COMUNE DI QUARTU SANT’ELENA
SISTEMA BIBLIOTECARIO URBANO
BIBLIOTECA CIRCOSCRIZIONALE DI FLUMINI
via Mar Ligure, 3 – TEL. 070.8989014
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L’Associazione ITA MI CONTAS in collaborazione con la Biblioteca di Flumini organizza per il prossimo autunno una serie di Incontri per la conoscenza e la diffusione della lingua e della storia sarda.
Il 27 settembre alle ore 17.30
Conferenza del Professor Francesco Casula
sulla LINGUA SARDA:
Ø Origini e influenze. La letteratura in Sardo.
Ø Pregiudizi sul Sardo: è un dialetto non una lingua, è diviso, arcaico e inadatto a esprimere la modernità, inutile, povero, non lo parla nessuno, ha prodotto poca letteratura..
Ø Sa limba sarda comuna: consensi e dissensi.
Ø L’insegnamento del Sardo a scuola come materia curriculare.
Ø L’uso ufficiale del Sardo nelle Istituzioni, negli uffici, nei luoghi di lavoro.
Ø L’utilizzo del sardo nei Mass-media (Rai-Tv, Internet, Giornali), nella Pubblicità, nella Toponomastica.
Ø La legislazione europea, italiana e sarda, che difende e tutela il Sardo.
L’incontro, aperto al pubblico, si terrà nella Biblioteca di Flumini (in Via Mar Ligure, 3) con inizio alle ore 17.30.
Sui pregiudizi e luoghi comuni rispetto al SARDO riporto quanto ho scritto nel mio libro
LA LINGUA SARDA E L’INSEGNAMENTO DEL SARDO A SCUOLA (Alfa editrice, Quartu, 2010)
Il sardo è un dialetto
Sul Sardo sono presenti -e spesso vengono circuitati ad arte- una
serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per
dirla con il lessico forbito del filosofo e politico inglese Francesco
Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme
dell’ignoranza e della malafede da parte degli nemici della Lingua
sarda.
l pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia
un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun
linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un
dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà
una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda.
Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci che
in una lettera dal carcere del 26 marzo del 1927 alla sorella Teresina
scriverà: “Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai
tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi
pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In
che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli
darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me,
non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente
il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo
una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore
coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto…” .
Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status
di Lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente
“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”
l’art.2 recita testualmente: “In attuazione dell’art. 6 della Costituzione
e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi
europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura
delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e
croate e quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano,
il ladino, l’occitano e il sardo”.
Il sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali,
espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte
da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano.
D’altronde basta leggere un qualsiasi manuale, non di linguistica ma
di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la
lingua sarda è nata ben 400 prima della lingua di Dante: come si può
pensare dunque che sia un dialetto italiano?
Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna,
scientifica, non distingue nè fa differenze tra ciò che comunemente
si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione,
non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna. Ciò che rende
differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo
dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e
l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto
non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche.
Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è
un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per
l’Attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna;
per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia
della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per
lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune
a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,
O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che
una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”.
Così il Kiswahili – ma è solo un esempio – considerato “dialetto” nel
Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi la lingua ufficiale
di questo paese africano. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e
giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza,
a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto
mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich *, il linguista tedesco-baltico”Una lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”
*Nel mio libro avevo scritto che la frase fosse da attribuire a Einar Haugen Mentre Alessaxandra Porcu, da Berlino, mi ha fatto giustamente notare che è da attribuirsi a Max Weinreich.
Il Sardo non è unitario
Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene
all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti
Sardi. Occorre rispondere con nettezza che il Sardo consta di due
fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese. Ma il
fatto che esistano due parlate non mette minimamente in discussione
l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto
la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un
insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campidanese
e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle
differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla
diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto
spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze
minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona
linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o
sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia
una lingua unitaria perchè viene parlata con una pronuncia che varia
– e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città?
Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perchè
“adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”?
Che dire allora dell’italiano “unito” a fronte di adesso, ora, mo’ per
indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si
utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu,
burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno
di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua
fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte
dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha
influenzato e contaminato la lingua sarda?
Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente
e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere
al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come
è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel
mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in
seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo
nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno,
all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le
cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare
del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse
fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi.
Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi
pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione
della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna,
uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione
e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un
cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro
dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano
nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in
tale direzione.
Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese
potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo
con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo
stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione
con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di
lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso
territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio
italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si
parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese,
franco-provenzale, friulano, ladino e occitano. Questo fenomeno ha
radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da
ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani
che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto.
Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta
(Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni
storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in
particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del
comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca
(un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla
famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì
nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di
Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di
Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere
la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino.
Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato
dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano.
E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche.
Il sardo è una lingua povera
A questo luogo comune risponde con la solita ironia e cultura
Michele Columbu e poichè siamo totalmente d’accordo non ci
sogniamo neppure di aggiungere alcunchè.
“[…] Ecco, si afferma polemicamente che la lingua sarda è una
lingua povera, e si sottintende, in un confronto immediato, che la
lingua italiana è ricca… Davanti a questi giudizi mi domando con quale
criterio possa venire accertata la ricchezza o la povertà di una lingua;
mi domando se, per esempio, sia accettabile un metodo aritmetico
come contare le parole del suo vocabolario. Se un tale metro fosse
buono sarebbe possibile stabilire persino l’esatto rapporto, o differenza,
di ricchezza – povertà fra due lingue, così come si può stabilire il
rapporto, supponiamo, fra due greggi di pecore e fra due conti in
banca. Pertanto, sulla base del numero delle parole, si potrebbe dire
(e qui invento i dati) che la lingua italiana, rispetto alla lingua sarda,
è il 35 per cento più ricca (o il 50, o il 70 per cento).
Senonchè, a parte il fatto che non è stato ancora convenuto quante
parole siano necessarie a una lingua perchè si possa definirla ricca, a
me pare di dover respingere il metodo aritmetico di valutazione.
Nessun dizionario infatti, per sterminato che sia, può considerarsi
una lingua. Il vocabolario della lingua italiana non è la lingua italiana;
il vocabolario della lingua sarda non è la lingua sarda. Che altro è
dunque una lingua? Forse la grammatica, la stilistica? No, neppure i
migliori trattati di grammatica e di stilistica sono una lingua.
A voler tentare una temeraria definizione – necessariamente
incompleta e provvisoria – direi che una lingua è la cultura stessa del
popolo che la parla (e la scrive, se la scrive). Per questa ragione a me
pare che, in assoluto non vi siano e non possano esservi lingue povere
né lingue ricche, ma soltanto lingue in quanto sufficienti e in grado
di esprimere tutta la cultura di cui sono appunto l’espressione. Un
contadino bolotanese capace di comunicare le proprie cognizioni relative
all’agricoltura, capace di esprimere le sue sensazioni di stanchezza, di
scoramento, di preoccupazione, di gioia, di soddisfazione, di orgoglio,
come pure le sue riflessioni sui rapporti col mondo che lo circonda,
la sua filosofia politica e sociale; ricchezza e povertà, oppressione
e libertà, giusto e ingiusto, amore e odio, e via via il vasto bagaglio
della sua cultura bolotanese, parlerà certo una lingua sufficiente, ma
se è fornito di intelligenza e di fantasia parlerà forse una ricchissima
lingua bolotanese, molto più ricca di quella italiana che si legge nel
cinquecentesco poema L’Italia liberata dai Goti, il cui autore era
colto e intelligente ma aveva scarsa fantasia.
Si potrà obiettare che il mio fantasioso contadino non è in grado
di parlare di S. Agostino nè di Dante nè di psicanalisi, nè di processi
chimici nè di missilistica; è vero, ma su questi temi non avrebbe
potuto aprir bocca neppure Marco Tullio Cicerone, un oratore senza
dubbio intelligente e fantasioso.
Del resto, se andiamo a verificare come se la cavano, in lingua
italiana, i cittadini italiani del nostro tempo, scopriremo che la maggior
parte di essi, intorno ai temi sopraenunciati, o non sono in grado di
parlare o diranno un mucchio di sciocchezze.
Si potrà ancora obiettare che il nostro bravo contadino, nel caso
in cui seguisse un regolare corso di studi in Italia fino a conseguire
il titolo di dottore e venisse a conoscenza di S. Agostino, di Dante,
della psicanalisi, eccetera, volendone parlare abbandonerebbe la
lingua sarda e si esprimerebbe in italiano, così come fanno tutti gli
intellettuali sardi che pur conoscono la lingua sarda.
Benissimo, qui vi aspettavo per potervi concedere che anche
questo è vero, ma soltanto perchè lo avrete obbligato a seguire il
regolare corso di studi in lingua italiana con rigorosa esclusione
della lingua sarda.
La questione della povertà, o insufficienza, del sardo come lingua
colta (o dotta) è tutta qui. Se la storia avesse marciato in direzione
opposta, se nel quinto secolo avanti Cristo i Greci – poeti epici, poeti
lirici, poeti tragici, oratori, storici, matematici, filosofi, astronomi,
navigatori, architetti, pittori, scultori e via dicendo – avessero conquistato
Roma ancora tutta contadina o pressappoco, e le avessero imposto
la lingua greca col dileggio continuato del latino e a forza di colpi
di bacchetta sulle mani degli scolaretti, la grande lingua di Cicerone
e di Virgilio sarebbe rimasta dentro le capanne dei pastori laziali.
Seneca e Plinio avrebbero scritto in greco, e così pure Agostino e
Tomaso, Lattanzio e Tertulliano, come ancora tutti i papi; e l’italiano,
lo spagnolo, il francese dei giorni nostri non sarebbero lingue neolatine
bensì neogreche o, chissà, neocartaginesi.
Dunque. Vogliamo restituire al Sardo la libertà e la dignità di lingua,
anche illustre, che ebbe nel medioevo e fino al giudicato di Eleonora;
consentiamole di colmare come può alcuni secoli di esclusione (un vero
bando) dal processo culturale europeo e concediamole di partecipare
– come l’italiano – al cammino della cultura che suole autodefinirsi
“grande” e “alta” (ma chissà!), e vedrete che il sardo non sarà soltanto
la lingua umiliata dei contadini e dei pastori.
( Michele Columbu, Lingue povere e lingue ricche, in Quaderni bolotanesi:
appunti sulla storia, la geografia, le tradizioni, le arti, la lingua di Bolotana”, Vol. 4 A, 1978, n. 4.).
Il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità”
Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato
alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura
moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia
alla medicina ecc. ecc.
Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”:
termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale
scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella
lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto
inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente
assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene
in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più
avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più
arretrate” sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più
moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e
lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua
del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.
A rispondere, del resto, a chi parla di “blocco” e di incapacità di
alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono
due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran
conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche:
“La rimozione de “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto
l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita,
storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla
cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente
rimosso il proprio “blocco” dialettale, ma che pur non possedendo
ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una
grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era
soltanto un “dialetto” o meglio un gruppo di dialetti”.
Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron
Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso
della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata
a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano.
Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un
periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo
a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella
tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.
Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti
moderni è dunque un falso problema: in più c’è da rilevare che in ogni
lingua “egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la
complessità della sua struttura Macro lingua) si formano dei linguaggi
“specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi,
per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per
formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per
essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I
tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco
a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa
ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere,
ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini
internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico,
incronico ecc: oppure li ha presi in prestito. In questi casi si possono
operare dei traslati come è avvenuto dall’inglese all’italiano. Nessun
problema quindi: il sardo può acquisire e prendere a prestito parole
e modi di dire elaborati altrove.
Il sardo non lo parla più nessuno
Forse è il luogo comune che ha meno basi nella realtà vera. Che ci
documenta esattamente il contrario. I risultati scaturiti da una indagine
voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario
di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza
dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano infatti dubbi in
merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti
dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della
lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara
d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9%
vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua
straniera. La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba
sale ancora – 85,5% – se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno
di 4.000 abitanti. Questi dati parlano chiaro e sono ancora più
eloquenti e significativi e in qualche modo persino miracolosi se si
pensa che ancora oggi il sardo – nonostante un risveglio e una serie
di leggi (a livello europeo con la “Carta Europea per le lingue
regionali e minoritarie”; a livello regionale con la Legge n.26
del 15 ottobre 1997 sulla “Promozione e valorizzazione della cultura
e della lingua della Sardegna” e infine a livello nazional-statale italiano
con la Legge n.482 del 15 dicembre 1999
riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche” in cui è presente la Lingua sarda); di fatto è ancora una
lingua “alla macchia”. Certo, non più, come nel passato quando era
“proibita”. Pensiamo a quando nel 1955, nei programmi elementari
elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto
per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. Proibita
e addirittura “criminalizzata”. Basta ricordare che in tempi
a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti
– del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare
eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della
Lingua sarda nelle scuole”. E una precedente nota riservata dello
stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva
addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare” gli insegnanti.
È una lingua “alla macchia” perchè non è ancora insegnata
organicamente nelle scuole e tanto meno è stato inserita nei curricula,
non viene utilizzato nei media (TV-Radio-Internet-Giornali) tanto
meno nella pubblicità o nella toponomastica. Pensiamo solo a come
sarebbe – parlato e scritto – il sardo se solo godesse dei “diritti” di cui
gode oggi la lingua italiana!
Il sardo ha prodotto “poco”
È un altro luogo comune che non risponde a verità: in realtà,
dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo
nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue
romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso
– si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno,
legato e imbrigliato potesse correre?
La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca
nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con
la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di
dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno
prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il
castigliano e infine di nuovo l’italiano.
Nonostante questo, tutta la storia sarda è stata contrassegnata
dalla presenza di una letteratura in lingua sarda: da Antonio Cano
e Sigismondo Arquer a Gerolamo Araolla, Antonio Maria da Esterzili
e Gian Matteo Garipa. Per non parlare della poesia in limba nel
‘700-‘800, una poesia fra umorismo, satira e impegno politico: dal
capolavoro anonimo di Sa scomunica de Predi Antiogu arrettori
de Masuddas, apprezzato da Gramsci e da Wagner, a poeti come
il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu; da Francesco Ignazio Mannu,
autore del monumentale Su patriotu sardu contra sos feudatarios,
più noto come “Procudad’ ‘e moderare” a Diego Mele o a Peppino
Mereu o a quello che è considerato forse il più grande poeta sardo
del Novecento, Antioco Casula (Montanaru), elogiato dallo stesso
Pier Paolo Pasolini.
E ancora a Pedru Mura, Aquilino Cannas, Benvenuto Lobina, lo
stesso Michelangelo Pira (con Sinnos), Antonio Cossu, Francesco
Masala, tradotto in molte lingue europee, Faustino Onnis, Franco
Carlini. Per arrivare infine ai giorni nostri con romanzieri come
Gianfranco Pintore e Antonimaria Pala o poeti come Giovanni Piga,
Paola Alcioni, Anna Cristina Serra. Ai nostri giorni e agli ultimi 30
anni in cui c’è stata l’esplosione della letteratura sarda, sia in poesia
che in prosa.
Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale
in Sardigna, Condaghes, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa
in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni.
Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra
cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità
fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto
orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos
tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle
letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare
alla ribalta la questione della lingua sarda.
Tra i romanzi pubblicati nel decennio 1980-1989, oltre a quelli già
ricordati (di Michelangelo Pira; Antonio Cossu; Benvenuto Lobina;
Frantziscu Masala e Zuanne Frantziscu Pintore ), da menzionare sono
Su traballu est balore (1984) di Francesca Cambosu; Alivertu (1986)
di Mario Puddu e Sas gamas de istelai (1988) di Albino Pau.
Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che
raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57.
Da ricordare – fra gli altri – i seguenti romanzi: Su contu de Piricu
di Mario Sanna (1990); Mastru Taras (1991) di Larentu Pusceddu; Su
Zuighe in cambales ((1992) di Gigi Sanna; i romanzi in gallurese: Di
stenciu a manu mancina (1993) di Giancarlo Tusceri e Lu bastimentu
di li sogni di sciumma (1997) di Giuseppe Tirotto; Sciuliai Umbras
(1999) di Ignazio Lecca.
Fra i “Contos-racconti”, di particolare interesse Nadale (1990) di
Diego Corraine; Sa memoria e i sos contos (1991) di Giulio Albergoni;
Contos de s’antigu casteddu (1994) di Salvatore Patatu; Contos de
bidda mia (1995 di Salvator Angelo Spanu; Contus (1998) di Franca
Marcialis; Is contus de nonna Severina-contus de forredda (1999) di
Maria Assunta Cappai.
Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono
ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa
manna – scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete
annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa
narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e
como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su
modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980
a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant
onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas
feas a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona
legibilidade”(Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran
cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che
cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire
che una narrativa in Lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa
in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca
un modello da interpretare, perchè come abbiamo analizzato per il
periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che
attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere
mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello
medio di buona qualità).
Tra i 107 titoli, a parte ancora quelli già ricordati (di Benvenuto
Lobina, Francesco Masala, Franciscu Carlini, Zuanne Frantziscu
Pintore, Michelangelo Pira, Paola Alcioni e Antonimaria Pala) sono
molti quelli degni di menzione (e solo lo spazio limitato impedisce
di ricordarli tutti) fra gli altri, i romanzi:
Carrela ‘e puttu, Presones de lussu (2000), S’Iscola de Mara
(2002), Pissighende su tempus benidore. S’istoria fantastica de sa
Sardigna in su XXI seculu -2001-2100 (2003) e Chenabraghetta
(2005) di Nino Fadda;
S’Isula de is canis. De s’arreumi a sa democrazia intre sa beccia
e sa noa economia (2000), Contus de fundamentu. De candu sa luxi
fudi scura, a candu su scuriu es luxenti (2003), Arega-pon-pon.
Tempus de pintadera (2007) di Francu Pilloni;
Una frabigga di sogni (2001) di Gian Paolo Bazzoni; Corte
soliana (2001) di Marina Danese; Su belu de sa bonaura (2001) e
Dona Mallena (2007) di Larentu Puxeddu; L’umbra de lu soli (2001)
e Comenti òru di nèuli (2002) di Giuseppe Tirotto; Su deus isculzu
(2002) di Pitzente Mura; Is cundannaus de su sàrtidu (2003) di Sandro
Chiappori; Su cuadorzu (2003) e Sa gianna tancada (2005) di Nanni
Falconi; S’arte e sos laribiancos. Lìttera a Tziu Frantziscu (2003)
di Bustianu Murgia; Sa sedda de sa passalitorta (2004) di Gonario
Carta Brocca; Nania. Sa pitzinna chi benit dae su nuraghe (2004) di
Maria Lucia Fancello; Meledda (2005) di Mariangela Dui; S’àrvule
de sos sardos (2005) di Micheli Ladu; Antonandria (2006) di Paulu
Pillonca; Sos de Parte “Tzier” (2007) di Costantina Frau.
Fra gli autori di “Contos e faulas – racconti e favole” di rilievo:
S’arrisu de s’Arenada (2000) di Matteo Porru; Deu sciu unu contu
(2000) di Ettore Sanna e Maria Bonaria Lai; A bassi veri (2001)
e Raighinas (2003) di Nino Fois; Contus e contixeddus (2002) di
Ugo Dessy; Contos e cantilenas (2002) di Maria Teresa Pinna Catte,
Maria Lucia Fancello, Silavana Comez; Contos de Foghile (2003) di
Francesco Enna; Contixeddus Cuatesus (2003) e S’anima de Cuattu.
Is arregodus e sa lingua (2006) di Giusi Ghironi e Mariano Staffa;
Contos e faulas (2003) di Mario Puddu, Matteo Porru, Teresa Scintu,
Giovanna Elies, Pinuccio Canu; Sos contos de Torpenet.Cuncursu
de literadura sarda in su web (2004) di AA. VV.; Apedala dimòniu!
(2004) di Amos Cardia; Memorias de Marianu (2004) di Giuseppe
Puxeddu; Contus antigos (2005) di Josto Murgia; Ite timende chi
so (2005) di Antonietta Zoroddu; Sa paristoria de Bakis (2006) di
Francesco Cheratzu; Conti pa Pitzinni (2006) di Fabritziu Dettori.
L’elenco potrebbe continuare: per intanto con le opere narrative
pubblicate dal 2007 fino ad oggi, che sono moltissime. Ricordo A
ballu tango di Antoni Arca, Su calarighe di Stefania Saba, pubblicati
da Condaghes che, insieme a Papiros di Nuoro, Domus de janas
di Cagliari e Alfa Editrice di Quartu, è l’editore specializzato nelle
pubblicazioni in sardo e in gallurese.
L’Alfa editrice – fra l’altro – negli ultimi anni ha pubblicato nella
variante campidanese e logudorese ma anche in Limba sarda comuna
(LSC), due collane, rivolte in modo particolare al mondo della scuola:
S’Iscola (15 volumi di contos e paristorias) e Omines e feminas de
gabbale (15 monografie sui personaggi e sardi illustri:
1. Gratzia Deledda de Frantziscu Casula
2. Emiliu Lussu de Matteu Porru
3. Leonora d’Arborea de Frantziscu Casula
4. Antoni Gramsci de Frantziscu Casula-Matteu Porru
5. Antoni Simon Mossa de Frantziscu Casula
6. Frantziscu Masala de Matteo Porru-Toninu Langiu
7. Zuanne M. Angioy de Frantziscu Casula-Giuanna Cottu
8. Amsicora de Frantziscu Casula-Amos Cardia
9. Marianna Bussalai de Frantziscu Casula-Giuanna Cottu
10. Giuanni B. Tuveri de Gianfranco Contu-Ivo Murgia
11. Sigismondo Arquer de Frantziscu Casula-Marco Sitzia
12. Giuseppe Dessì de Frantziscu Casula-Veronica Atzei
13. Montanaru de Frantziscu Casula-Joyce Mattu
14. Egidio Pilia de Marcello Tuveri-Ivo Murgia
15. Gratzia Dore de Frantziscu Casula