Presentazione dell’ultimo libro di Franco Carlini

Domenica 6 Marzo alle ore 17 a Uta (nel Centro sociale, Via Argiolas Mannas) verrà presentato l’ultima opera di Franco Carlini: “Il Teatro di Raimondo Fresia” (Ed. Edes, Sassari, 2010).

La presenteranno Francesco Casula e l’antropologo Giulio Angioni.

 

Ecco l’intervento di

Francesco Casula

 

Sulla produzione letteraria in lingua sarda permangono una serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Lo stesso Gramsci, -nella famosissima Lettera alla sorella Teresina- ne è vittima. Dopo aver detto una sacrosanta verità “ il sardo non è un dialetto, ma una lingua”, afferma che esso non ha prodotto “ una grande letteratura”.

In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche in cui viveva e operava. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dai critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali –abbondantissimi- quando ne siano recuperate le testimonianze.

Da questo punto di vista ci offre un prezioso contributo Franco Carlini con l’opera “Raimondo Fresia” Il Teatro, Biografia e analisi delle opere”.

Ma prima di entrare in medias res, voglio fare ancora qualche premessa: è stato ’ stato anche obiettato che la lingua sarda, ha prodotto non solo poco ma soprattutto “cultura bassa”. Rispetto a questa accusa occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura “alta” e cultura “bassa”, di cultura “materiale” (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura “immateriale” (lingua, letteratura, arte, musica, diritto ecc. ecc) o di cultura orale inferiore alla cultura “scritta” e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

Anche il termine “letteratura”, secondo il dettato dei più moderni e aggiornati orientamenti di studi, va inteso nel senso di scrittura o produzione di opere di cultura che occupano spazi non tradizionali quali gli atti giuridici, le costituzioni politiche, la poesia e la tradizione orale e finanche le opere di carattere didascalico o divulgativo per le quali veniva usata la lingua sarda al fine comunicare meglio con il popolo.

Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

Dentro queste coordinate, a mio parere deve essere letta e vista l’opera teatrale di Raimondo Fresia di Franco Carlini.

Dopo aver ricostruito minuziosamente la biografia di Don Fresia, situata dentro il clima politico dei due dopoguerra, analizza il suo amore per i teatro e le sue opere in lingua sarda: cogliendone l’importanza e nel contempo i limiti. Oltre a questo Franco Carlini inserisce nel libro veri e propri micro saggi –forse la parte più interesssante

dell’intera opera- sul teatro sardo in lingua sardo-capidanese, dal cagliaritano Francesco Carmona e dal Il teatro comico improprio, legato alle manifestazioni carnascialesche, al teatro di Efisio Vincenzo Melis, ma soprattutto dell’oristanese Antonio Garau, di cui analizza con rigore e, persino con pignoleria, “I meccanismi del riso”, “Le maschere e i personaggi” ma soprattutto “I codici linguistici”, il ruolo dell’Italiano nei testi in sardo e i conflitti fra i due codici: sardo appunto e italiano.

Il rigore e la pignoleria è uno dei tratti della scrittura di Carlini, vittima –scriveva in S’Omini chi bendiat su tempus– “de sa bibirrina de sa perfezioni”, che non pubblica i suoi lavori e le sue opere finchè non sono “cumpridas in donnia parti”.

Quello di Fresia –scrive Carlini- è un teatro minore, rispetto per esempio a quello di Antonio Garau ma “ha quanto meno l’importanza del documento su una cultura in senso antropologico ormai al tramonto e su una cultura letteraria rappresentata oltre che da lui da altri autori sufficientemente colti per riuscire a caratterizzare un periodo storico della vita di buona parte dei paesi del dominio linguistico campi danese. Un documento che definisce anche un gusto popolare, per il quale in definitiva Fresi ha sempre scritto.

Ma c’è di più: Carlini, dopo aver giudicato i testi di Fresia deboli, esili, ricorda opportunamente che però per una valutazione più complessiva del suo teatro occorrerebbe tener presente, oltre i testi scritti anche la recitazione degli stessi e questa “era resa ancora più coinvolgente da attori i quali, benché dilettanti, erano particolarmente bravi nell’indossare i panni del contadino o dell’artigiano che spesso erano i loro panni. La capacità di calarsi nel personaggio rendeva più credibile la loro recitazione e riusciva in qualche modo a salvare testi alquanto deboli”.

A significare che la recitazione e rappresentazione del testo teatrale, rispetto a quello semplicemente scritto, è più intrisa di socialità, ha un <di più di significato> che le viene dalla confluenza di altri codici e sottocodici, oltre quello verbale e cioè la gestualità e il movimento del corpo, l’intonazione, il ritmo, le pause eccetera.

Sui limiti del teatro Fresiano Carlini è molto preciso e forse, anche severo: “Il suo teatro, molto raramente spinge a quella riflessione che la sua poetica richiama con l’antico moto del castigat ridendo mores”. Il riso infatti non è uno strumento per combattere il malcostume ma è fine a se stesso.

A questo proposito penso a Diego Mele, il poeta satirico di Olzai (anche lui prete) la cui comicità invece e le cui “beffas” pur non rimandando necessariamente a Orazio, ugualmente “castigat ridendo mores”, ma quel castigat occorre ricondurlo al valore etimologico di “guardare” (il castiai campidanese ) e, in senso traslato, di “correggere” e “custodire”. Così come fanno i pastori con il gregge, annota acutamente Wagner.

Tutta quest’ottica è fuori dall’orizzonte fresiano: solo nell’opera Sa coa de su burricu, precisa Carlini, è in qualche modo presente con la critica delle superstizioni.

Sempre sui limiti Carlini aggiunge: “Fresia non conquistò mai la nozione moderna di umorismo teorizzato da Pirandello,, e il suo teatro rimane ancorato alla comicità, la sola cosa, del resto, che, a di là delle intenzioni, sembra interessargli veramente. La comicità che si risolve in riso, non l’umorismo che muove all’empatia attraverso la riflessione suscitata dall’evento teatrale”; in altre parole, manca in Fresia la nozione di comicità come “sentimento del contrario”. Non c’è nella comicità fresiana nessun rapporto empatetico ma lo scherno della risata, fragorosa o contenuta, poco importa.

 

Carlini si riferisce in questo passo al saggio “L’umorismo” di Pirandello in cui il commediografo siciliano distingue il comico dall’umorismo. Il primo, definito come “avvertimento del contrario”, nasce dal contrasto tra l’apparenza e la realtà. Nel saggio citato Pirandello ce ne fornisce un esempio:

« Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. “Avverto” che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto un “avvertimento del contrario” »

L’umorismo, invece, nasce da una considerazione meno superficiale della situazione:

 

« Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente, s’inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico »

Quindi, mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la situazione evidentemente contraria a quella che dovrebbe normalmente essere, l’umorismo nasce da una più ponderata riflessione che genera una sorta di compassione da cui si origina un sorriso di comprensione. Nell’umorismo c’è il senso di un comune sentimento della fragilità umana da cui nasce un compatimento per le debolezze altrui che sono anche le proprie. L’umorismo è meno spietato del comico che giudica in maniera immediata.

« non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci faceva ridere adesso ci farà tutt’al più sorridere. »

 

“Il teatro di Fresia – come per altri versi quello di Garau –, nasce dall’attenta osservazione, tutta esterna, però, della piccola comunità dove egli svolgeva la sua attività di parroco, scrive ancora Carlini.

A tale proposito penso a sa Scomuniga de predi Antiogu il cui autore invece, -non da osservatore esterno- ma da eccezionale conoscitore della cultura popolare e dunque di ciò che vive e si muove nelle sue viscere, ovvero la vita della comunità della Marmilla vista nel suo sottosuolo antropologico, riesce a portare la poesia popolare e satirica nell’ambito della dignità artistica, certo grazie a una lingua che scorre fluida e lieve nell’alveo della poesia come creazione comunitaria, senza forzature popolareggianti di matrice colta ma anche perché la sua satira non è una <presa in giro>-o solo una presa in giro- ma è un modo di partecipare senza complessi a una vita di relazione intensa che assimila valori e disvalori fuori da ogni paternalismo, nella visione di una civiltà capace di assumere, per intuizione poetica, un senso universale: esattamente quello che manca nel teatro fresiano.

Al teatro di Raimondo Fresia non si può chiedere più di quanto l’autore non abbia avuto, per così dire, intenzione di dare: scrive ancora Carlini. E Fresia al suo pubblico vuole offrire innanzi tutto un mezzo di distrazione, facendolo ridere, e lo fa nel modo più semplice per gente sicuramente ingenua. Solo qualche volta si pone problemi che valicano il confine del divertimento e usa il teatro in funzione di una pedagogia catechistica, ma non solo, che ci ricorda che egli era un prete e che anche il teatro poteva essere di sussidio al suo magistero pastorale.

Gli arnesi di cui Fresia si serve per far ridere sono soprattutto i Qui pro quo linguistici e con essi tutti i fraintendimenti a catena e gli equivoci linguistici e situazionali che nascono, nel teatro comico sardo, fra il mondo contadino e e quello cittadino, destinati a non incontrarsi mai. Ma la barriera tra i due mondi, -precisa Carlini- non è solo di tipo linguistico. L’incomunicabilità abbraccia un universo di segni molto più vasto che tocca la sfera della psicologia, della cultura, dell’antropologia, dell’etica, della gnoseologia, due mondi che non s’incontrano, anche per la resistenza del sardo ad accettare l’alterità, sinonimo spesso di inganno e sopraffazione.

Ma la comicità nasce anche -sottolinea Carlini- dalla sorpresa, e più spesso dalla paura del mondo contadino di fronte alle novità della vita moderna che piovevano dall’esterno. Di fronte agli apparecchi “moderni”, is istrepus, (sos trastis) che vede per la prima volta. Non avendo altri termini di raffronto se non quelli del suo mondo, a questi si richiama, equivocando, sicché lo spruzzatore del barbiere è scambiato per un clistere, -scrive Carlini- il grammofono per una macchina per fare salsiccia, il telefono per una saliera, (Su sozzu ’e su Marchesu). In questa farsa la risata è promossa in modo sincronico attraverso l’equivoco linguistico e quello sugli oggetti che provocano stupore nello sprovveduto paesano, tanto che Fresia mette in bocca al servetto Sidoreddu la significativa esclamazione: “Indi tenint cosas bellas custus sennoris!”

E suscita il riso, o il sorriso, nello spettatore lo stupore dei paesani davanti alla peretta della cipria (In domu ’e su braberi), il termometro (Su flebotumu), il campanello elettrico, il binocolo, la penna stilografica col pennino retrattile (Su sozzu ’e su Marchesu), tutti oggetti di un mondo sconosciuto visti per la prima volta.

Carlini fa ancora l’esempio dell’irrorazione del D.D.T. nelle case di un paese, dove la popolazione, non riuscendo neppure a farsi decifrare il significato della sigla dal solito intellettuale del luogo, il maestro di scuola, ha un motivo in più per essere diffidente e temere le conseguenze di qualcosa di cui sfugge il significato.

Gli equivoci linguistici –sottolinea Carlini- sono i meccanismi utilizzati da Fresia per mettere in moto e far procedere la macchina del suo teatro seguendo, in questo, una tradizione che percorre pressoché tutta la letteratura teatrale in lingua sarda dalla metà dell’Ottocento ad almeno gli anni Settanta del secolo scorso, con propaggini che giungono fino ai nostri giorni, e che rimanda per questo aspetto, ma solo per questo aspetto, a due grandi autori come Efisio Vincenzo Melis e Antonio Garau.

Concludo ricordando a proposito di equivoci linguistici, che essi sono entrati come protagonisti non solo del teatro comico ma della stessa storia giudiziaria soprattutto nel Nuorese: con condanne, spesso tragiche, proprio per equivoci linguistici fra imputati e giudici, di cui hanno abbondantemente riferito i grandi avvocati nuoresi come Pietro Mastino, Luigi Oggiano e Gonario Pinna.

Presentazione dell’ultimo libro di Franco Carliniultima modifica: 2011-03-02T19:22:00+01:00da zicu1
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