Giovedì 22 novembre 2012 ore 17,30
Sala polifunzionale del Parco di Monte Claro, Cagliari
Presentazione del libro di Salvatore Atzori:
MASSARIA-Agricoltura tradizionale a Guasila e in Sardegna
Note di Francesco Casula
1.Una bella e rigorosa ricerca che rappresenta una vera e propria sonda infilata nel passato di Guasila ma non solo: della Trexenta, del campidano, dell’intera Sardegna di cui è paradigma. Una sonda che registra segni etnologici e antropologici; un bastimento carico di preistoria, storia, di archeologia e di lingua, di cultura popolare e di poesia orale, con distici ironici e d’amore, di riti e tradizioni (penso a s’agiudu torrau), di cultura materiale e immateriale; un incunabolo dell’identità etno-nazionale e linguistica dei Sardi.
2.libro prezioso soprattutto per conoscere il paesaggio agrario del paese della Trexenta ma, dicevo, non solo. Paesaggio agrario analizzato nei fattori della produzione, nei mezzi tecnici a forza animale e umana; nelle colture, nelle fasi lavorative, nei rapporti di produzione. Con i vari tipi di contratto e il trattamento economico dei subordinati, con la scala gerarchica servile e le mansioni dei Serbidoris. Con le mansioni femminili.
3.Interessantissima l’appendice documentaria con le figure della strumentazione agricola, dei mezzi e delle tecniche del ciclo produttivo, delle tipologie di case padronali e annessi agricoli, con il registro di note aziendali.
3. Quello che emerge è una vera e propria la storia dei contadini in Sardegna, un romanzo corale, con la straordinaria raccolta di testimonianze di giorronaderis, pastoris, messaius e messaieddus, boinarxus, sotzus e sotzas, con la minuziosa e rigorosa perlustrazione e documentazione sulle colture intensive con sa bingia, s’ortu, sa mendula, s’olia. Non è infatti – come scrive Salvatori Atzori – solo opera personale, ma identità collettiva, matrice di ogni madre.
4. Quello che emerge è un racconto di persone della cui esistenza e delle cui gioie e pene non avremo saputo. Anche a questo serve infatti la storia orale, a dar voce a chi non l’ha avuta e no l’ha e anche a mettere in piedi la storia a partire dal basso, dal comune, dal vero, dall’esperienza diretta delle classi subalterne come si diceva un tempo e non si dice più, si finge che in democrazia (e che democrazia!) si sia realizzata fra le classi una parità inesistente.
5. E tutto questo senza nessun sospetto di idealizzazione e di arcadia e di nostalgia dei bei tempi antichi: anche perché, quasi sempre belli non erano: come ricorda nella esemplare prefazione Giulio Angioni. Con l’arretratezza, l’analfabetismo, la miseria ecc. . E’ infatti – per utilizzare l’espressione di Atzori – una ricerca che non ha alcuna parentela con le rappresentazioni decontestualizzate e defunzionalizzate, alla moda, che vanno abusivamente sotto l’etichetta del folclore.
6. Rappresentazioni nostalgiche, bucoliche e folcloristiche che sono prevalenti e che servono per farci dimenticare che il coltivatore e l’allevatore è stato quasi sempre un asservito, cosa che spiega anche la furia con cui nei tempi più recenti si è distrutto ogni cosa di ciò che si è anche detta civiltà contadina. Di cui dobbiamo discutere quanto e che cosa si può recuperare del nostro passato contadino: magari alcuni saperi, la manualità, l’agricoltura biologica, nicchia di mercato sempre più rilevante anche se ancora con prezzi alti e a circolazione molto ristretta.
7. Anche per questo è utile il libro di Salvatore Atzori. Oltre che – come lui scrive nella premessa – a conoscere il passato, a comprendere il presente e, spero a tramandare al futuro un tratto essenziale della nostra identità. Conoscere dunque il passato e le nostre tradizioni. Perché non basta averle. Ce lo ricorda Cesare Pavese nella prefazione a Moby Dich, romanzo dello scrittore e poeta statunitense Herman Melville, da lui tradotto in Italiano quando scrive scrive:Avere una tradizione è men che nulla, è soltanto cercandola che si può viverla”
E con un aforisma affilato e fulminante, il compositore austriaco Gustav Mahler in qualche modo integra Pavese stesso, scrivendo che La tradizione deve essere considerata come rigenerazione del fuoco e non come venerazione delle ceneri”.
Non quindi come isolato e fermo recupero e cernita di semplici memorie, come fossero un magazzino di dati, fatti, frasi e immagini. Dobbiamo invece pensare alle tradizioni come a un meccanismo che genera atti contemporanei, inclusi pensieri e azioni, certo basati anche sulle esperienze del passato, ma nei termini accrescitivi di un confronto nel tempo perché è in quel confronto, in quello scambio intersoggettivo che trova la ragione la capacità di conservare ma anche di progettare e di accogliere e di proporre di ricevere e di dare.
Non si tratta – ha scritto Angioni ed io sono d’accordo – quindi di un generico ritorno ai campi, e tanto meno al “servo sudore” dei campi del passato, ma di un restare nei campi del mondo per avere prodotti convenienti in grande quantità, soggetti agli standard legali di qualità e di sicurezza e anche sempre più adatti alle tecnologie della trasformazione industriale.
8. Ma io aggiungerei un altro punto: questo saggio può essere l’occasione e il pretesto per una discussione sul ruolo dell’agricoltura e della pastorizia in Sardegna. Specie dopo le illusioni industrialiste. E a fronte del nuovo mito del turismo: ovvero a fronte di una nuova illusione monoculturale. Partendo almeno da tre dati incontrovertibili:
a. I grandi paesi ricchi dagli Usa ad alcuni stati europei, hanno anche una agricoltura ricca;
b. In Italia come in Sardegna la questione agraria o contadina che dir si voglia non è stata ancora irrisolta;
c. Nella storia italiana – e sarda – le campagne sono s tate completamente subordinate alla città; il comparto agropastorale ha perso, è stato sconfitto e quello urbano/industriale ha vinto: sia economicamente (150 litri di vino di un agricoltore/vignaio valgono oggi una maglietta “firmata”!) che socialmente e persino culturalmente: pastore/contadino = arretratezza; operaio/impiegato=modernità!
O abbiamo dimenticato l’industrializzazione di Ottana – per altro fallita miseramente – con cui si voleva trasformare il pastore barbaricino con la mastruca, bandito, violento e arretrato in operaio con la tuta, come a Sesto San Giovanni? Ciò è stato persino teorizzato. Da Carlo Cattaneo – ma è solo un esempio – secondo cui alla città si doveva persino l’agricoltura come atto di incivilimento e come idea di proprietà !(in La città considerata come principio ideale delle Istorie italiane).
9. Il merito di Sa Massaria non è solo scientifico ma anche linguistico e persino etico nel riportare alla nostra attenzione queste storie, nel ridare vita a vicende, pensieri e saperi, opere e fatiche e passioni con il rispetto per migliaia di vite il cui passaggio sulla terra tutti dimentichiamo.
10. Dicevo dunque valore linguistico: della lingua sarda intendo. Che attraversa l’intero libro con is dicius, distici ironici e d’amore ma soprattutto con i nomi in sardo di quanto attiene all’intera agricoltura: dai fattori della produzione agli attrezzi di lavoro; dai rapporti di produzione ai contratti; dai tempi di lavoro, di semina e di raccolto alle colture. E non potevano che essere in lingua sarda. Perché i lemmi che compongono una lingua, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data proprio dal battesimo dell’oggetto.
11.Una lingua sarda che Atzori scrive con una grafia secondo uno standard campidanese. In una Nota di indirizzo ortografico l’Autore spiega e giustifica la sua scelta. La dinamica orale – scrive – per una legge di economia locutoria, soprattutto nella articolazione e combinazione dei suoni, modifica transitoriamente la forma della parola. Il fenomeno non si presenta uniforme in tutta l’area campi danese, all’interno della quale si manifestano tratti o caratteristiche fonetiche peculiari. Che fare di fronte a ciò? L’autore ricorre a uno standard grafico campidanese, che io condivido totalmente: del resto gli scrittori (penso a Franco Carlini) come i poeti in sardo-campidanese, più avveduti, sempre più ricorrono alla grafia standard utilizzata da Atzori. Del resto: perché la grafia della lingua sarda non può essere come quella di tante lingue normali (inglese, francese, tedesco, olandese ecc.) in cui la corrispondenza fra grafemi e fonemi non è univoca? O perché dimenticare che neanche in Italiano esiste una corrispondenza perfetta fra grafemi e fonemi?
Senza che ciò significhi un qualche attentato alla libertà di esprimersi secondo le proprie varietà e parlate dei singoli paesi: lo standard infatti attiene allo scritto non all’orale. E dunque parla come vuoi ma scrivi come devi.