della tratta degli schiavi. Furono smilitarizzate nel 1867 dal nascente Regno d’Italia.

Ma nonostante gli sforzi sostenuti per rafforzare la sicurezza dell’isola, la difesa continuava ad essere abbastanza precaria anche perché le torri avevano il compito di segnalare l’imminente pericolo e dare l’allarme, ma gran parte di esse erano prive di adeguate guarnigioni e di armamento pesante. 

Sulle torri e la difesa delle coste storico Giuseppe Manno scrive:«Le vaste spiagge dell’Isola, desolate in molti luoghi di abitatori, erano di continuo minacciate dai pirati delle Reggenze Africane. Filippo II aveva già provveduto alla difesa dei punti più importanti, facendo fornire di artiglierie e munizioni le fortezze di Cagliari ed Alghero; nella qual opera aveva impiegato gran parte degli emolumenti ritratti dal Regno. Aveva eziandio inviato gran numero di schioppetti, di lancie ed attrezzi militari ad uso comune. Mancava il massimo dei ripari, cioè quello di circondar tutta l’Isola di torri munite per la guerra, acciò, resistendosi con maggior fiducia agli inimici, si avesse pure un mezzo maggiore di proteggere la navigazione e di agevolare la pesca».

E più avanti: «Gli amministratori succedutisi (nel suo Regno, dopo il 1587) ebbero il vanto di coronare, per così dire, di valide torri, situate a breve distanza, tutto il litorale, che fu teatro più volte di eroico coraggio nel fulminare i nemici e di svegliata attenzione nel guarentire l’Isola dal contagio».

E più innanzi ancora: «Deliberatosi perciò Filippo II l’utilissimo provvedimento della difesa maggiore dei lidi, sursero intorno alla Sardegna le torri che la circondano; donde, anche in tempi a noi vicini, il valore di pochi custodi percosse più volte quelle ciurme barbaresche, che per tanti secoli contristarono i navigatori del Mediterraneo. Creossi anche a tal scopo l’ufficio dei Commissario Generale di artiglieria, il quale doveva indirizzare quanto apparteneva al traino e munizione delle bocche di fuoco, ed all’ammaestramento degli artiglieri sparsi nelle principali fortezze. Aveva egli sotto il suo comando un capitano, un così detto gentiluomo, un maestro di scuola e le compagnie degli artiglieri, le quali faceano specialmente il loro servizio in Cagliari, Alghero e Castelaragonese».

Nel corso del ‘600 inoltre, fu instaurato un ulteriore sistema di difesa: nelle acque dell’Isola fu alloccata una piccola squadra di galee stanziata a Cagliari. Si trattava di navi pesanti armate di cannoni con il compito di sorveglianza e di difesa mobile delle coste sarde. Ma anche tali sistemi difensivi si rivelarono comunque insufficienti di fronte alle incursioni dei pirati che continuarono imperterriti per tutto il ‘600 e ‘700, fino agli inizi dell’Ottocento, quando con il Congresso di Vienna (1815) –come dicevamo- dalle potenze europee, agli stati maghrebini del bey di Tunisi, del dey di Tripoli e del dey di Algeri  fu imposto la fine della tratta degli schiavi.

ØI costi delle aggressioni barbaresche

Le conseguenze delle aggressioni barbaresche furono immani: in termini di costi economici e delle perdite umane prima di tutto. Per non parlare della “paura del mare” che si creò nella psiche sarda: l’immagine del mare infatti sarà sempre associata alle figure dei pirati, a sos moros. Di qui la tendenza delle popolazioni costiere a ritirarsi nelle zone interne. Di qui l’abbandono delle tradizioni marinare e dell’agricoltura nelle aree litoranee, l’impaludamento delle zone costiere, l’accentuarsi della diffusione della malaria che s’aggraverà viepiù. Di qui la necessità di debellare la malaria, male endemico dei Sardi e causa di morte e arretratezza.

Occorre precisare che quella peste micidiale fu introdotta e diffusa dalle truppe cartaginesi di Malco nel 540 a.c. e durerà sino al 1946-50 quando fu debellata definitivamente dal DDT irrorato su tutta l’Isola in dosi industriali dalla Rockfeller Foundation che sterminò insieme alle zanzare anofele,  purtroppo, anche pernici e falchi pellegrini!

Cronologia delle incursioni saracene-barbaresche (1509-primi due decenni secolo XIX))

Le più importanti sono:

Nel 1509 Cabras fu saccheggiata da una squadra di corsari che fecero molti prigionieri. Negli anni successivi gli attacchi a Cabras continuarono e i suoi abitanti dovettero provvedere autonomamente a organizzare la propria difesa.

“Questa memoria –scrive Pietro Martini- trae conferma da un decreto regio del 3 luglio 1514 con il quale lo stesso borgo fu esentato per un sessennio da tutti i contributi sia regi che feudali. Dal suo proemio si ricava che Cabras, essendo prossima al mare, ogni anno era orrendamente vessata dai pirati turchi; che soprattutto una volta fu da loro radicalmente spopolata avendo portato via tutti i suoi abitanti; che quindi trovandosi in continuo pericolo e timore, quei popolani dovevano sempre stare a guardia dei litorali per salvare se stessi e i territori della città di Oristano da nuove incursioni”.

ØLe incursioni barbaresche sulle spiagge di Siniscola e paesi vicini.

Nello stesso anno in cui fu saccheggiata Cabras nel 1509, furono attaccate anche Siniscola, Lodè e Torpè. Attacchi vi furono anche nel 1512. Ma l’incursione più violenta e famosa avvenne nel 1514 quando i Barbareschi sbarcarono sulle spiagge di Siniscola e, attaccato il villaggio, fecero più di cento schiavi e uccisero molte persone.

Su quest’attacco Francesco Corridore ( in Storia documentata della Marina Sarda dal dominio spagnolo al Savoino. 1900, Zanichelli, Bologna) scrive: “Nel 1514, la notte di Ognissanto, il villaggio di Siniscola fu assalito dai Mori, i quali vi ammazzarono sedici o diciassette uomini, fecero schiave più di cento persone, e, dopo efferate crudeltà, si allontanarono avendo fatto grande bottino. A tale sventura i Siniscolesi rimasero sgomenti; e già cominciavano a prender la fuga, abbandonando le case e le sostanze, quando il Governo di Cagliari, per rincuorarli, li esentò per un triennio dalle tasse; permise che si rifugiassero in Posada, purchè non uscissero fuori della Baronia; ordinò che si provvedessero d’armi e vigilassero quei litorali, facendo rilevare che, qualora fossero in buon numero armati ed a cavallo, potrebbero respingere i nemici; e, per esortarli sempre più a valida difesa, annunziò che solo la decima parte delle spoglie degli infedeli sarebbero riservate al tesoro. Il Re, fatto consapevole dell’accaduto, ordinò che le galee dì Napoli guardassero per qualche tempo le marine dell’Isola, e promise dì mandarne altre qualora gli Stamenti intendessero mantenerle – Negli ultimi di luglio 1537 alcuni Mori, trovandosi nelle acque dì Posada, con una saettia che avevano tolta ai Cristiani, furono inaspettatamente catturati da Matteo Corelle e da altri. – Tristissime in quei tempo erano le condizioni della Baronia di Posada, come si rileva dalla rappresentanza che quei popoli fecero alle Corti Generali dei 1574, esprimendo il vivissimo desiderio che una buona volta si pensasse alla difesa della loro terra”.

Lo stesso episodio è riferito da Pietro Martini, più o meno negli stessi termini:

La notte di Ognisanti, i Mori assalirono il villaggio di Siniscola, la saccheggiarono, vi ammazzarono da 16 a 17 uomini e vi fecero più di cento schiavi tra maschi e femmine, tra i quali molti in tenera età. I pochi salvi dal disastro, per lo spavento si proposero di espatriare e di porre il domicilio fuori dalla baronia di Posada; e lo avrebbero fatto se il podestà (Don Serafino Manca) e i consiglieri della baronia non li avessero tranquillizzati con la promessa dell’esenzione a tempo dei tributi. Pure gli abitanti di Lodè e Torpè, vinti anch’essi dalla paura o stanchi ormai del continuo combattere contro i pirati, decisero di trasferirsi nel villaggio di Posada e di formarvi un borgo sul colle che lo sovrasta, e supplicarono il governo che lo facesse cingere di mura con il denaro regio e dessero loro licenza di demolire le proprie case e di usare dei materiali per la costruzione delle nuove. Il governo di Cagliari provvide, esentando i Siniscolesi dalle imposte per un triennio, purché stessero nella baronia; ordinando che fossero accolti allinterno di Posada e preferiti ad altri nuovi abitanti; dichiarando lecito, a loro e a quelli di Tor­pè e Lodè, di demolire le vecchie case e trasportarne i materiali per le nuove; lecito pure, agli uomini di Torpè e Lodè, di co­struire il borgo, con la condizione di sottostare alle imposte dei Posadesi; e concluse con il dire di non essere necessaria la cin­ta di muro, perché il nemico non si attende nei recinti ma si deve affrontare in campo aperto. Poco dopo rimosse dalluffi­cio di castellano di Posada Don Rodrigo Puliga, ma senza no­ta d’infamia, rimpiazzandolo col Manca; ordinò la riparazione delle balestre, bombarde, corazze e altre armi del castello e lac­quisto di altre che si riterrebbero necessarie, con i soldi della baronia; comandò che gli uomini più importanti si munissero di una balestra e sei verghe; che si guardassero le marine, sen­za eccezione di persone; che si rammentasse ai popolani, quan­do bene armati in passato, più volte avevano rotto il capo ai Mori, e come i Cristiani assaliti nelle proprie terre possono fa­cilmente trionfare sui nemici della fede, dove li affrontino in forti schiere a cavallo; che pure a loro si annunciasse riservar­si, delle spoglie dei Mori, soltanto la decima parte al tesoro re­gio. Per così tanto disastro il re Ferdinando, nell’immediato anno, ordinò che le regie galere di Napoli costeggiassero per qualche tempo lisola, e promise di spedirne altre due, qualo­ra la Sardegna intendesse mantenerle”. 

Nel 1515 nei mari di Portoconte, presso Alghero, contro una galea turca, armano piccole navi, l’assaltano e se ne impossessano. (Pietro Martini).

Nel 1520 i corsari turchi sbarcarono sulle spiagge di Sant’Antioco, Chia (Pula) e Capo Carbonara e, in furiosi scontri, impegnarono gli abitanti dei villaggi che riuscirono però a respingerli, catturandone alcuni.

Sempre nel 1520 i Turchi sbarcati in Gallura devastarono il villaggio di Caresi, un’antica località, un tempo frazione di Santa Teresa di Gallura, presso Marazzino. Nello stesso anno attaccarono anche la marina di Oristano, Uras e Terralba.

 Nel 1525-1526 i corsari turchi, approfittando del fatto che la popolazione di Sant’Antioco era impegnata nella festa del patrono, sbarcarono ma furono ricacciati: tornarono in forze l’anno successivo, ma mentre 18 navi turche si apprestavano a sbarcare una terribile tempesta ne spazzò via 16 e due solo si salvarono. Si rifugiarono nell’isola di San Pietro ma il giorno dopo i Sardi fecero prigionieri i pochi nemici che non ebbero tempo di rimbarcarsi. Le due barche furono portate a Cagliari e nel bottino si annoverò anche un cannone con tre gigli, depredato prima dai Turchi ai Francesi.

Nel 1527 i Turchi attaccarono Castellaragonese: occuparono l’Asinara ma furono successivamente respinti dai Sardi; in seguito, sbarcati nelle marine di Terralba, devastarono molti villaggi del Bonorcili (Mogoro), facendo fuggire la popolazione.

Nel 1534 undici galee turche naufragano a Porto Pino, presso il golfo di Palmas. “Con i tre capi pirati –è sempre Pietro Marini a scriverlo- gli equipaggi tratti in salvo scesero a terra, con ottocento Cristiani già fatti schiavi. Per paura dei sardi fuggirono precipitosamente su tre di quelle galere atte a navigare, abbandonando a terra i Cristiani e altre cose di valore. Resi liberi questi ottocento schiavi (come si ricava dalle carte ufficiali), furono condotti a Iglesias e là, con licenza degli agenti fiscali, vendettero ai cittadini vari oggetti e monete d’argento da loro tolte ai Turchi morti nel naufragio”.
Nel 1538 il corsaro Barbarossa, con tre galee sbarca a Porto Torres dove saccheggia e depreda la basilica dei SS. Gavino, Proto e Gianuario. Gli oggetti rubati –come ricorda il Fara, vennero in seguito recuperati.

Nello stesso anno una galea turca naufragò nella marina di Flumentorgiu (Arbus). Ventitre turchi scampati al naufragio e scesi a terra, furono catturati dai Sardi e venduti dal patrimonio regio per ottocento ducati: lo scrive  ancora il Fara.
Nel 1540 i Turchi attaccarono e saccheggiarono Olmedo e fecero molti prigionieri.. Giacomo Mercer, signore di quel villaggio, poco tempo dopo il disastro, sempre nel 1540, fece grandi spese per riparare i danni arrecati e per costruire opere di difesa e salvare così il comune da nuove invasioni.

Nel 1540-41 a guidare le incursioni vi sono capi corsari come Dragut e “il sardo rinegado” Hazan-Haga, ( o Assan Agà) che sarà uno dei protagonisti nella guerra che lo opporrà –come abbiamo già visto- a Carlo V nel 1541 ad Algeri.
Nel 1542 Barbarossa semina il terrore in Sardegna, tenta di assalire le coste occidentali ma fu fermato da Blasco Alagon, conte di Villasor.

Nel 1546, però, fatti sbarcare i suoi uomini, devastò Uras e molte altre localita`. Di quell’episodio drammatico ci è rimasta un’iscrizione in lingua sarda:

“A 5 de Arpili 1546

Esti istada isfatta

Sa villa de Uras de

Manus de Turcus e

Morus effusi capitanu

De Morus Barbarossa”.

E’ stata trovata in un marmo incastrato nelle mura del piccolo coro della Chiesa rurale di Gonnostramatza, dedicata a San Paolo apostolo.
Nel 1549 fu attaccata e distrutta Orosei e i suoi abitanti furono costretti a fuggire. Così il forte incremento economico e demografico, dovuto alla presenza del porticciolo e all’aumento dei traffici commerciali con la penisola, fu interrotto nel periodo oltre che dalla malaria, dalle incursioni barbaresche.

Nel 1551 una galea turca con undici uomini trasportava alcuni schiavi sardi: mentre stava ancorata presso l’Isola di San Pietro, otto dei Turchi sbarcarono sull’isola per rifornirsi d’acqua. I Sardi, insorgono contro i tre Turchi rimasti a bordo, li obbligavano a fuggire a terra e si impadroniscono della nave mentre gli undici furono poi fatti prigionieri.
Nel 1552 i corsari compirono sbarchi lungo le coste del Sarrabus, del Sulcis e a Pula, ma ovunque furono contrastati e ricacciati in mare. Molti anzi caddero in mano ai Sardi che li vendettero a Cagliari.

Nel 1553 la flotta di Dragut, dopo aver invaso la Corsica, si riversò sulle coste settentrionali della Sardegna, assalì e saccheggiò Terranova (Olbia), mettendola a fuoco. Il governatore del Logudoro, Gerardo Zatrillas, impedì –secondo il Fara- maggiori devastazioni nelle spiagge che costeggiavano la Corsica.

Nel 1555, un centinaio di Turchi, sbarcò a terra nei pressi del Porto San Paolo ma “le cavallerie di Gallura –secondo Pietro Martini- capitanate da Francesco Casalabria, li attaccarono: quarantaquattro morirono, quattro furono fatti prigionieri (che poi si riscattarono per seicento scudi) gli altri fuggirono alle navi”.

Ma nel 1556 la flotta turca, ritornata in Corsica, durante il tempo che stette in quei mari, di nuovo incusse terrore alla Sardegna attaccando le coste della Gallura, le marine di Sorso e del Logudoro, ma furono respinti grazie anche a Antioco Bellit, governatore del Logudoro che fortificò il castello aragonese e altri luoghi marittimi. Giovanni Cariga inoltre alla testa della cavalleria logudorese, percorse i litorali di Sorso e altri luoghi del capo settentrionale per impedire i temuti sbarchi; la stessa cosa fece Francesco Calasabria con i cavalli della Gallura: a riferirci questa notizie è il Fara.

Nel 1560 un corsaro, Occhialì, operò diversi sbarchi lungo le coste sarde, spargendo terrore nelle popolazioni. 

Nel 1561 i Turchi tentarono di assalire Castellaragonese ma furono respinti con perdite.

Nel 1562, una nave turca naufragò presso l’isola di Tavolara, dove si rifugiò l’equipaggio. I Sardi dei luoghi vicini, radunatisi in gran numero invasero l’isola e  attaccarono i barbareschi. Ne ammazzarono in gran numero e altri ne fecero prigionieri. Inoltre liberarono trenta schiavi cristiani che stavano in carcere nella nave naufragata.

Negli anni successivi fino al 1566 le coste sarde furono attaccate in più punti tutti gli anni. Nel 1566, una nave barbaresca, presso l’isola dei Cavoli, viene aggredita e saccheggiata da tre navi sarde che battevano il Golfo cagliaritano per difenderlo da eventuali aggressioni turche. 

Nel 1570, nelle marine di Posada, i Sardi con piccole navi, diedero la caccia a una galea turca, assalendola e depredandola.

 

ØL’attacco barbaresco a Siniscola nel 1581 e il ruolo di Bernardino Puliga.

Nel 1581 i corsari attaccarono Siniscola ma furono respinti dagli abitanti guidati da Bernardino Puliga. Sbarcarono in forze nel febbraio del 1581 presso Santa Lucia (dove ancora non c’era la torre, la cui costruzione iniziò poco dopo) e depredarono, uccisero, fecero prigionieri. Ma sulla via del ritorno alle loro navi, trovarono le squadre armate di Bernardino Puliga, giustamente poi divenuto il principale eroe locale siniscolese (anche se il dotto Salvatore Italo Deledda lo vuole nobile posadino), che li sconfisse, li mise in fuga, recuperò il bottino, liberò i prigionieri e si impossessò di tre bandiere.

Ecco come Matteo Madau, gesuita, linguista e storico, in Dissertazioni storiche apologetiche critiche sulla sarda antichità, presenta il Puliga:”Prode cavaliere D. Bernardino Puliga, dell’antica e nobile schiatta de’ Puliga di Tortolì, per vari paesi diramata della Sardegna, il quale nel sentire che di nottetempo una forte masnada di Mori africani, aveva saccheggiato Siniscola, terra marittima, situata verso l’orlo dell’Isola, e che si ritirava colla preda di centocinquanta nazionali fra uomini e donne imbelli, alla sua flottiglia, radunati soltanto dieci uomini, sul punto di mezzanotte si fece incontro a cavallo a quei barbari, salvò dalle loro mani tutti i sardi schiavi, fece una grande strage nei predatori, molti ne prese vivi, e li mise in catene, ed impadronitisi delle loro galee con tutto l’equipaggio, a pochi d’essi riuscì di salvarsi colla fuga”. Madau scrive che Bernardino Puliga era “dell’antica e nobile schiatta de’ Puliga di Tortolì”. Uno studioso di Puliga, Vittorio Sella sostiene invece che era di origine sassarese.Più o meno negli stessi termini la vicenda è descritta nel Dizionario di Angius-Casalis, che però la inserisce in un contesto temporale e territoriale più vasto: “Siccome accadea spesso che sbarcando di notte sotto la condotta di qualche rinnegato, assalissero il paese improvvisamente, così dovettero pensare a preservarsi, e costrussero una cinta intorno al paese, della quale sono rimaste alcune reliquie e vestigie sino a questo punto. Nel 1581 non era ancora formata questa cinta, perché essendo arrivati inopinatamente i barbareschi, fecero più di 150 schiavi. Con questi e col bottino si avviavano al porto, quando D. Bernardino Puliga, discendente da gloriosa schiatta, corse con soli dieci uomini a cavallo sulla truppa affricana, e sebbene non fossero che uno contro venti, operarono con tanto valore, che scompigliarono i barbari, li posero in fuga, ne uccisero gran numero, e ricondussero liberi nel paese gli infelici che temevano la servitù. I barbareschi proposero di vendicarsi di questa sconfitta, e due anni dopo approdarono improvvisamente con gran navi a questa spiaggia. La terra di Siniscola sentì prima delle altre della baronia il furore degli infedeli, vi fu ucciso gran numero di persone, furono saccheggiate le case, presi molti alla servitù, quindi movendo sopra Torpè fecero altrettanto eccidio. Si fabbricarono poscia le due torri di s. Lucia e della Caletta, ma se giovarono per tenere avvertiti quei del paese quando apparivano navi barbaresche, non poterono impedire gli sbarchi frequenti; e se ne’ conflitti fecero i siniscolesi belle prove di valore ed ebbero la gloria di ricacciar sul mare gli assalitori, non però evitarono ogni danno per quelli che perivano, e per quello che si toglievano i ladroni”. 

Sempre su Bernardino Puliga lo storico Francesco Loddo-Canepa scrive che “nel 1.9.1593 fu investito del cavalierato per l’opera prestata in recuperando prado et liberandis hominibus villae de Siniscola…e manibus turcorum qui ipsam in mense februari 1581 invaserant e quibus multi capti et occisi remanserunt…cum suae maximo vitae…pericolo.

Da ricordare che nel 1572 (nove anni prima dell’incursione barbaresca respinta dal Puliga) gli atti del parlamento del regno registrano una vibrata protesta dei rappresentanti baroniesi (poi ribadita anche due anni dopo) perché l’impegno che i popolani di Posada e dintorni dovevano porre nella vigilanza delle coste, ormai con regolarità assaltate dai pirati tunisini ed algerini, sottraeva energie alla produzione; così come si segnalava, con fastidio, che le uccisioni riducevano di fatto anche il numero dei braccianti disponibili. Quantunque a fini essenzialmente utilitaristici, la Casa di Aragona finalmente si interessava di questo grave problema.

Il barone Don Michele Clement fu dunque chiamato ad avallare una richiesta di riduzione delle tasse feudali e invitato a fornire contributi per le fortificazioni. Inoltre, per favorire la ripresa degli scambi, fu sollecitato a favorire la non applicazione, per la Baronia, di alcune norme di commercio interno (una sorta di calmiere vigente) e quindi a non applicare certi dazi.

Due anni dopo, però, la reiterata supplica non ebbe altrettanto successo: la richiesta di miglior protezione militare fu sì esaudita con l’invio di ben due compagnie di fanteria, ma… di stanza a Oliena!

Con il timore dell’arrivo dei Turchi, nel 1575 fu imposta una tassa per la costruzione di una flottiglia di galee; l’anno dopo il barone don Giovanni Fabrizio Manca Guiso, che da Cagliari coordinava le armate isolane, distribuì archibugi e polvere da sparo, preparandosi alla difesa dalle invasioni. L’arcivescovo di Cagliari dispose prudentemente l’ammasso del grano a Cagliari. Ma i Turchi non vennero, e il ricavato della tassa per la costruzione delle galee venne impiegato per costruire il seminario di Cagliari.Non ci volle molto, a queste condizioni, perché Don Michele Clement, proprietario del feudo, chiamato ad occuparsi in prima persona di questioni spinose, si disfacesse della Baronia: con atto del 22 maggio 1579 del notaio Pietro Franqueza la vendette per 16.500 fiorini catalani a Cristoforo Portugues, un buon borghese di Cagliari del quale non si hanno molte altre notizie.

Il 1582 fu un anno sfortunato: infatti furono attaccate Villanova Monteleone, dove furono fatti cinquanta schiavi, in questo villaggio, però, alcuni popolani, guidati da Don Pietro Boyl sbaragliarono i Saraceni intercettandoli sulla strada del ritorno, e liberarono i compaesani prigionieri.

Scrive a proposito di questo episodio in Itinerarie de l’île de Sardaigneil La Marmora:”Il villaggio benché distante da più di sei miglia dal mare e in una posizione sicura, venne attaccato di notte da trecento barbareschi, sbarcati versoi la torre di Poglina e guidati da un rinnegato. Questi la saccheggiarono e la privarono di un gran numero di abitanti. Nel frattempo un Don Pietro Boyl, radunato un buon drappello di popolani, inseguì i corsari e, raggiuntili mentre si riportavano alla spiaggia, li assalì con tale impeto che, dopo un terribile conflitto, li vinse e liberò i fratelli già incatenati. Dei nemici molti perirono, i dispersi nel bosco caddero uccisi o prigionieri dei Sardi: quelli rimasti a bordo, immediatamente fuggirono dal lido”.

Sempre nel 1582 fu attaccato anche Quartu, dove furono catturate più di duecento persone, mentre gli altri abitanti fuggirono nei villaggi vicini (Settimo, Sestu, Sinnai e Maracalagonis); nei quartieri di Cagliari: a Stampace, Marina e Villanova e nel Sarrabus. L’episodio risulta fra l’altro nella petizione del suo sindaco alle Corti generali del 1583-86. Con tale petizione il sindaco chiedeva che si desse un sussidio per “cingere di mura il villaggio”. Come risulta dagli Atti del Parlamento (Vedi Angius, Dizionario Casalis) gli venne risposto che il comune “provvedesse alla sua salvezza formando un ridotto atto a potervisi rifugiare e difendere in caso di aggressione”.

Nello stesso anno furono inoltre saccheggiati anche i villaggi più vicini a Quartu, di Pauli (Monserrato), Pirri e Quartucciu.

Nel 1584 –secondo il Fara- furono assalite e saccheggiate Gonnosfanadiga e Pabillonis, sorprese da un gruppo di corsari che era sbarcato nella marina di Arbus e si era inoltrato all’interno. L’Angius, a proposito di Pabillonis precisa che i barbareschi vi furono condotti da un rinnegato sardo e che, eccetto i popolani salvatisi con la fuga, gli altri furono massacrati o tratti in schiavitù.

Nello stesso anno i corsari sbarcarono nelle marine di Alghero, dove a Porto Conte, fecero più di cento prigionieri.

Nel 1617 una terribile incursione arrecò gravi danni a Sant’Antioco, a Teulada e a Pula: molti cittadini furono catturati e fatti schiavi.

Nel 1620 un’armata turca minaccia le spiagge di Quartu che si salvano grazie all’intervento di una grande schiera di miliziani a piedi e a cavallo.

Nel 1621 i corsari tentarono di invadere le spiagge attorno a Cagliari e riuscirono comunque a fare bottino e schiavi.

Nel 1623 le galee di Tunisi e Algeri assalgono Posada e la saccheggiano, ma gli abitanti furono salvi.” Di questa disgrazia –riferisce Pietro Martini- ebbe gran colpa il barone del luogo, un certo Portoghese, che mancò al suo dovere di mantenere in buone condizioni le opere di difesa del villaggio”.

Le stesse galee invadono nuovamente i lidi sardi nel 1627 e nonostante la sorveglianza delle popolazioni nel respingerle, i Mori penetrarono nella Chiesa di San Gavino a Porto Torres, saccheggiandola.

Le galee di Biserta, (cittadina a nord di Tunisi, a 65 km di distanza) nel  1636, spintesi nel capo settentrionale dell’Isola, attaccano e occupano alcune torri, sottraendo cannoni e munizioni.

Nel 1684 i barbareschi, avanzati di notte fino a Magomadas, l’assalirono e vi fecero bottino e schiavi. Ma gli abitanti di Tresnuraghes, capeggiati da Giammaria Poddighe, si armarono e inseguirono gli invasori nel loro ritorno al lido. Li sconfissero, recuperando il bottino e i prigionieri. A detta di La  Marmora (in Itinerarie de l’île de Sardaigne) i discendenti di Poddighe conservavano una bandiera con la mezzaluna, presa in quel conflitto dal loro coraggioso antenato.

Nel 1725, due armatori sardi, imbattutisi in una galea turca, l’attaccarono e la depredarono: ritornati a Cagliari con il bottino, furono oggetto di ovazioni popolari: ce lo riferisce Pietro Martini, sempre nell’opera già citata.

Nel 1736, nelle acque di Teulada, una galea turca viene colpita e costretta a sbattere sulla costa. I torrigiani e altri sardi se ne impadronirono, coi Turchi che si disperdono nei boschi.

Nel 1743 navi barbaresche veleggiano presso il golfo di Cagliari che teme di essere aggredita di notte attraverso le parti della città non cinte da mura.

Nel 1745 galee regie, dopo un cruento combattimento, depredano una galea turca.

 Nel 1753, le stesse galee, combattendo presso Tavolara, si impossessano di una galea tunisina.

Nel 1757, le medesime, -è sempre Pietro Martini a riferirlo- “comandate dal caposquadra cav. Guibert, assalirono una galeotta turca nei mari di Orosei e se ne impadronirono. Nel conflitto, il cav. di Caluso, luogotenente della galera capitana, riportò una ferita”. 

Nel 1762: è sempre Martini a scriverlo”I Barbareschi sbarcarono nelle spiagge di Siniscola e di Orosei e vi catturarono uomini e bestiame. Tentarono di farlo anche in Terranova e in altri luoghi vicino a Cagliari, ma furono respinti dai popolani”.

Nello stesso anno fu attaccata l’isola di Serpentara dove furono fatti prigionieri i serventi della torre che fu bruciata con quanto si trovava all’interno: 144 abitanti furono condotti via come schiavi. 

Nel 1763, il 14 ottobre, tre mezze galee barbaresche, con più di quattrocento uomini approdano a poca distanza dalla torre presso Teulada, con tutta la ciurma. Ma grazie alla resistenza dei Teuladesi le navi barbaresche sono costrette a ritirarsi e dirigersi verso le isolette del Toro e della Vacca.

Nel 1764 i barbareschi sbarcarono in Ogliastra e nel luogo chiamato Saralà vi assalirono nove uomini che però reagirono costringendo gli assalitori alla fuga. Furono altresì respinti dalle milizie di Tertenia, nell’altro sbarco effettuato poco dopo in quelle coste
Nel 1765 i corsari sbarcarono a Porto Pino e fecero molti prigionieri.
In una incursione tunisina lungo le coste del golfo di Cagliari furono effettuati diversi sbarchi e catturate diverse persone.

Nel 1772, verso la fine di Giugno, 28 galee muovono dal porto di Biserta verso Cagliari che tennero bloccata per più giorni. A terrorizzare i cagliaritani contribuì la voce che a comandare le incursioni fossero -scrive Pietro Martini- “due rinnegati: uno sardo, detto Ciuffo, diventato rais di una galeotta, e promettitore di grandi razzie per ingraziarsi meglio il bey di Tunisi, temuto in particolar modo come conoscitore delle patrie coste; l’altro tabarchino, che da Carloforte dove lasciò la moglie, era partito a Tunisi per farvi fortuna”.

I danni, alla fine, risultarono però modesti.

Nel 1774, sempre il Martini scrive che il “rinnegato” Ciuffo si sia “consegnato” ai sardi e, rifugiatosi in Convento, rimase lì fino all’abiura dell’Islamismo. In seguito, favorito dal Governo, avrebbe assunto il comando di una galea armata (forse quella stessa che comandava prima) combattendo “con sommo ardore” contro i Barbareschi. 

Sempre nel 1774, i Barbareschi assalirono Orosei ma inutilmente, perché furono respinti dalla cavalleria miliziana e, nella fuga verso le navi, lasciarono a terra due morti.

“Il Denobili –scrive Martini– rese celebre il suo nome, con la preda di una galeotta corsara”.

Nel 1777 viene tentato uno sbarco nell’isola dell’Asinara da parte di una galea turca, ma viene respinto dagli abitanti. Altrettanto successe  in altri luoghi dell’Isola, ad iniziare da Pula, dove la cavalleria miliziana sventa il pericolo.

Nell’agosto del 1787 il cav. Vittorio Porcile, al comando della mezza galea Santa Barbara riesce a depredare una galea turca; così ci riferisce Pietro Martini.

Lo stesso Martini scrive –sempre in Storia delle invasioni degli arabi e delle piraterie dei barbareschi in Sardegna- che nel 1791 “Le due mezze galere –leggeri bastimenti da guerra, a remi, con due alberi a vele latine e tre cannoni in coperta (NdA)-Santa Margherita e Santa Barbara, comandate l’una dal cav. Demay e l’altra dal Porcile, assalirono una grossa galeotta di sessanta uomini e la saccheggiarono. Dei nemici molti morirono nel conflitto: altri piuttosto che arrendersi, si gettarono in mare e morirono. Appena ventisette caddero prigionieri”.

Nel 1792 e nel 1794 galee regie attaccano e depredano galee turche nei mari di Corsica.

Il Manno –in Storia moderna di Sardegna  scrive nel settembre  del 1798 l’incursione notturna di una flotta di corsari Barbareschi. contro Carloforte fece oltre 800 prigionieri, portati come schiavi a Tunisi.

Ecco il resoconto dei fatti secondo il carlofortino Ampelio Panzalis :“Nella notte del 2 settembre del 1798 arrivarono inosservate nelle acque di Carloforte, fiorente colonia di tabarchini nell’isola di San Pietro, in Sardegna, fondata dal Re Carlo Emanuele III di Savoia, quattro navi tunisine armate di una cinquantina di cannoni e con a bordo circa mille persone tra marinai e predoni. Secondo gli ordini ricevuti dal Bey, loro signore, e secondo le istruzioni del capo della spedizione dovevano giungere davanti all’isola improvvisamente, fare un grosso bottino e menar schiava a Tunisi tutta la popolazione. E riuscirono nell’intento. Le navi si ancorarono nella piccola rada e quei pirati si apprestarono a discendere silenziosamente a terra, armati di tutto punto”.

Riscattati con grande fatica e grazie all’impegno diretto di Napoleone, poterono tornare in Sardegna solo nel 1803.

Nel 1799, il 14 ottobre una squadra tunisina getta l’ancora a sei miglia di distanza dall’isola della Maddalena. Il comandante dell’isola, Domenico Millelire –lo stesso che aveva sconfitto Napoleone nel 1793- armò la popolazione, la schierò sulla spiaggia di fronte al nemico e fece tuonare i cannoni. I Tunisini presi dalla paura si ritirarono e volsero le vele verso l’isola di Caprera. Il fatto è riferito da Pietro Martini nella sua Storia dal 1799 al 1816, in continuazione della Storia del Manno.

Una flottiglia tunisina, con settecento uomini la notte del 5 giugno del 1806 sbarca nelle spiagge di Orosei. La popolazione riesce a mettere in fuga i nemici: ottanta e più caddero fra morti e feriti, a fronte di un solo sardo morto e un ferito: la fonte è Pietro Martini.

Benchè sconfitti a Orosei i Tunisini continuarono a corseggiare: predarono alcuni legni mercantili e sbarcarono sulle spiagge dell’Ogliastra e del Sarrabus, facendo schiavi. Questi furono riscattati nel 1803, pagando quarant’otto mila lire o scambiando africani incatenati nell’Isola.

I primi due decenni del secolo XIX registrano una serie di scontri fra navi della Marina sarda e barbaresca nei mari intorno all’Isola: in alcuni di questi si distinsero per valore (e anche per i danni inferti agli aggressori) il nocchiero Tomaso Zonza e Domenico Millelire, già segnalatisi in occasione del tentativo francese del 1793 contro La Maddalena, e il comandante Vittorio Porcile. 

Nel 1811 il bey tunisino spedisce una squadra per invadere i mari sardi. Si combatte fra il capo di Teulada e di Malfatano. Grazie soprattutto al valore di Vittorio Porcile, i tunisini sono costretti ad arrendersi.

Una squadra tunisina di nove navi da guerra nel 1812 dal 20 al 22 luglio attacca il golfo di Cagliari e irrompe nelle marine di Quartu. Il governo risponde con truppe e cannoni. A questo punto i tunisini assaltano le due torri di Portogiunco e dei Cavoli. Si dirigono quindi verso Sant’Antioco, occupandone il fortino, ma vengono respinti dalla popolazione. Costretti ad abbandonare i litorali del Sulcis veleggiarono per le coste della Sardegna orientale.

Ecco come Pietro Martini descrive il fatto:”Riversatisi sulle coste del Sarrabus, assa­lirono la torre di Porto Corallo. Il loro colpo fallì, tra la ga­gliarda resistenza dei torreggiani e il pronto accorrere degli ani­mosi popolani di Muravera, San Vito e Villaputzu. Perciò at­taccarono la torre più lontana di S. Giovanni di Saralà. La mat­tina del 27 luglio, schierate di fronte a questa le loro navi, ne sbarcarono più di quattrocento. La torre era fortificata da Se­bastiano Melis, guardiano, dal figlio Antonio e da altri due ar­tiglieri. Sulle prime, i barbari tentarono di convincerli alla resa con lusinghe e poi con minacce; ma vedendoli incrollabili, pre­sero a colpire furiosamente la torre da terra e dal mare. In una lotta così tanto ineguale, i difensori risposero impavidi al terri­bile fuoco nemico con le piccole armi, giacché non serviva il cannone per la prossimità degli invasori. Dopo alcune ore di combattimento questi, raggiunto il boccaporto, impiastrarono la porta con il catrame e vi appiccarono il fuoco. Melis e com­pagni, invece di sconcertarsi, decisi a vincere o morire, duraro­no imperterriti nel combattimento, durante il quale una for­tuita esplosione di polvere tolse la vita ad Antonio Melis e ferì il padre e uno dei due artiglieri: non per questo però si trat­tennero dal portarsi sulle orde assalitrici. Alla fine queste, do­po dieci ore, perse le speranze di conquistare la torre e scorag­giate per la caduta dei loro tra morti e feriti, si ritrassero dal combattimento. Sopraggiunti nel frattempo i miliziani di Ter­tenia, quelli, presi dallo spavento, si diedero a precipitosa fuga e si rimbarcarono. La medaglia d’oro al Melis, e ricompense minori ai due artiglieri, furono il frutto della loro bravura”. 

Nel 1813 molte marine sarde subiscono le incursioni dei Barbareschi: di Tunisi, di tripoli e di Algeri. Non era mai avvenuto che le forze delle tre reggenze “congiurassero nello stesso tempo contro la Sardegna” scrive Pietro Martini.

I tripolini assaltano i tonnarotti di Calasapone: ma questi ultimi li costringono a fuggire e alcuni rimasero feriti o morti. Arrivano poi i Tunisini e una squadra algerina con sette navi da guerra. Fecero schiavi a Portopino, nella Nurra, nelle spiagge di Alghero, nelle coste del Sulcis e di Pula. Tentarono un’incursione vicino a Marceddì ma i popolani li obbligarono alla fuga.

ØVerso la fine delle incursioni barbaresche

Nell’estate del 1815 una flotta armata si muove da Tunisi. Verso la fine di Agosto si riversa sui mari del Sarrabus, riducendo in schiavitù alcuni contadini. I Barbareschi sbarcano poi a Santa Teresa di Gallura ma vengono respinti dai soldati sotto il comando dell’ufficiale Bosio, dai popolani e dai pastori galluresi. Costretti a reimbarcarsi il 14 ottobre si spingono al Golfo di Cagliari e il 15 nell’isola di Sant’Antioco, dove sbarcano all’alba del 16.

Più di 125 sardi furono fatti schiavi, il villaggio fu saccheggiato. Il successo di questa spedizione incoraggiò un ulteriore invasione: quella dell’isola di San Pietro e delle spiagge di Cagliari.

Ecco, a questo punto –secondo la ricostruzione di Pietro Martini- come, alla fine del 1815- provvide il Governo:

Il ministero di Torino spedì nei mari sardi due nuove mez­zegalere e a Cagliari i soldi per sopperire alle spese di mante­nimento dei nuovi cannonieri.

In questi frangenti il governo del re scongiurò la Gran Bre­tagna e la Russia di porre rimedio a nuove incursioni: le due grandi potenze si adoperarono con tanto ardore che il bey di Tunisi sospese in nuovi preparativi; in particolar modo il go­verno britannico ordinò all’ ammiraglio Exmouth, come me­diatore inglese e come inviato dei re di Sardegna e delle due Si­cilie, di presentarsi con la flotta alle tre reggenze barbaresche e fare in modo che entrassero con i due stati in relazioni di ami­cizia non dissimili da quelle usate con gli altri potentati.

La missione dell’ ammiraglio ebbe un ottimo risultato. Per rispetto della Sardegna concordò con le tre reggenze che, per il futuro, vi fosse reciproca libertà di commercio e venne con­cesso alla Sardegna di avere consoli presso quei governi. Stipu­lò soprattutto con Algeri l’esborso di cinquecento piastre di Spagna per la liberazione di ogni schiavo; con Tunisi, il per­messo ai Sardi della pesca del corallo su quelle coste, con i fa­vori goduti dagli altri europei; con Tripoli, l’offerta da parte del re di quattromila piastre, come dono consolare, alla prima nomina e a ciascun cambio del console. Ciò che più conta, sti­pulò con i bey di Tunisi e di Tripoli l’abolizione della schiavitù e, in caso di guerra, il trattamento dei prigionieri secondo gli usi europei, fino alloro scambio e restituzione senza riscat­to. Però il bey di.Algeri, per acconsentire a quest’ultimo patto, chiese un ritardo di sei mesi con il pretesto di dover prima esplorare la Sublime Porta.

Dunque, ritornarono in patria i Sardi che soffrivano schia­vi in Barberia, tra i quali i ventitré che si trovavano ad Algeri, riscattati con l’esborso di sessantamila lire, sennonché queste furono recuperate poco dopo.

Con il bombardamento di Algeri a opera delle due squadre  inglese e olandese, capitanate dal suddetto comandante, per vendetta delle offese degli Algerini ai Cristiani che pescavano il corallo presso Bosa, anche quell’ ostinato bey dovette piegar­si all’abolizione della schiavitù degli europei, all’immediata li­berazione degli schiavi che ancora deteneva e alla restituzione dei soldi ricevuti per il riscatto dei Sardi.

Liberata, in tal modo e per sempre, la Sardegna dal flagel­lo dei Barbareschi, il suo commercio ridivenne libero, le po­polazioni costiere rifiorirono e aumentarono le industrie agrarie, inceppate nel passato dalla. paura di perderne in un istante il frutto”. 

Dunque il 3 aprile 1816  l’ammiraglio inglese Exmouth, anche come delegato del re di Sardegna, impose al bey di Algeri una convenzione che lo vincolava a pacifiche relazioni con il Regno di Sardegna. Dopo quella di Algeri analoghi trattati furono firmati con le reggenze di Tunisi e Tripoli. Quelle firme chiusero sostanzialmente i mille anni di incursioni contro la Sardegna: ce ne furono anche dopo il 1816 ma sempre più sporadiche fino a cessare del tutto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POESIA de Franciscu Carlini in onore di Cicitu Masala

PO FRANCISCU MASALA

 

No m’ant cuncediu de movi unu passu

avatu de su cinixu suu pinnigau in d’una cascitta

chi a serru at scipiu capi su corpus de unu òmini

mannu de buntadi, po una grandu poesìa

chi sa boxi at donau a is pòberus

de una terra bella e disdiciada.

Ma nemus un’amistadi nd’at a podi scancarai

chi sighit citìa a pustis de medas attobius,

paràulas e paràulas

penzamentus e penzamentus

e ideas

in s’aposenteddu in artu in artu

prenu de mari de soli

asuba de sa bianca cittadi fenicia.

Is nemigus de ariseru ndi funt essìus a campu

in nòmini de un’amistadi mai tenta

chi unu mortu no podit prus arreusai,

e funt bantus po unu poeta

chi mai oberrìat sa genna

a is affaristus de sa cultura

a is mercaderis de su templu.

 

Is chistionis deu sigu longas de prus de cinquant’annus

e no m’intendu a solu.

Su sèmini ghettau at donau fruttus in medas terras

e funt differentis e totus succiosus.

Sa presenzia sua est ancora innoi

in d’unu logu chi no ap’a narri

poita nemus si pozzat strobai.

 

 

 

PER FRANCESCO MASALA

 

Non mi hanno concesso di muovere un passo

dietro le sue ceneri raccolte in un’urna

che a stento ha saputo contenere il corpo di un uomo

grande per bontà, per una poesia grande

che voce ha dato ai poveri

di una terra bella e infelice.

Ma nessuno un’amicizia potrà mai scardinare

che continua muta dopo tanti incontri,

parole e parole

pensieri e pensieri

e idee

nell’aerea stanzetta

piena di mare di sole

sulla bianca città fenicia.

I nemici di ieri sono usciti allo scoperto

in nome di un’amicizia mai avuta

che un morto non potrà più contestare,

e sono lodi per un poeta

che mai apriva la porta

agli affaristi della cultura,

ai mercanti del tempio.

 

Io continuo i lunghi colloqui di oltre cinquant’anni

e non mi sento solo.

Il seme gettato ha dato frutti su molti terreni

e sono diversi e tutti succosi.

La sua presenza è ancora qui

in un posto che non dirò

perché nessuno possa disturbarci.

La civiltà nuragica

di FRANCESCO CASULA

 

La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia –  di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”. 

 

Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi.

 

Mentrel’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda.

 

Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas

 

Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.

 

La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.

 

Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila – secondo il linguista sardo Massimo Pittau – scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.

 

Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola. Ma con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. 

 

Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.

 

La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.

 

Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.

 

A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Lilliu a scriverlo –  ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.

 

La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).  

(Tratto dalla Introduzione di Letteratura e civiltà della Sardegna, due volumi, Editrice Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011).

 

 Come vedono la civiltà nuragica

1. SERGIO ATZENI

 “Non so definire la parola felicità. Ovvero non so che sia la felicità. Credo di aver sperimentato momenti di gioia intensa, da battermi i pugni sul petto, al sole, alla pioggia o al coperto, urlando (a volte vorrei farlo e non si può) o da credere di camminare sulle nuvole o da sentire l’anima farsi leggera e volare alta fino a Dio (è capitato di rado). E’ la felicità? Così breve? Così poca?

 

Se esiste una parola per dire i sentimenti dei sardi nei millenni di isolamento fra nuraghe e bronzetti forse è la felicità.

 

Passavamo leggeri come acqua, disse Antonio Setzu, come acqua che scorre, salta, giù dalla conca piena della fonte, scivola e serpeggia fra muschi e felci, fino alle radici delle sughere e dei mandorli o scende scivolando sulle pietre, per i monti e i colli fino al piano, dai torrenti al fiume, a farsi lenta verso le paludi nel mare, chiamata in vapore dal sole a diventare nube dominata dai venti e pioggia benedetta.

 

A parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti, eravamo felici. Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascoli e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo,bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti[…]”

[Sergio Atzeni, Passavamo sulla terra leggeri, Ed. Mondadori, Milano 1996, pagine 28-29]

 

2. ELISEO SPIGA

”Anche il giardino che avevano esplorato i suoi antenati era certamente un paradiso terrestre dove c’era tutto quanto gli uomini avessero potuto desiderare per condurre una esistenza non ricurva. In questo non vigevano divieti o avvertimenti minacciosi e tutto vi avrebbero potuto conoscere. Non c’erano lupi, draghi o demoni. Non vi si nascondeva il serpente che avrebbe tentato le donne che andavano a cogliere le pere, i fichi, le bacche di corbezzolo, le erbe aromatiche o a prendere il miele dalle cavità delle querce o i cristalli di sale lavorati dal sole nelle buche calcaree o che scendevano nelle acque smeraldine racchiuse fra gli scogli a lavarsi delle dolci fatiche notturne.

 

Tra le garighe di timo odoroso e le steppe di sparto crescevano gli iris azzurri, le margherite a foglia grassa, i narcisi canicolari, i cespugli giallo-oro del tagete, le rose, la scrofularia a tre foglie, e le altre ortiche meno mansuete, e più in basso, verso gli stagni listati dalla salicornia purpurea, le foreste di pini, i canneti ondeggianti, le tife-fieno di stuoia, i tamerici e mille altri fiori arbusti e piante.

 

Sotto quell’eterno verde variamente sfumato e enfatizzato dalle punte bianche delle rocce e dalle macchie fiorite, tra il lentischio il rovo lo spinacristi e il ginestrone, schizzavano i prolaghi e chiocciavano le pernici, incuranti di volpi gatti e donnole, mentre tutt’intorno era un continuo aleggiare di uccelli di ogni specie: germani e anatre di tutte le forme e colori, oche, folaghe, gabbiani,piccioni, stornelli, gruccioni, aquile di mare e di monte; e un discreto passeggiare di gallinelle, di sontuosi polli-sultano dall’incredibile livrea turchina e dalle zampe rosso-corallo; e un frusciare di fenicotteri, che a migliaia in formazioni a cuneo, attraversavano il primo e l’ultimo sole della giornata. E cervi daini mufloni e cinghiali, distrattamente vagabondando, si fermavano per cibarsi di carrube e ghiande, abbondanti nella laguna di monte  […]”.

 [Eliseo Spiga, Capezzoli di pietra, Zonza editore, Cagliari 1998, pagina 50] 

 

3. GIOVANNI LILLIU

Il 23 Novembre 2009 ha fatto una lectio magistralis sui «Contadini e i pastori nella Sardegna neolitica e dei primi metalli» la settimana di studi su «La preistoria e la Protostoria della Sardegna», convegno promosso annualmente dall’Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria e quest’anno dedicato all’isola, con appuntamenti a Cagliari, Barumini e Sassari.
 Lilliu ha novantaquattro anni ed è l’archeologo che ha gettato le basi per le moderne conoscenze sul passato della Sardegna, combinando uno studio analitico fondato su scavi e dati concreti a intuizioni geniali, come ad esempio la scoperta della reggia nuragica di Barumini, uno dei più significativi siti archeologici dell’isola, sicuramente il più conosciuto al mondo per quanto riguarda l’era nuragica. Dalla sua ricostruzione socio-economica degli antichi sardi è emersa l’idea di un momento aureo del passato isoano. Un’epoca in cui la società era sì articolata in ceti, ma unicamente per questioni di struttura sociale e non di ripartizione del potere. Una fase storica, detto sinteticamente, di grande fermento culturale, dove enorme rilevanza avevano le corporazioni degli artigiani. Tanto che a loro secondo Lilliu si devono

 

1.Nella Sardegna preistorica ci fu un’età aurea in cui gli abitanti vivevano di agricoltura e caccia ed erano un popolo pacifico di laboriosi artigiani. Producevano in abbondanza e si dedicavano ai commerci, spingendosi in ogni angolo dell’isola e anche oltre il mare, tanto che tracce della loro cultura si sono ritrovate in Francia e in Spagna.

 

2.Ma soprattutto era un popolo libero e indipendente, prima che dal mare arrivassero colonizzatori portatori di nuove culture, spesso imposte con le armi e la guerra.

 

3.le raffinate opere di architettura sacra (ad esempio l’altare di Monte d’Accoddi-Sassari) e funeraria (le grotticelle ipogeiche di Sant’Andrea Priu-Bonorva, di Mandra Antine-Thiesi, di Montessu-Villaperuccio)

 

4.le eleganti ceramiche con le decorazioni tipiche di quel periodo, i gioielli e gli ornamenti rinvenuti nelle sepolture, utilizzati come corredo e protezione magica dei defunti.

 

5.In esse già si coglieva una certa aspirazione democratica, dove anche il singolo partecipava attivamente alla crescita della comunità.

 

6.Ecco, in estrema sintesi, il quadro della civiltà che gli studiosi definiscono di “Ozieri o San Michele” e fanno risalire al Neolitico recente (tra il 3500 e il 2500 a. C.). Un’età mitica, forse ineguagliata nella preistoria della Sardegna, che si anima come un paradiso perduto nelle parole di Lilliu.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dante, la Sardegna e la lingua sarda

Dante, la Sardegna e la lingua sarda

 

di Francesco Casula

Non sappiamo con esattezza se Dante sia stato in Sardegna di persona: non abbiamo comunque documenti che lo accertino. Nella Divina Commedia però i riferimenti alla Sardegna e ai Sardi, ai suoi costumi e ai principali personaggi che quivi avevano interessi e possedimenti o che comunque vi svolsero la loro opera, sono tanto frequenti da indurre Tommaso Casini (in Ricordi danteschi in Sardegna, in Nuova Antologia, terza serie, vol. LVIII, fasc. XIII e XIV) a prospettare l’ipotesi che l’Alighieri vi sia stato e che l’Isoletta di Tavolara, all’uscita del canale di Olbia, con la sua struttura conica dalle bianche falde calcaree emergenti dal mare abbia dato lo spunto alla forma del Purgatorio quale la foggiò l’ardita fantasia del poeta. Ecco cosa scrive: ”La storia, la geografia, la lingua, i costumi, gli uomini, i fatti della Sardegna nel tempo di Dante sono rispecchiati nelle opere di lui con tanta precisione e abbondanza di informazioni che, al confronto col silenzio di tutti i suoi contemporanei, inducono un senso di meraviglia sì che non dovrebbe poi parere troppo ardita l’ipotesi che il Poeta, o da giovane, quando a ciò poteva essergli occasione l’amicizia sua con il giudice Nino gentile o nella più matura età quando fuoruscito dalla patria godette la ospitale cortesia dei Malaspina, i quali appunto ebbero in quegli anni frequenti occasioni di recarsi nell’isola, facesse anch’egli come tanti altri al suo tempo, il viaggio in Sardegna. L’ipotesi sarebbe tutt’altro che campata in aria…”.

Anche perché – aggiunge Casini – ai tempi di Dante il viaggio dall’Italia alla Sardegna era “Né lungo né difficile. Le galee di Pisa arrivavano per l’Elba alle coste della Gallura in due giorni”.

E Pantaleo Ledda, più o meno sulla stessa linea (in Dante e la Sardegna, 1921, riedito dalla Gia editore, Cagliari, 1994) scrive che “se non si trattasse di un volo di fantasia, si potrebbe dire, per avvalorare l’ipotesi di questo viaggio, che l’idea di creare il monte del Purgatorio, sorgente dalle acque di un mare solitario, venisse al poeta dopo le vive impressioni alla vista dell’Isola di Tavolara, che sale a picco dal mar Tirreno, coronata sulle cime di una fosca boscaglia”.

“Certo è che quell’Isola scriveva sempre Casini – come ricorda Manlio Brigaglia in Dionigi Scano, Ricordi di Sardegna nella Divima Commedia con scritti di Alberto Boscolo, Manlio Brigaglia, Geo Pistarino, Marco Tangheroni, Cagliari, Banco di Sardegna, Milano Silvana editoriale, 1982 – così integrata all’economia toscana, così attraversata da mercanti e marinai (furono loro che fecero alle donne di Barbagia la fama di licenziosità di cui furono secondo i commentatori, unanimemente circondate nel medioevo) così direttamente collegata alle lotte di potere fra le grandi famiglie pisane, così importante nella politica oltretirrenica di quei signori Malaspina di cui Dante fu ospite e lodatore, doveva essere conosciuta e universalmente «raccontata» nel mondo che Dante conobbe e frequentò”.

Sicuramente conosceva gli avvenimenti e i personaggi della Sardegna del secondo ‘200 e del primo ‘300 sia attraverso Nino Visconti, il Nino gentile suo amico, Giudice di Gallura, morto nel 1289, che spesso si recava a Firenze; sia attraverso i toscani che spesso si recavano in Sardegna; sia attraverso gli stessi Sardi che si recavano in Toscana.

Dante parla della Sardegna e dei Sardi nei canti XXII, XXVI, XXIX, XXXIII dell’Inferno e nel VII e XXII del Purgatorio. Fra le regioni storiche sarde vengono nominate la Barbagia, la Gallura e il Logudoro.

L’Isola dei Sardi è ricordata nel canto XXVI, versi 103-105 dell’Inferno, quando racconta il mitologico viaggio di Ulisse:

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna

Fin nel Marocco e l’isola de’ Sardi

E l’altre che quel mar intorno bagna.

E nel canto XVIII, versi 79-81 del Purgatorio accennando al declino della luna a mezza notte tarda:

E correa contro ‘l ciel per quelle strade

Che ‘l sole infiamma allor che quel di Roma

Tra ‘ Sardi e’ Corsi il vede quando cade.

Il primo a occuparsi della Sardegna nella Divina Commedia è l’archeologo sardo  Filippo Vivanet, (in La Sardegna nella «Divina Commedia» e nei suoi commentatori, Sassari, Tip. Azuni, 1879). Secondo Vivanet, il poeta fiorentino parla dell’Isola solo per evocare spiriti di assassini e di barattieri: “Nei pochi punti ove noi entriamo direttamente non è già per intrattenere il lettore di uomini grandi e virtuosi, per dare vita a un’immagine giuliva e leggiadra ch’egli lo fa, ma sibbene per evocare spiriti tristi di assassini e di barattieri, per distendere sulla sua tavolozza tinte dolorose di delitto e pena”.

Certo si potrebbe sostenere che Dante nei suoi strali non risparmia nessuno: ); né Cesena dove (tra tirannia si vive e stato franco); né Siena (gente sì vana come la senese); né Lucca (dove ogni uomo è barattiere); né i Romagnoli che sono imbastarditi; né i Pisani (volpi sì piene di froda e  Ahi Pisa vituperio delle genti ); né gli Aretini (botoli ringhiosi ) né i Pistoiesi che conducono una vita bestiale; né i Genovesi, cui augura l’annientamento perché uomini diversi d’ogni costume e pien d’ogni magagna; né i Bolognesi dei quali (è questo luogo tanto pieno); nè il Casentino dove l’Arno scorre (tra brutti porci più degni di Balle, che d’altro cibo).

 Firenze, addirittura, che il poeta ardentemente predilesse, supera per gli ingiuriosi rim­brotti tutte le altre città italiane: è città ch’è piena d’invidia sì che ne trabocca il sasso…dove tanto più trova di can farsi lupi ecc. ecc.

 Fatto sta che dalle Cantiche del Paradiso la Sardegna e i Sardi sono puntualmente totalmente esclusi: “Nel ciel che più della sua luce prende” –secondo Vivanet – non vi era posto per una terra così infelice.

Dalla fosca luce dantesca in cui sono presentati i Sardi, non si salvano neppure  le donne: per il poeta fiorentino, quelle barbaricine avevano fama di dubbia moralità. Nel Canto XXIII del Purgatorio versi 94-96 fa dire infatti a Forese Donati:

Chè la Barbagia di Sardigna assai

nelle femmine sue è più pudica

che la Barbagia dov’io la lasciai.

Secondo le chiose del secondogenito di Dante, Pietro Alighieri, le donne sarde andavano addirittura discinte e sovente addirittura nude. Per lo storico Alberto Boscolo “era vero che le donne di Barbagia andavano con il seno scoperto, perché due secoli dopo i vescovi le obbligavano a coprirselo con un largo fazzoletto”. Secondo altri storici e commentatori si tratta di una vera e propria falsità. E’ una delle tante panzane – scrive Dionigi Scano in Ricordi di Sardegna nella«Divina Commedia» divulgate in terraferma sulla Sardegna, raccolta leggermente dal poeta.

Un altro studioso e commentatore della Commedia, Pantaleo Ledda, va oltre, sostenendo esattamente il contrario. La presunta immoralità non solo non avrebbe alcun fondamento, in quanto il pater familias esercitava un’autorità indiscussa su tutto il clan familiare, ma casomai, avveniva il contrario:

un’eccessiva copertura del corpo con abiti che arrivavano fino alle caviglie. Addirittura il viso, in certe circostanze appare nascosto dietro un fazzoletto scuro che avvolge il capo, le guance e il mento, specie se si tratta di donne maritate, vedove o anziane” (Dante e la Sardegna, opera citata).

Non puó dirsi neppure che Dante sia stato preciso – scrive ancora Dionigi Scano nell’opera già citata – quando nel De vulgari eloquentia, ragionando dei vari dialetti d’Italia, scrisse che Sardos etiam qui non Latii sunt, sed Latiis adsociandi videntur, ejiciamus, quoniam sine proprio vulgari esse videntur, grammaticam tamquam simniae homines imitantes”.

Insomma a Dante (il passo è contenuto nel capitolo .9 del Libro 1 del De Vulgari Eloquentia) ” Anche i Sardi, che non sono Latini, ma che sembra si possano ai Latini associare, cacciamo (dal novero degli eredi di diritto dei Latini) perché sembrano proprio gli unici a non disporre di un proprio volgare imitando la grammatica latina come le scimmie imitano gli uomini! (sic)!”.

Non comprendendo – precisa ancora Scano – che nessun altro idioma d’Italia conserverà, come il sardo, la nobiltà antica della Lingua latina.

Coglierà invece nel segno un suo quasi contemporaneo, Fazio degli Uberti quando nel Dittamondo, scriverà sui Sardi:

Io vidi che mi parve meraviglia

 una gente che alcuno non intende

nè sanno quel che altri bisbiglia.

“Versi confermanti – è sempre lo Scano a sostenerlo – la lenta evoluzione della lingua sarda, che mantenendo antiche forme e strutture proprie del latino, si rese inintellegibile a quanti erano adusati al dolce idioma italiano”.

Indubbiamente l’Alighieri non fu molto benevolo verso la ­Sardegna anche quando mette in evidenza il lato negativo della (presunta o vera) insalubrità dell’aria a causa delle zone paludose. L’accenno è contenuto nel canto XXIX, versi 46-51 dell’Inferno:

Qual dolor fora, se de gli spedali

di Valdichiana tra il luglio e il settembre

 e di Maremma e di Sardigna i mali

fussero in una fossa tutti insembre

Si tratta di un tema oltremodo abusato negli scrittori classici, tanto da farci pensare che Dante – che i classici ben conosceva – ne sia stato largamente influenzato. Ne hanno parlato Marziale e Tacito, Claudiano e Pausania, Pomponio Mela e Strabone, Orazio e Cicerone.

E’ invece di estremo interesse l’immagine che Dante dà della Sardegna quando di essa coglie i connotati di una popolazione in qualche modo unitaria e del tutto particolare. Si pensi a frate Gomita – in sardo Comita, perché scritto con la “G” è una forma toscana – e a Michele Zanche, mai stanchi pur nelle bolgie infernali di parlare della loro Isola:

………………..a dir di Sardigna

le lingue lor non si sentono stanche

Dante non poteva mettere in evidenza con termini più propri e incisivi una caratteristica dei Sardi, certamente colta fra i familiari isolani delle famiglie Visconti e Malaspina: ovvero che i Sardi per loro natura sono poco loquaci, ma, quando alcuni di essi si incontrano fuori dell’Isola, la loro nostalgia è tale che s’intrattengono, anche senza conoscersi, sulle cose della loro terra, argomento inesauribile, per il quale il loro parlare diventa sciolto e le lingue lor non si sentono stanche. (Vedi Letture).

Frate Gomita di Gallura e Michele Zanche, donno del Logudoro, sono i primi personaggi sardi con cui Dante s’imbatte nell’Inferno. Il Frate sarebbe stato un alto funzionario – luogotenente, vicario,cancelliere? – del giudice Nino di Gallura. Ma non abbiamo documenti che identifichino il personaggio e tanto meno che accertino quando e dove esercitasse il suo “ufficio” di barattiere. Probabilmente Dante venne a conoscerlo proprio attraverso il suo amico Nino Visconti, sovrano spodestato del regno di Gallura.

Michele Zanche invece – come ricorda nel suo Dizionario storico sardo il medievista Francesco Cesare Casula – “è un’importante personaggio sassarese della fine del Duecento…non sono note le origini della sua famiglia, certamente magnatizia e forse discendente dai sovrani del regno di Torres, come attesta il titolo di «donno» che troviamo in Dante stesso e in un documento genovese che ci parla di lui (il cognome Zanche ha la stessa origine etimologica di «Tanca» soprannome di Andrea re di Torres nell’XI secolo)”.

Secondo i commentatori danteschi, fu assassinato dal genero Branca Doria con la complicità di un suo parente.

Sempre nell’Inferno il secondo accenno dantesco alla Sardegna è nel canto XXVI, il terzo nel XXIX: ad ambedue abbiamo già fatto riferimento. Il quarto e ultimo accenno nell’Inferno lo abbiamo nel canto XXXIII  (Vedi Letture).

Dopo aver assistito alla scena del Conte Ugolino e dopo aver da lui udito il dramma pietoso e triste a Dante si fa innanzi frate Alberigo da Faenza il quale gli addita ser Branca Doria, nobile genovese e genero di Michele Zanche, che abbiamo già visto tra i barattieri. Branca Doria – secondo Dante –  invitò a cena il suocero e il suo seguito e li fece uccidere.

Gli altri due accenni danteschi alla Sardegna li troviamo nel Purgatorio: il primo nel canto VIII, versi 52-81, in cui il poeta descrive l’incontro con  Ugolino (Nino- Nin gentil, lo chiama) Visconti, di Pisa, Giudice di Gallura e figlio di Giovanni Visconti, capo dei Guelfi di Pisa, la cui figlia Giovanna, rimasta orfana del padre sarebbe stata spogliata dai Ghibellini di tutti i suoi beni, se il papa Bonifacio VIII non fosse intervenuto in difesa di lei, quale figlia di un grande esponente del partito guelfo sostenitore del papato.

La moglie, Beatrice d’Este, rimasta vedova, passò a seconde nozze con Galeazzo Visconti, signore di Milano: Nino, mortificato dalla infedeltà della moglie, sia coniugale sia politica, dà di lei un giudizio molto severo. Afferma inoltre che l’insegna del secondo marito, Galeazzo Visconti di Milano (una vipera) sulla tomba di Beatrice, non avrebbe dato alla sua memoria tanto prestigio e onore quanto l’avrebbe data l’insegna dei Visconti di Gallura (il gallo). Il secondo accenno è nel canto XXIII, versi  94-96: il poeta appena giunto presso un albero carico di squisitissime frutte, bagnati da chiare e fresche acque, s’incontra con il suo amico e parente Forese Donati di Firenze, il quale parla di sua moglie Nella e della licenziosità delle donne fiorentine e della Barbagia di Sardegna. Che abbiamo già avuto modo di commentare.

Letture: 1. Inferno Canto XXII versi 76-90

 76 Quand’elli un poco rappaciati fuoro,

     a lui, ch’ancor mirava sua ferita,

     domandò ‘1 duca mio sanza dimoro:

 

79 “Chi fu colui da cui mala partita

    di’ che facesti per venire a proda?”.

    Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita.

 

82 quel di Gallura. vasel d’ogne froda,

     ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,

     e fé sì lor, che ciascun se ne loda.

 

 

 

 85 Danar si tolse. e lasciolli di piano,.

 sì com’ei dice; e ne li altri offici anche

 barattier fu non picciol, ma sovrano.

 

 88 Usa con esso donno Michel Zanche

      di Logodoro; e a dir di Sardigna

      le lingue lor non si sentono stanche.

 

2. Inferno Canto XXXIII versi 133-147

I33  Ella ruina in sì fatta cisterna;

        e forse pare ancor lo corpo suso

       de l’ombra che di qua dietro mi verna.

 

136 Tu ‘l dei saper, se tu vien pur mo giuso

elli è ser Branca Doria, e son più anni

 poscia passati ch’el fu sì racchiuso”.

 

139 “Io credo”, diss’io lui, “che tu m’inganni;

        ché Branca Doria non morì unquanche,

        e mangia e bee e dorme e veste panni”.

 

142  “Nel fosso su” diss’el, de’ Malabranche,

 là dove bolle la tenace pece,

 non era ancor giunto Michel Zanche,

 

  145  che quelli lasciò il diavolo in sua vece

          nel corpo suo, ed un suo prossimano

          che ‘l tradimento insieme con lui fece.

 

(Tratto da I viaggiatori italiani e stranieri in Sardegna di Francesco Casula, Alfa Editrice, di prossima pubblicazione),