SEBASTIANO SATTA

SEBASTIANO SATTA – Università della Terza Età di Quartu

a cura di Francesco Casula

Il “vate” nuorese, cantore della sardità mitica e drammatica (1867-1914)

Nasce a Nuoro il 21 maggio 1867. II padre, nuorese, Antonio Satta, è un  avvocato assai no­to; la madre, Raimonda Gungui è di Mamoiada, villaggio vicino a Nuoro, in piena Barbagia. Il Satta, rimasto orfano di padre all’età di cinque anni, ben presto conosce il disagio e le umiliazioni della povertà.

Compie gli studi elementari e ginnasiali a Nuoro, quelli liceali e universitari a Sassari, do­ve consegue la laurea in giurisprudenza nel 1894 ed esercita la professione di giornalista. Nella Sassari di allora, che gli ricordava la Bologna carducciana che aveva conosciuto durante il servizio militare, con fermenti repubblicani e progressisti, aderisce agli ideali socialisti.

Nel 1893 pubblica due raccolte di poesie Nella terra dei Nuraghes e Versi ribelli, di modesto valore artistico ma utili per capire l’itinerario spirituale del poeta. Fortemente influenzato da Carducci, tra le incertezze tecniche e i convenzionalismi formali si inizia però a intravedere il Satta più autentico. Nella prima silloge, di otto liriche, due sono in lingua sarda; nella seconda ugualmente di otto liriche, è presente un Satta protestatorio nei confronti del servizio militare, ma più perché è stato allontanato dalla sua Sardegna che per motivi ideologici.

Torna intanto a Nuoro dove è consigliere comunale nel triennio 1900-1903 e dal 1896 al 1908 esercita la professione di avvocato. In tale professione – come riferisce lo storico Raimondo Bonu, probabilmente con eccessiva enfasi- “ebbe fama di valente penalista e di oratore brillante, facondo, irruente, temuto per le sue arringhe, perché sapeva cogliere dalle circostanze più disparate la nota umana, adatta a trasformare il delinquente affidato alla sua difesa in un eroe, in un rivendicatore di diritti, in un maestro di giustizia sociale”.

Nel 1896, in occasione del centenario della rivoluzione angioyana scrive l’ode Primo Maggio, dedicata al protagonista di quella rivoluzione antifeudale, Giovanni Maria Angioy, appunto. E’ pubblicata nel quotidiano di Sassari, “La Nuova Sardegna” , ma il numero fu sequestrato: segno di tempi di censura e di repressione. L’ode carica di retorica e ascendenze carducciane, è impregnata di una intensa <sardità> che caratterizzerà anche la sua poesia più matura. Che arriverà con i Canti barbaricini pubblicati nel 1909. In essi sono ancora indubbiamente presenti gli echi della poesia carducciana, pascoliana, del D’Annunzio di Alcione e persino di Victor Hugo, di Heinrich Heine e di Walt Whitman, ma la sua poesia inizia ad avere una sua precisa e personale fisionomia, dal punto di vista espressivo, metrico e dei contenuti.

Colpito da paralisi 1’8 Marzo 1908, passa gli ultimi anni della sua vita senza poter neppure parlare. Scrive le sue ultime poesie fra il 1909-1914. Esse saranno raccolte –senza ulteriore rielaborazione e revisione- nei Canti del Salto e della Tanca e verranno pubblicate postume nel 1924.

Condannato all’infermità, la sua vita interiore si fa più raccolta e più intensa e la sua poesia è caratterizzata da una <sardità> ancor più esclusiva, persino nei particolari stilistici e lessicali. Della gente sarda non descrive solo gli stati d’animo e i modi di vivere ma anche il modo di parlare e di costruire il periodo.

Muore improvvisamente il 29 novembre 1914 a Nuoro dove viene sepolto senza funerali religiosi perché aveva espresso la volontà di non gradire né preti, né preghiere alla sua morte. Le cronache narrano che folle di contadini, pastori e persino banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda. Satta infatti fu molto popolare e amato dalla sua gente che vedeva in lui un vero e proprio “vate” e cantore di una mitica e drammatica identità sarda.

 

 

Presentazione del testo [tratto da Canti barbaricini ora in Canti, Sebastiano Satta, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.66]

 

Il sonetto è tratto da Canti Barbaricini, una delle raccolte del Satta più valide, l’altra è Canti del salto e della Tanca. Essa –è il poeta stesso a scriverlo- “canta o, meglio narra il dolore della gente e della terra che si distende da Montespada a Montalbo, dalle rupi di Corrasi fino al mare; e canta dolor di madri, odio di uomini, pianto di fanciulli…Barbaricini ho voluto chiamare questi canti perché sono accordi nati in Barbagia di Sardigna; ed anche quando essi non celebrano spiriti e forme di quella terra rude e antica, barbaricini sono nell’anima e barbaricine hanno le fogge e i modi”.

Certo, nel lessico, nel linguaggio, nello stile e persino nella struttura del testo poetico e a livello fonico-timbrico, ci sono abbondanti influenze della coeva poesia italiana, ma non è un semplice epigono di Carducci, Pascoli e D’Annunzio, come parte della critica ha voluto sostenere. Egli infatti è soprattutto un poeta capace di farsi interprete dell’immaginario collettivo della Nuoro del suo tempo, nella quale si identificavano molti sardi, soprattutto “barbaricini”. In lui infatti le mimesi esterne si interiorizzano, si fanno simbolo, linguaggio, gestualità verbale di una caratteristica cultura, quella sarda. E ai fatti e ai problemi dell’Isola partecipa, vivamente e dolorosamente: per cui si può dire che il mondo sardo, come natura e come eventi, non solo si riflette nella sua poesia, ma passa contemporaneamente attraverso la sua anima, da cui prende colore e calore.

 

VESPRO DI NATALE

 

Incappucciati1, foschi2, a passo lento,

tre banditi ascendevano3la strada

deserta e grigia, tra la selva rada4

dei sughereti5, sotto il ciel d’argento.

 

Non rumore di mandre6 o voci7,

il vento agitava8 per l’algida9 contrada.

Vasto10 silenzio. In fondo, monte Spada11

ridea12 bianco nel vespro sonnolento13.

 

O vespro di Natale14! Dentro il core

ai banditi piangea la nostalgia

di te, pur senza udirne le campane:

 

e mesti eran, pensando al buon odore

del porchetto e del vino15, e all’allegria

del ceppo16, nelle lor case lontane17.

 


Note

Metrica: sonetto. Rime ABBA, CDE

1.Incappucciati: con il copricapo nero di orbace in testa..

2.Foschi: oscuri appunto perché indossavano un cappotto di orbace nero che li nascondeva agli occhi delle persone e li proteggeva dal freddo. Le orbace infatti sono un tessuto di lana di pecora, molto resistente e impermeabile.

3.Ascendevano: salivano

4.Rada: non folta di sughere.

5.Sughereti: sono boschi di sughere (o soveri)  molto estesi in Gallura –nord est della Sardegna- e nel Mandrolisai –centro sud-, mentre sono assai limitati e poco folti nella Barbagia di Ollolai dove è ambientata la poesia.

6.Rumore di mandre: le pecore portano al collo i campanacci –in sardo sas sonazas- che producono un caratteristico tintinnio e servono per essere localizzate dai pastori..

7.Voci: i pastori sono soliti richiamare le greggi con voci e più spesso con fischi particolari che le bestie intendono come per istinto. Inoltre i pastori si chiamano fra loro, in spazi vasti, per comunicarsi notizie e scambiarsi quattro chiacchiere. Di qui l’abitudine degli stessi a parlare sempre a voce molto alta, quasi urlata.

8.Agitava:portava.

9.Algida: gelida, fredda.

10.Vasto: profondo.

11.Monte Spada: una delle vette più belle e più alte del Gennargentu (m.1595) nel territorio di Fonni, mentre Punta Corrasi –cui Satta accenna nell’introduzione ai Canti Barbaricini- in agro di Oliena è alta m.1463.

12.Ridea: spiccava perché coperto di neve.

13.Vespro sonnolento: la sera che porta il sonno e dunque il riposo.

14.Vespro di Natale: la notte di Natale.

15.Porchetto e vino: ancora oggi ma soprattutto nel passato era consuetudine delle famiglie sarde di ambiente pastorale e barbaricine in specie, consumare a Natale, dopo la messa di mezzanotte abbondanti arrosti (di salsicce, porchetti, agnelli o capretti) innaffiati da un buon vino.

16.Ceppo: i tronchi necessari per alimentare il fuoco.

17.Case lontane: in Sardegna gli insediamenti umani sono concentrati nei villaggi, distanti gli uni dagli altri. Il territorio è spopolato per cui le campagne sono solitarie: in queste, soprattutto in quelle caratterizzate da montagne e luoghi impervii, si rifugiavano –e si rifugiano ancora- i banditi.

 

 

Giudizi critici

Goffredo Bellonci scrive che Satta “aveva il senso della terra, il più grande dono che Federico Nietzesche facesse al suo Zaratustra, la più grande virtù che abbia cantato nel libro della giungla immortale Rudyard Kipling…Ogni strofa, ogni verso, ogni parola sigillava del suo stile sardo, inimitabile nel ritmo, nelle immagini, nei trapassi”.

Mentre per Giovanni Pirodda: “Il Satta fu popolare e amato, fra i lettori sardi contemporanei, per il suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale, e per l’interpretazione, nei toni di un fremente individualismo romantico, dei miti di un immaginario collettivo: la natura, la donna (sposa e madre-matriarca), il tópos del ricorrente ribellismo e dell’attesa di una palingenesi: sono i temi di una mitica e drammatica identità sarda, espressi attraverso la mediazione autorevole delle forme letterarie e metriche della poesia italiana fra ‘800 e ‘900. Ma al di là del mito l’esperienza sattiana raggiunge una capacità poetica spesso misconosciuta, che merita di essere annoverata almeno tra le voci minori di quel periodo”.

 

 

ANALIZZARE

In questo sonetto, concentrandola in pochi versi, il poeta riesce a cogliere intensamente e a rappresentare una nota paesistica, interiorizzandola però, ovvero traducendola in tema lirico, scevro da ogni indugio illustrativo, ma soprattutto da preoccupazioni edificanti, civili e pedagogiche, ispirate a un socialismo umanitario, che pure abbondano in altre liriche.

 La rappresentazione, sospesa fra la realtà e la fantasia, dei banditi incappucciati e tristi che passano per vie desolate, foschi su sfondi di neve e che incedono con tanta cupa andatura che solo questo cadenzato endecasillabo sa mimare, ricorda la misura espressiva dei piccoli quadretti del Pascoli delle Mirycae.

La forma conclusa del sonetto inoltre, dove per di più l’endecasillabo si smorza nei frequenti enjambements, rende il silenzio carico di tristezza, di dolcezza e di vitalità insieme, di una inestinguibile nostalgia dell’intimità familiare, di un rifugio sereno e festoso, che invade l’animo dei banditi, fragili creature umane anch’essi. In altre liriche mitizzati come belli, feroci e prodi.

Il linguaggio è alto, illustre, gli aggettivi ricercati, aulici (foschi, rada, algida) tanto da rischiare di risultare stereotipati e poco creativi.

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

-Il socialismo umanitario di Sebastiano Satta

Il socialismo di Satta era più del cuore che della mente, fatto di umanità, giustizia e libertà. Più vicino al ribellismo anarchico e al socialismo utopistico di Charles Peguy o di Garibaldi che a quello “scientifico” di Carlo Marx. A Garibaldi dedicherà infatti un’Ode e spesso soleva recarsi in pellegrinaggio alla tomba del Condottiero dei Mille a Caprera. In Sardegna del resto il Socialismo, prima che arrivasse il torinese Giuseppe Cavallera al organizzare i battellieri di Carloforte e i minatori del Sulcis era più un fatto letterario che una prassi politica: i poeti –quasi sempre in lingua sarda- poetavano su temi legati al comunitarismo delle terre dei villaggi sardi e sognavano un ritorno al passato –a su connotu (al conosciuto) comunitario antecedente alla <Legge delle Chiudende> che privatizzò le terre stesse.

Ma ecco cosa scrive a proposito del Satta socialista Vincenzo Soro: “Temperamento politico vero e proprio Sebastiano Satta non ebbe. Egli era un passionale. Un incitatore. E si batteva così, per amore di battaglia, per un istinto bisogno di lotta che era nel suo puro sangue barbaricino: ma senza legarsi mai ad alcuno: senza cessare mai di «far parte per sé stesso», in una solitudine che era insieme timida e sdegnosa. Troppo buon poeta era, per po­ter essere diverso.

L’apostolato di bontà e di giustizia che informava la sua battaglia diuturna, gli dava, è vero, un aspetto di so­cialista romantico ed evangelico, molto simile a quello che si ritrova nel Pascoli di «Odi ed Inni» e di taluna delle «Myricae»: aspetto che in quegli anni era molto comu­ne nella nostra letteratura, e che traspare  -un pò con le trasandate ironie di Béranger e un pò con 1’umanita­rismo di Richepin – nelle poesie sporadiche del Satta giovine e anche in alcuni, non certo tra i migliori, dei «Canti barbaricini». Ma questo suo socialismo, in realtà, non era altra cosa che uno «stato d’animo». Non era la professione di una dottrina sociologica e politica, inquadrata nelle formule di un sistema scientifico e sotto­posta al controllo disciplinare di un partito. Era la soli­darietà di un’anima che aveva sofferto e soffriva, verso tut­ti i sofferenti e tutti i dolori del mondo. Era una aspirazio­ne di bontà e di giustizia, di amore e di pace, per tutti gli uomini e per tutte le genti: il sogno dell’Ortodossia rus­sa, il vasto sogno di affratellamento universale che arde nel pensiero di Wladimiro Soloviof e nell’arte di Dostoje­wsckij e di Tolstoi, incastonato -come un rubino di O­riente in un monile di antica oreficeria sarda- nella sca­bra purità di un’anima barbaricina.

Era il socialismo di Charles Péguy : un socialismo, avversario ignoto e cortese, alquanto diverso da quello a cui ti riferivi quando mi richiamavi a non ignorare il  socialista » nel Poeta di Barbagia”.

 

-Ideologia democratica e linguaggio aulico del Satta

“I toni alti del linguaggio e dello stile, il registro prevalentemente aulico hanno fatto pensare a una piatta imitazione della poesia carducciana e, generalmente, del classicismo ottocentesco, secondo influssi non rielaborati originalmente.

In realtà l’operazione poetica compiuta dal Satta, se analizzata nelle sue componenti e nelle sue modalità di elaborazione (anche alla luce dei documenti di recente studiati, sui suoi interessi linguistici) si rivela ricca di implicazioni e tutt’altro che priva di originalità.

Per capire i caratteri della poesia sattiana si può prendere l’avvio da un dato ad essa esterno, ma che pure la condiziona fortemente: l’orientamento ideologico democratico e socialista di Satta, con le forti ripercussioni che esso ha non solo sulle tematiche, ma anche sullo stile e su linguaggio, come del resto avviene in un consistente filone della poesia italiana fra Ottocento e primo Novecento.

Già Francesco De Sanctis nelle sue Lezioni su Mazzini e la scuola democratica aveva rilevato come nella letteratura di orientamento democratico fosse prevalente la disposizione al linguaggio elevato, oratorio, sia per la continuità di quelle tendenze con la tradizione classicistico-giacobina sia per la forte presenza in essa di intenti di persuasione.

Il tono alto, il linguaggio aulico, la disposizione oratoria, il rapportarsi a un complesso di immagini proprie di una tradizione letteraria nobilitata da riferimenti storici e culturali prestigiosi (in particolare il mondo classico) sono caratteri che troviamo nella letteratura democratica per tutto l’Ottocento, ma anche in molta poesia novecentesca.

 

L’ALTERNOS


Sui campi di Tiesi, in un’alba del Giugno 1796

 

All’alba – il carro d’oro per la via

Lattea scendeva, e un’aquila garria –

Fu visto – o fato! – Don Giovan Maria,

Il ribelle Alternos, qui cavalcare.

 

L’alto suo sogno, grave di avvenire,

L’impeto fatto di speranze e d’ire,

La forza di chi sorse a maledire

Egli vide dal sommo ruinare.

 

Errava triste e solo. Per il piano

Fuggiangli l’occhio e l’anima lontano:

Ché ancor vedeva quel suo sogno, invano,

Sui boschi, dietro i monti, balenare.

 

I monti della patria! Come veli

Di ninfe si svolgevano nei cieli

Le nubi antelucane: gli asfodeli

Svettavano al chiaror crepuscolare.

 

Or nella gloria di sue rosse aurore,

Cinto di lampi si levava il cuore,

Anelando. Or non più, dentro il fragore

Dell’armi, l’inno, soffio aquilonare!

 

Non dal pulpito più prete Muroni

-Legato ha il suo ronzino agli arpioni,

E polveroso è ancora, e con gli sproni –

Rugge sui vili, ché non sa pregare.

 

Non più nel solco del mattino d’oro

Le urgenti turbe! O verde Logudoro,

Di che fiamme avvolgesti il nobil coro,

In ogni ovile e in ogni casolare!

 

Non più veglie animose fra le gole

Dei salti, e vaste fronti aperte al sole,

Non nei consigli più sensi e parole

Ardenti come fiamma sull’altare.

 

Ma non questo ribelle alla tempesta,

Se pur stride nel cielo la funesta

Ora dei vinti, la pensosa testa

Sconsacrata saprà, vinto, piegare.

 

Solo a te, Sarda Terra, come a madre

Egli piega! Le sue vindici squadre

Egli seppe per te scioglier dalle adre

Glebe, e agitarle come nembo su mare.

 

Tutto fu vano! Oh voci dell’avita

Casa deserta! Oh fiori della vita

Deserta, o figlie! Oh compagnia romita

Dei padri sardi intorno al focolare!

 

Or l’anima solinga sotto i grigi

Cieli vede l’esilio di Parigi;

Prone le turbe vede, e sui fastigi

Dei monti scender l’ombra secolare.

SEBASTIANO SATTAultima modifica: 2016-11-26T13:42:32+01:00da zicu1
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