La truffa e l’imbroglio del cosiddetto “Risorgimento italiano”

PREMESSA:

Nonostante la posizione di Cavour, che avrebbe preferito il sistema anglosassone del self-gouvernement e non il modello franco napoleonico, cui si rifaceva sostanzialmente l’ordinamento piemontese, è la scelta di stato unitario e accentrato ad imporsi con il Risorgimento italiano.

Essa è nel contempo, secondo lo storico marxista Ernesto Ragionieri (1), “specchio e indice dei rapporti di classe allora esistenti” e si ricollega – secondo Giorgio Candeloro (2) – alla “ristrettezza del ceto politico risorgimentale identificabile nell’alleanza della borghesia agraria-mercantile-bancaria centrosettentrionale con quella terriera del Sud comprendenti entrambe la maggioranza dei ceti aristocratici, più o meno imborghesiti, delle varie Regioni”. Quell’alleanza che Antonio Gramsci (3) identificava sostanzialmente nel “blocco storico” composto  della borghesia settentrionale e dal latifondo meridionale.

   Tale ristrettezza è evidenziata esemplarmente dai dati elettorali: nel 1861 su un totale dell’1,9% degli aventi diritto al voto, votarono il 50-60% e un deputato veniva eletto con qualche centinaio di voti. Se causa di tale ristrettezza è la mancata rivoluzione agraria – invano auspicata e sostenuta da Filippo Buonarroti e Carlo Pisacane ma di fatto osteggiata e comunque boicottata dai democratici come lo stesso Mazzini e Garibaldi – e non solo, naturalmente, dai moderati – la conseguenza sarà uno sviluppo economico territorialmente e regionalmente squilibrato.

   Infatti, a un modello di sviluppo economico che implica lo squilibrio territoriale, cioè il sottosviluppo di alcune parti del Paese – nella fattispecie la parte meridionale – è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste Autonomie Locali. Infatti se i Governi regionali avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale degli elettori – sopra citata – e fossero stati provvisti di potere di orientare le politiche e le economie locali in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni locali, avrebbero potuto respingere un tipo di sviluppo che imponeva il sacrificio economico sociale dei loro territori.

   Quel modello di sviluppo presupponeva quindi l’assenza di consistenti Autonomie locali. Di qui risulta chiaro il nesso e l’intreccio fra accentramento politico e amministrativo, modello di sviluppo e alleanze politiche di classe.

   Tale scelta centralistica ha avuto ieri ed ha ancora oggi – sia pure molto meno – i suoi sostenitori, di parte conservatrice e liberale ma anche  se non soprattutto – di parte progressista e di sinistra, a tal punto da avere imposto e da continuare ad imporre al senso comune l’idea dello Stato unitario e centralizzato come la forma più alta e moderna di ordinamento statuale.

   Ogni altra soluzione diversa da quella centralistica e unitaria – ha sostenuto lo storico liberale Rosario Romeo (4) – sarebbe andata a vantaggio delle componenti clericali, perciò antiunitarie, filoborboniche e legittimiste. In altre parole concedere l’Autonomia rinunciando all’accentramento avrebbe significato –  è lo storico Alberto Caracciolo (5) a sostenerlo – “trasferire una parte del potere a forze che erano antagoniste rispetto a quelle che avevano guidato l’unificazione politica e l’ordinamento regionale avrebbe rappresentato un pericolo per l’unità nazionale, tanto faticosamente raggiunta”. Forze e ceti che a causa dell’esiguità e della gracilità del tessuto sociale e culturale sarebbero intenzionati – sempre secondo Caracciolo – a “servirsene in senso regressivo”. Secondo un altro storico, sempre di matrice liberale, Carlo Ghisalberti (6) “ l’accentramento amministrativo è di per sé un dato progressivo, in quanto connesso alla linea di sviluppo dello stato moderno”. In altre parole lo Stato accentrato è visto come soluzione adeguata e necessaria per l’arretratezza della società dell’epoca. In altre parole l’organizzazione e l’assetto centralistico dello Stato è coerente con il modello di sviluppo che implica lo squilibrio territoriale in cui al sottosviluppo di alcune regioni è oggettivamente funzionale l’assenza di robuste autonomie locali. Infatti dei governi regionali che avessero tratto legittimazione da una investitura più vasta di quella denunciata dalla percentuale di elettori sopra citata, e fossero stati provvisti del potere di orientare la politica e l’economia locale in senso conforme agli interessi delle rispettive popolazioni, avrebbero potuto respingere e avrebbero respinto un tipo di sviluppo che imponeva e richiedeva il sacrificio economico sociale delle loro Regioni.

    Quel modello di sviluppo presupponeva quindi come condizione necessaria – consapevoli o meno poco importa – l’assenza di consistenti autonomie locali.

    Ma si sostiene l’accentramento anche sul versante politico di sinistra, spesso in modo identico, utilizzando persino lo stesso lessico e  forse addirittura in forme ancora più nette e decise da parte dei grandi maestri e teorici illustri come Engels che sosteneva l’accentramento dello Stato unitario e indivisibile.” Il proletariato – affermava nel 1847 – può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile” e “non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”.

   Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo “perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali”.

    La tradizione engelsiana non influenzerà solo la sinistra ma tutto il senso comune progressista per cui l’idea dello Stato unitario e centralizzato sarà considerata la forma non solo più efficiente ma anche più alta e moderna, evoluta e giusta di ordinamento statuale; di contro, ciò che allo Stato unitario e centralista si oppone – il Federalismo – “appare come arretrato, regressivo, premoderno e residuale” (7).

 

1)      RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

2)      Ernesto Ragionieri, “Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita” Bari 1967

3)      Giorgio Candeloro, “Storia dell’Italia moderna. La costruzione dello stato unitario” vol. V, ed. Feltrinelli, Milano 1968

4)      Antonio Gramsci, “Il Risorgimento”, Ed Einaudi, Torino 1955

5)      Rosario Romeo, “Dal Piemonte sabaudo all’Italia liberale”, Torino 1963

6)      Alberto Caracciolo, “La formazione dello stato moderno” Bologna 1970 e “Stato e società civile: Problemi dell’unificazione italiana” Torino 1960

7)      Carlo Ghisalberghi, “Sulla formazione dello stato moderno in Italia” Milano 1967

7)   Luigi Manconi, Unione Sarda 13.19-1983

 

2. La truffa del Risorgimento

All’inizio degli anni ’70, alcuni intellettuali fra cui Nicola Zitara(1), Anton Carlo e Carlo Capecelatro (2) – che verranno poi chiamati nuovi meridionalisti- furono tacciati brutalmente dall’Unità di essere filoborbonici e reazionari. Avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento; avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e  al  centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

   Come spiegare diversamente –ma è solo un esempio– l’atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto “naturalmente”  come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”. Come fu santificato il Risorgimento, cui il Fascismo si collegava strettamente perché visto “ come il periodo di maturazione del senso dello Stato”, “uno Stato forte, realtà morale, <etica> e non naturale, che <subordina a sé ogni esistenza e interesse individuale>.

  Dopo il fascismo, prima nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni ‘80 fu osannato da Spadolini – e dunque divenne repubblicano – “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”; fu celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”; infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco è proprio questo unanimismo, questa unione sacra – destra, sinistra centro, tutti d’accordo – intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince; è questa intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica  rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia e l’oleografia patriottarda, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

  Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud –  il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

   C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1.      Nicola Zirara, “L’Unità d’Italia- nascita di una colonia”, ed. Jaca-Book, Milano, 1971.

2.      E. M. Capecelatro- A. Carlo, “Contro la Questione Meridionale”, ed. Savelli, Roma 1972.

 

La truffa e l’imbroglio del cosiddetto “Risorgimento italiano”ultima modifica: 2013-09-18T09:47:30+02:00da zicu1
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