Sa die de sa patria sarda
Il 28 Aprile a Thiesi
In occasione de Sa die de sa Sardigna
(Ore 17, nella Sala Comunale- organizzata da A Manca pro s’Indipendentzia)
Atobiu istoricu:Amentos de s’annu de s’ataccu:
”1793-1796:pesadura contr’ a sos feudatarios: abolotu sotziale de sa gente o gherra de liberazione sarda?”
Ecco sa relata chi at a tennere
il prof. Francesco Casula
Ø La cacciata dei Piemontesi
1.Il fatto. Ecco come viene descritto da quattro storici sardi
Carlino Sole- In La Sardegna sabauda nel ‘700, Chiarella editore, pagg.216-220
“L’esasperazione toccò il colmo quando, conosciutosi nell’aprile del 1794 il parere del governo sulle «cinque domande», i funzionari piemontesi assunsero un atteggiamento ancor più sprezzante e presero a beffeggiare con ogni sorta di motteggi i Sardi, che a loro dire uscivano scornati e derisi dal diniego governativo. Non era un mistero che nelle loro conventicole, e persino nel palazzo viceregio, si cantassero per dileggio versi di questa fatta: Tirilì, tirilì, crepino i Sardi, i Piemontesi restiamo qui; tirilì, tirilà, crepino i Sardi, i Piemontesi restiamo qua.
Ad attizzare il fuoco contribuivano le lettere incendiarie del deputato Pitzolo; questi scriveva da Torino che non si doveva avere alcuno scrupolo nel ricorrere a mezzi estremi per dare agli Stamenti umiliati la più ampia soddisfazione. Si giunse così alla famosa giornata del 28 aprile, altrimenti conosciuta come vespro sardo, che segnò la sollevazione generale del popolo cagliaritano, e poi quella delle altre città, contro i Piemontesi.
Anche se gli Stamenti si affrettarono poi in un Manifesto giustificativo a dimostrare che si era trattato di un «mero accidente», in realtà essa fece seguito a una congiura preparata dai notabili cittadini d’accordo con i capi delle maestranze artigiane e con i sindaci dei tre sobborghi popolari di Stampace, Marina e Villanova. La rivolta sarebbe dovuta esplodere il 4 maggio, in occasione della solenne processione per il ritorno in città della statua di S. Efisio; ma poiché il governo viceregio, avuto sentore della trama, aveva manifestato il fermo proposito di fronteggiare ogni possibile emergenza con la forza delle armi, i congiurati si videro costretti ad anticipare la rivolta.
La mattina del 28 aprile il Balbiano, senza consultare preventivamente la Reale Udienza, che sicuramente lo avrebbe dissuaso, ordinò l’arresto di uno dei presunti capi della congiura, l’avvocato Vincenzo Cabrar, uomo rispettato da tutti per senno e dottrina, ma reputato dal governo come il principale ispiratore dell’avversione ai Piemontesi. Col Cabras fu arrestato anche il genero avv. Bernardo Pintor, mentre il fratello di questi, Efisio Luigi, notissimo avvocato del foro cagliaritano, evitò per puro caso la cattura. I familiari degli arrestati corsero per il popoloso quartiere di Stampace chiamando a raccolta quanta più gente potevano. Il tumulto si estese agli altri quartieri ed in breve una gran folla vociante fece ressa davanti alle porte del «Castello» chiedendo il rilascio dei prigionieri. Le porte furono incendiate, le guardie sopraffatte e le vie strette del «Castello» invase da quella turba sfrenata. Vi fu una parvenza di opposizione da parte delle truppe della guarnigione, ma quando una palla colpì a morte il comandante di un reparto, il resto dei soldati si arrese al popolo. Il viceré, intanto, aveva trovato scampo nel vicino palazzo arcivescovile.Se era intenzione dei promotori della congiura che il moto si risolvesse con l’arresto dei più alti funzionari piemontesi, l’intervento popolare impresse agli avvenimenti un corso diverso, perché, una volta sfrenatasi la licenza della plebe, riuscì difficile contenerne il dilagare. Ciò che all’inizio era stato uno spontaneo ed indistinto impulso tendente ad ottenere giustizia in favore di due cittadini onorati, divenne via via un chiaro sommovimento di rivolta contro il governo costituito, col preciso e dichiarato intento di «buttare a mare» tutti i Piemontesi, senza eccezioni di sorta. Fu come una parola d’ordine passata di bocca in bocca, e la «caccia al piemontese» divenne generale. I cronisti narrano che in caso di diniego o di dubbio la prova inconfutabile per rivelare la originaria identità degli arrestati era data dal modo come questi ripetevano la parola dialettale «cixiri» (cece), che ai subalpini riusciva impossibile pronunciare col suono dolce della x caratteristico della cadenza locale. Si ripeteva, sebbene in modo incruento, ciò che era avvenuto in Sicilia nel 1282 in occasione dei famosi «vespri».
Dal viceré al più modesto degli impiegati, dal generale comandante in capo al più umile dei subordinati, tutti furono posti sotto vigile custodia in attesa di essere imbarcati. L’unica eccezione fu fatta, oltre che per le donne, per l’arcivescovo Melano, anch’egli piemontese, il quale, anzi, ebbe dal popolo molte attestazioni di stima e di venerazione e fu lasciato al suo posto, benché poi, venutosi a trovare in una specialissima posizione, non potesse più presiedere lo Stamento ecclesiastico in veste di «Prima Voce».L’imbarco dei Piemontesi – se ne contarono 514 – avvenne pacificamente il 30 aprile. Il viceré e i più ragguardevoli funzionari furono accompagnati al porto dai maggiorenti della città e fatti segno durante il tragitto all’ossequio dei più moderati; ma contemporaneamente sullo spiazzo della darsena il popolo si abbandonava a festose manifestazioni danzando i balli tradizionali e levando grida di giubilo.
L’esempio di Cagliari fu presto seguìto dalle altre città, e nel breve giro di pochi giorni tutti i Piemontesi furono espulsi dal resto dell’Isola. Nel Manifesto giustificativo reso pubblico subito dopo dagli Stamenti la «emozione popolare» del 28 aprile fu presentata come un avvenimento conforme agli interessi della Sardegna e dello stesso sovrano e tale da aprire «un’epoca di contentamento ai sudditi sardi». Essa diede invece l’avvio a più gravi torbidi e a profondi sconvolgimenti politici e sociali in tutta l’Isola.
Il bando dato pacificamente ai Piemontesi non rappresentava un fatto costituzionalmente rivoluzionario, ma solo una manifestazione di forza tendente a riaffermare e rendere effettivamente operante l’Autonomia del regno sancita dagli antichi ordinamenti. Invece la posizione assunta dagli Stamenti fu indubbiamente rivoluzionaria ed apertamente innovatrice rispetto ai dettami della vecchia costituzione. Questa prescriveva che in assenza o per impedimento del viceré il governo fosse assunto temporaneamente dalla Reale Udienza, il massimo organo giurisdizionale dell’amministrazione viceregia: essa doveva esercitare il potere in nome del re e con le stesse amplissime facoltà riservate al viceré. Per contro nelle cose di governo nessuna autorità era riconosciuta agli Stamenti, che erano corpi rappresentativi unicamente abilitati a concedere al sovrano il prescritto «donativo», a richiedere in cambio di tale elargizione grazie e privilegi e a dargli consulta se richiesti. In realtà però gli Stamenti sovvertirono le istituzioni attribuendosi il diritto di partecipare al governo con una speciale delegazione e pretendendo addirittura di esercitarne la direzione facendo acclamare come presidente la «Prima Voce» dello Stamento militare.
In questo atto rivoluzionario si può configurare, secondo autorevoli studiosi di diritto costituzionale, una vera e propria usurpazione di poteri, più che uno sconfinamento del potere legislativo, che i tre ordini non avevano né potevano avere, in quello esecutivo. Ma la delegazione stamentaria per circa due anni, anche dopo l’arrivo in Sardegna del nuovo viceré, il debole ed irresoluto marchese Filippo Vivalda, regolò di fatto il governo della cosa pubblica arrogandosene quasi l’esclusività ed esercitando in vario modo una forte pressione sull’organo legittimamente investito dei poteri.
Tuttavia sulla Reale Udienza e sugli stessi Stamenti cominciava ad avere il sopravvento l’elemento popolare, il quale, se pur si rendeva conto del peso della sua forza numerica, non aveva però altrettanta consapevolezza dei fini da raggiungere, manovrato com’era da poco scrupolosi e male improvvisati tribuni. Fra questi primeggiava quel Vincenzo Sulis che l’anno precedente si era distinto nelle principali azioni guerresche contro i Francesi.
Nato da umile condizione, dopo una giovinezza burrascosa era riuscito a farsi una nuova reputazione dandosi a fortunate speculazioni commerciali e conseguendo il titolo di notaio. Nel pieno vigore di una vitalità straordinaria, aveva preso a signoreggiare sulle masse facendo leva sulla sua eloquenza animata e passionale e sul fascino di una personalità fuori del comune.
da Raimondo Carta-Raspi –in Storia della Sardegna, Mursia editore, pagg.793-798
“Ma durante l’anno trascorso non era stato superato, come forse si credeva a Torino, il periodo cruciale dopo gli avvenimenti in difesa dell’isola, sí che tutto sarebbe dovuto rientrare nella supina normalità. Al contrario, specialmente i Cagliaritani e gli abitanti dei piú prossimi villaggi, ai quali la resistenza alle truppe francesi aveva dato un improvviso intuito della propria forza anche politica, dimostravano sempre maggiore irrequietezza e il ràncore da lungo tempo accumulato verso i Piemontesi ancor piú che contro il governo era ormai all’estremo limite allorché si diffuse la voce che tutto doveva rimanere immutato e che i Piemontesi avrebbero continuato a spadroneggiare.
L’avversione contro i Piemontesi non era ormai una questione d’impieghi, come già durante l’ultimo periodo della signoria spagnola e come hanno fatto credere i dispacci del viceré Balbiano e la richiesta degli stamenti. I Sardi volevano liberarsene, non solo perché essi simboleggiavano un dominio sempre piú anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’isola; ma pure e forse soprattutto, per esserne ormai insopportabile l’albagia e la sprezzante invadenza.
Lo stesso Manno non concesse attenuanti all’esasperante ostentazione dei Piemontesi, « i quali erano montati in tale tracotanza, che il loro contegno, incominciato da qualche anno a sussiego, era finalmente degenerato in beffa » – « Quasi giunto perfino a dar cadenza e ritmo a quelle villanie (motti che deridevano i Sardi) in alcuni versi da colascione che cantavansi obbrobriosamente nel palazzo stesso del viceré ». Ma nulla meglio di alcune strofe del1’Innu de su Patriottu Sardu scritto in quegli anni ci fanno comprendere lo stato d’animo dei Sardi alla vigilia dei moti cagliaritani.
Fi’ pro sos Piemontesos
Sa Sardigna una cucagna;
Che in sa Indias s’Ispagna
Issos s’incontrant inoghe;
Nos alzaia’ sa ‘oghe
Finzas unu camareri;
O plebeu o cavaglieri,
Si deviat umiliare.
Issos dae Gusta terra
Ch’ana ‘ogadu miliones.
Benian senza calzones
E si nd’andaian gallonados.
Mai ch’ esserent istados
Chi c’ ana postu su fogu!
Malaitu cuddu logu
Chi creia’ tale Zenia!
Issos inoghe incontràna
Vantaggiosos imeneos,
Pro issos fin sos impleos,
Pro issos fin sos onores,
Sa dignidades mazores
De cheia, toga e ispada:
E a su Sardu restàda
Una fune a s’impiccare.
Sos disculos nos mandàna
Pro castigu e curressione,
Cun paga e cun pensione,
Cun impleu e cun patente.
In Moscovia tale zente
Si mandat a Siberia,
Pro chi morza’ de miseria,
Però non pro guvernare.
La scintilla dell’insurrezione di Cagliari giunse da Torino e fu una lettera del Pitzolo, che, deluso ed esasperato della subdola politica del sovrano e del suo governo, scriveva agli amici che non v’era ormai piú nulla da sperare dal dispotismo piemontese ed era necessario un gesto coraggioso, dimostrazione di forza e di volontà. È opinione del Manno che non sarebbe stato il messaggio del Pitzolo a suscitare la sommossa cagliaritana, in quanto « il tumulto era stato premeditato in una congiurazione fatta di proposito, con lo scopo determinato di allontanare dall’isola tutti i pubblici ufficiali stranieri ». Non in ogni caso tuttavia, poiché probabilmente non sarebbe avvenuto se le decisioni di Torino fossero state favorevoli ai desideri espressi nel memoriale; non necessario, sarebbe stato per giunta controproducente.
Predisposta per il 4 maggio, onde profittare del trambusto popolare per il ritorno del simulacro di S. Efisio da Pula e poter occupare le porte e disarmare le guardie, la sommossa dovette essere tempestivamente anticipata alla notte fra il 28 e il 29 poiché il viceré, avutone sentore, aveva disposto misure precauzionali. Informato anche dei nuovi disegni, senza neppure consultare come avrebbe dovuto il Reggente la Reale Cancelleria e la Reale Udienza, il re volle agire in tutta segretezza e tempestivamente, ponendo in stato d’allarme tutte le truppe dislocate nella città e, perché i congiurati non fossero scoraggiati, facendo subito arrestare quelli che riteneva fossero i capi, gli avvocati Cabras e Pintor.
Città capitale e sede di governo fin dall’occupazione aragonese Cagliari aveva sempre beneficiato di questa prerogativa e gli abitanti, catalani e aragonesi, via via sardizzati e solo in piccola parte affluiti in ultimo dagli altri centri, non avevano mai in precedenza dato segni di malcontento; anche perché oltre ai privilegi di cui godevano, per l’accentramento di tutti gli uffici, il notevole traffico del porto e il confluirvi di scambi commerciali fra l’Isola e l’oltremare, godevano di attività e benessere di gran lunga superiori a qualunque altro centro del regno.I settantenni di dominio sabaudo non avevano modificato queste particolari condizioni, né in senso politico sociale né in senso economico; e l’improvvisa sommossa popolare non può essere spiegata che con lo stato d’animo che si era creato in Cagliari e nei villaggi vicini conseguente alla vittoriosa difesa contro l’armata di Truguet, che aveva suscitato ancora impercettibili nei fermenti che germogliavano, i primi sintomi di effettiva autonomia. Ormai non era più nostalgia della Spagna, né ancora sardismo; fu all’inizio solo antipiemontesismo, accentuatosi progressivamente fino ai primi mesi del 1784 e culminato alla notizia che tutte le richieste della delegazione inviata a Torino erano state respinte, compresa quella che più stava a cuore dei Sardi, di avere voce e uffici nel governo locale dell’Isola. Fu anzi il disconoscimento di questa aspirazione sempre viva a far traboccare il risentimento, non già lo scioglimento degli stamenti o il diniego a una generica riconferma di privilegi che nuoceva quasi esclusivamente alla classe feudale.
Esautorati anche dalle modeste funzioni che il beneplacito sovrano aveva consentito talvolta di esercitare, dai tre bracci del Parlamento e dalle classi e interessi che vi erano rappresentati, l’azione stimolatrice verso il governo locale e di cauta resistenza verso quello centrale si trasferiva ora, sviluppandosi in un moto di rinnovamento progressista nella borghesia, soprattutto delle professioni liberali. Non più a difendere o a sollecitare privilegi d’antico regime, ch’erano propri seppure reclamati in nome della Sardegna, bensì a rimuovere gli impedimenti politici e sociali al progredire dell’Isola, che provenivano principalmente dal feudalesimo che sopravviveva con tutti i privilegi oppressivi delle popolazioni e sullo stato di rigida dipendenza e di inferiorità in cui il sovrano e il suo governo tenevano la Sardegna, comprimendone qualunque impulso, anche il più legittimo. Animatori di questo fermento furono gli elementi più colti e progrediti, principalmente gli avvocati e i magistrati, ma anche del ceto mercantile. Tra i più noti nelle vicende di quegli anni abbiamo visto il Pitzolo, gli avvocati Cabras e Pintor, in seguito l’avvocato Mundula, il notaio Ciocco, il parroco Murroni ed altri sui quali doveva sovrastare il giudice della Reale Udienza G. M. Angioy. Questi uomini che in quegli anni ebbero il destino dell’Isola, avrebbero potuto trionfare d’un governo impopolare ed imbelle, obbligandola a concedere all’Isola una radicale riforma ai suoi antiquati ordinamenti e un’effettiva autonomia vitale e operante, se <locos> e come sempre <malunidos> nei momenti culminanti non li avessero divisi e opposti gli uni agli altri rivalità, gelosie e ambizioni.
La Cagliari della fine Settecento –come del resto ancora del secolo scorso- non era molto estesa e la voce dell’arresto deel Cabras e del Pintor potè diffondersi in un baleno nei sobborghi della città; e gli abitanti, mentre le campane suonavano a stormo, come per un segnale convenuto, s’affollarono rapidamente presso le porte che suddividevano i quartieri e, trovandole sbarrate, v’addossarono cataste di legno appiccandovi il fuoco. Fu un susseguirsi rapido e deciso, che colse le guardie di sorpresa poterono essere disarmate senza neppure avere offerto resistenza; solo la compagnia della darsena, costituita da Sardi, fece uso delle armi ma le depose allorché venne ucciso il comandante.
Accorsa nella maggior parte disarmata, la folla dei rivoltosi si era via via impadronita delle armi tolte alle guardie e di alcune batterie, tosto puntando i cannoni verso la città alta, il Castello, per abbatterne le porte: vi fu un attimo di sosta: cedendo alle intimazioni della folla tumultuante, il viceré aveva consentito che i due prigionieri fossero condotti sugli spalti d’un bastione affinché potesse vedersi ch’erano vivi; sì che cadesse ogni ragione di tumultuare. Il viceré si era rassegnato a questo spettacolo per l’intervento del reggente la real cancelleria del generale delle armi e dell’arcivescovo Melano, oltre che dei marchesi di Laconi e di Neoneli, i quali avevano sperato che ciò sarebbe valso a tranquillizzare la folla, inducendola in tal modo a desistere dall’agitazione.
Vano tentativo, poiché se i rivoltosi chiedevano a gran voce la libertà dei prigionieri, neanche la loro scarcerazione li avrebbe placati; già appariva chiaro infatti che i propositi andavano ben oltre: richiesta senza ottenerla la liberazione del Cabras e del Pintor, con accresciuto impeto e incuranti di truppe e di cannoni, i più arditi riuscirono a incendiare le porte dell’Aquila e dell’Elefante, e disarmati i soldati a penetrare nella città-castello seguiti dalla moltitudine impaziente. Anche nelle tre strade che conducevano alla reggia erano state schierate truppe regolari; ma esse scapparono allorché s’avvidero che gli insorti erano forniti di artiglieria e si rifugiarono nella reggia, di dove spararono sulla folla, deponendo le armi quando fra gli alti ufficiali era caduto anche il comandante della guardia svizzera. I rivoltosi non trovarono nella reggia il viceré; poco prima si era rifugiato nell’attiguo palazzo dell’arcivescovado.
Tutto si era svolto nella notte fra il 28 e 29 Aprile con una sorprendente rapidità; e altrettanto breve doveva essere la seconda fase: avendo occupato i punti strategici piazzandovi i cannoni e costituito i primi battaglioni di milizie affidandone di nome il comando al generale delle armi marchese di Neoneli, di fatto al capopopolo Vincenzo Sulis, cominciò il rastrellamento dei Piemontesi.
Dopo tanti anni di prepotenze e di umiliazioni che avevano subito covando nell’animo il proposito di vendicarsi, ora che era venuto il momento di attuarlo e l’impeto e il furore che avevano infranto ogni ostacolo ancora eccitavano i rivoltosi, doveva essere ineluttabile un epilogo di violenze e di sangue: ma non fu torto un capello ad alcuno; a nessuno venne sottratta alcuna cosa. Come d’incanto l’irruenza svanì nel tripudio del successo e la ricerca e la cattura dei piemontesi avvennero senza incidenti, quasi ostentando riguardo; l’unico eccesso fu commesso nel palazzo viceregio ove molti popolani, dopo esservi penetrati, si lasciarono tentare dalla ben fornita dispensa del viceré facendovi copioso spuntino.
Intanto mentre i piemontesi venivano via via accompagnati nei chiostri, la Reale Udienza subentrava nei poteri e il viceré venne fatto rientrare nel palazzo ove furono accompagnate anche le maggiori autorità piemontesi perché fossero meglio protette né a disagio, attendendovi il momento dell’imbarco che doveva concludere la più bella pagina della storia cagliaritana.
Dopo l’infuriare della sommossa nella notte fra il 28 e 29 Aprile, il giorno successivo cominciarono a svolgersi i preparativi per la partenza con le tre navi ormeggiate nella darsena; e la mattina del 30 già discendevano incolonnati dal castello verso il porto i 514 piemontesi di Cagliari. Apriva il corteo il viceré, accompagnato dalle prime voci degli stamenti e da alcuni nobili e seguiti da funzionari e ufficiali piemontesi; lo chiudeva la lunga serie di carri e carrette che trasportavano i bagagli, così voluminosi e in gran numero che i popolani esclamavano: ”ecco le ricchezze sarde trasformate in ricchezza straniera; non giungeano qui con tanto peso di bagaglio o con questa dovizia di guarnimenti; assottigliati ci veniano e scarsi quelli che oggi si dipartono con fortuna così voluminosa” (Manno, Storia moderna). E la tentazione di travolgere e distruggere tutto venne frenata a stento nei popolani più irritati.Mentre si svolgeva l’imbarco e il viceré veniva accompagnato alla sua nave con dignitosa cortesia, raggiunse il culmine l’esultanza della popolazione che tra canti e applausi danzava il ballo sardo. Pochi giorni dopo anche gli altri centri dell’Isola, ove risiedevano piemontesi seguirono l’esempio di Cagliari. Unica eccezione era stato l’arcivescovo Melano che da tempo si era cattivato la stima dei Cagliaritani.
da Girolamo Sotgiu –In Storia della Sardegna sabauda, editore Laterza, pagg. 159-162
“E fu così che il 28 Aprile 1794, come narrano le cronache “si videro i soldati del reggimento svizzero Smith vestiti in parata”. La cosa passò inosservata perché si pensò che si trattasse di esercitazioni militari. Ma “sull’ora del mezzogiorno furono rinforzati i corpi di guardia a tutte le porte, tanto del Castello, come della Marina », e questo fatto cominciò a suscitare qualche preoccupazione fino a quando « sull’un’ora all’incirca, quando la maggior parte del popolo è ritirata a casa e a pranzo, fu spedito un numeroso picchetto di soldati comandato da un Capitano Tenente e tamburo battente con due Aiutanti ed il Maggiore della piazza » ad arrestare Vincenzo Cabras, « Avvocato dei più accreditati e ben imparentato nel sobborgo di Stampace », nonché il genero avv. Bernardo Pintor e il fratello Efisio Luigi Pintor, che poté sfuggire alla cattura perché assente (4)
I due arrestati furono condotti alla torre di S. Pancrazio e furono subito chiuse tutte le porte, mentre già il popolo si radunava tumultuando.
Il Manno dice che il Cabras era « un vecchio venerando per dottrina e probità », che nel lungo esercizio della professione aveva « tratto a sé amistà e clientele in gran numero », ed Efisio Pintor, che era sfuggito all’arresto, « benché in giovane età [era] uno dei dottori più illustri del foro cagliaritano, nel quale brillava per pronto e sagace giudizio e per vigoroso ragionare » (5)
L’arresto di uomini noti anche per la partecipazione attiva alla vita pubblica apparve subito quello che probabilmente doveva essere: l’inizio, cioè, di una rappresaglia più massiccia.
Da qui l’accorrere tumultuoso di centinaia, migliaia di persone, l’assalto alle porte, che furono bruciate o divelte, l’irruzione nei corpi di guardia, il disarmo dei soldati, la conquista del bastione e delle batterie dei cannoni. Tutto questo nel rione di Stampace, dove si erano verificati gli arresti. All’insorgere di Stampace seguì in rapida successione la sollevazione dei borghi di Villanova e della Marina.
La folla, superata la resistenza dei soldati, aprì le porte che tenevano divisi i sobborghi l’uno dall’altro che la massa del popolo unita poté rivolgersi alle porte del Castello.
Negli scontri rimasero uccisi alcuni popolani e alcuni soldati. L’assalto al Castello, dove il viceré voleva organizzare una più efficace resistenza, avvenne subito dopo. Bruciata la porta, lunghe scale appoggiate alle muraglie, «facendo scala delle loro spalle l’uno sopra l’altro»(6), i dimostranti riuscirono a entrare nei locali dove erano ammassate le truppe a difesa del viceré e del suo quartier generale.
In realtà, lo scontro fu di breve durata. Sempre il padre Napoli racconta che subito «si vidde la poca voglia avean gli svizzeri di offendere i paesani, poiché essendo iví di guardia in buon numero neppure tiravano una fucilata »(7) L’unica resistenza, anche se non di lunga durata, fu opposta dai dragoni piemontesi.
In poco tempo fu così conquistato il palazzo viceregio e tutta la città si trovò nelle mani degli insorti.
Gli stamenti, nella narrazione che fecero di quanto accaduto in un Manifesto giustificativo (8), inviato al sovrano, e che, col contrapporre le malefatte dei funzionari alla benevolenza e saggezza del re, esprime la volontà di ristabilire rapidamente un accordo con il potere regio, così narrarono gli avvenimenti successivi:
“ resosi il Popolo padrone di tutto il Castello, e in particolare del Palazzo viceregio, calmò in un momento tutta la sua furia e fu tenero spettacolo il vedere allora confusamente abbracciati i soldati coi cittadini. Al Viceré che temeva tutto dal giusto sdegno di un Popolo irritato si presentarono alcuni cittadini e riconoscendo in lui l’eccelso carattere di rappresentante di Sua Maestà, non solo lo rassicurarono intorno ai suoi timori, ma si astennero financo da ogni tratto ingiurioso ed altero, ed esprimendo la volontà dello stesso Popolo pretesero unicamente per sua soddisfazione lo scommiato dall’isola di tutti i piemontesi impiegati e non impiegati non eccettuato esso Viceré, a riserva di Monsignore Arcivescovo di Cagliari e degli altri prelati di quella nazione”.(9)
Poi, a testimonianza della continuità di governo, si riunì secondo gli ordinamenti del regno il magistrato della Reale Udienza, con la partecipazione dei soli membri sardi, che decise le modalità da seguire per lo scommiato dei piemontesi.
Così, il 7 maggio 1794, 514 tra piemontesi savoiardi e nizzardi furono costretti ad abbandonare l’isola, e, «divulgata per tutto il Regno l’espulsione da Cagliari dei Piemontesi, fu universale l’approvazione »(10); ad Alghero fu fatta la stessa cosa e, dopo qualche resistenza, anche Sassari seguì l’esempio della capitale. Né mancò, nel giorno drammatico dello scommiato da Cagliari, anche il grande gesto da tramandare alla storia: «La piazza che dalla porta di Villanova mette nel Castello era ingombra di popolani della classe più umile. Erano carrettaj, facchini, beccai, ortolani ed altri di simil fatta, gente poco ausata a squisitezza di tratti», quando la piazza fu attraversata dai carri che « scendevano dal Castello nel quale aveano avuto stanza i maggiori ministri », trasportando « al porto le loro masserizie con quelle del viceré ». All’apparire di tanta « abbondanza di carriaggi », si levò un solo grido:
Ecco le ricchezze sarde trasformate in ricchezza straniera: non giungeano qui con tanto peso di bagagli o con questa dovizia di guarnimenti: assottigliati ci veniano e scarsi quelli che oggi si dipartono con fortuna così voluminosa. Buoni noi e peggio che buoni, se lasciamo che abbiano il bando con questi stranieri anche le robe che erano nostre.
E il passare dalle parole ai fatti sarebbe stato inevitabile, se un beccaio, Francesco Leccis, sentita nell’animo l’indegnità del tratto, sale sopra una panca, e brandendo in mano il coltellaccio del suo mestiere quale scettro d’araldo, fermatevi, grida a quei furiosi:
quale viltà per voi, quale onta a tutti noi! Non si dirà più che la Sardegna ha bandito gli stranieri per insofferenza di dominio, si dirà che si è sollevata per ingordigia di preda. La Nazione volea cacciarli e voi li spogliate?
ed esortati i carrettieri a muoversi, « la folla si bipartiva, e le voci erano chete, e l’onore di quella critica giornata era salvata da un beccaio »(11) .
Meno aulicamente del Manno, il padre Napoli racconta la stessa cosa:
Lasciateli andare – sembra che il Leccis abbia detto – che i sardi benché poveri non han bisogno della M… dei Piemontesi, parole che colpirono in modo lo spirito di quelle plebaglie, che subito risposero nel loro linguaggio: aicci narras tui? chi si fassada, cioè: così dici tu? che si faccia.(12)
L’episodio, qualunque sia lo stile col quale è narrato, sembra confermare con la sua immaginosità, che, a un fatto di una gravità estrema, coloro che ne erano stati protagonisti volevano dare un significato il meno possibile drammatico.
da Natale Sanna – in Il Cammino dei Sardi vol.3°, pagg.395-98
“Appena gli ambasciatori giunsero a Torino consegnarono le cinque richieste al ministro Graneri, poiché il re si trovava in quel momento a Tenda, fra le truppe. Chiesero però di presentare personalmente al sovrano un memoriale in cui esse venivano motivate e minutamente spiegate. Mentre una commissione nominata dal Graneri studiava le cinque richieste ed il re, tornato da Tenda, sul finire del 1793, esaminava il memoriale, dopo aver ricevuto gli ambasciatori, arrivò a Cagliari un biglietto reale che eccitò gravemente gli animi: si ordinava lo scioglimento delle assemblee stamentarie, come fomite di disordini. Era ormai chiaro che le speranze dei Sardi erano destinate a naufragare miseramente.
Poco dopo giunse anche la risposta di Vittorio Amedeo III: molte e vaghe promesse, ma sostanziale rifiuto. E, di fronte a richieste che implicavano un’autonomia talmente larga da rasentare l’indipendenza, come avrebbe potuto rispondere diversamente un governo assoluto qual era quello dei Savoia, così geloso delle sue prerogative e così sospettoso di ogni novità? La notizia esasperò i Sardi; ciò che non si era potuto ottenere con le vie legali si volle ottenere con la forza. Si diceva, d’altronde, che lo stesso Pitzolo avesse scritto da Torino incitando a cacciare dalla Sardegna i Piemontesi, le cui mene avevano provocato la decisione reale.
Il viceré però, informato che si stava tramando una congiura, il 28 aprile 1794 ordinò l’arresto dei capi, cioè degli avvocati Vincenzo Cabras di Tonara ed Efisio Pintor suo genero. Essendo quest’ultimo riuscito a scappare, al suo posto fu arrestato l’avvocato Bernardo Pintor, che si trovava a pranzo dal Cabras. La reazione fu immediata.(2) Il popolo si levò infuriato in armi e, probabilmente secondo un piano già prima studiato, assalì il Castello, disarmò le guardie, invase il palazzo del viceré, che a mala pena riuscì a rifugiarsi nell’episcopio, e liberò gli illustri prigionieri. Assunto quindi il governo dalla Reale Udienza, composta da Sardi, e creatasi una milizia popolare agli ordini di Vincenzo Sulis, si arrestarono i Piemontesi e si tennero in buona custodia in alcuni conventi.
Così il 30 aprile 1794, fra il tripudio generale, si cominciarono ad imbarcare, per rispedirli in Piemonte, tutti i Piemontesi abitanti in Cagliari, in numero di 514, compresi impiegati, militari e viceré, eccettuato il solo arcivescovo Melano e le donne.(3) Nei giorni successivi lo stesso si fece in tutta la Sardegna. Dopo tre secoli e mezzo finalmente il popolo sardo era diventato capace di un atto di coraggio e, ciò che in simile frangente è particolarmente degno di nota, senza abbandonarsi a bestiali manifestazioni di odio, a saccheggi od a vendette, senza infierire contro i prigionieri.
2- significato storico e simbolico
“Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi ddi sa pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”
Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” (Dramma storico in due tempi e sette quadri, edito da Condaghes), lo scrittore Piero Marcialis fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino.
Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo e a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono :basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”.
E cacciano i Piemontesi e savoiardi, non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere.
Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo.
A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu (In “L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, edito dalla AM&D). Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici come il Manno o l’Angius al 28 Aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura.
Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – “le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola <nazionali>”.
Insistere sulla congiura –cito sempre lo storico sardo– “potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni”.
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.
Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona.
Secondo il Napoli “l’avversione della <Nazione Sarda> – la chiama proprio così- contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias”.
L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”.
Per ricordare lo scommiato dei Piemontesi è nata ”Sa Die, giornata del popolo sardo” – ma io preferisco chiamarla “Festa nazionale dei Sardi”- con una legge n.44 del 14 Settembre 1993. Con essa la Regione Autonoma della Sardegna ha voluto istituire una giornata del popolo sardo, da celebrarsi il 28 Aprile di ogni anno, in ricordo –dicevo- dell’insurrezione popolare del 28 Aprile del 1794, ovvero dei “Vespri sardi” che portarono all’espulsione da Cagliari e dall’Isola dei piemontesi e di altri forestieri ligi alla corte sabauda, compreso lo stesso inviso Viceré Balbiano.
Il problema che abbiamo oggi davanti, a livello soprattutto culturale, non è tanto quello di ridiscutere la data o, peggio, il valore stesso di una “Festa nazionale sarda”, bensì di non ridurla a semplice rito, a pura vacanza scolastica o a mero avvenimento folclorico e festaiolo.
Il problema è quello di trasformarla in una occasione di studio – soprattutto nelle scuole – della storia e della cultura sarda, di confronto e di discussione collettiva e popolare, per capire quello che siamo stati, quello che siamo e vogliamo essere; per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione; per batterci per una Comunità moderna e sovrana, capace di mettere in campo l’orgoglio e il protagonismo dei Sardi, decisi finalmente a costruire un riscatto ovvero un futuro di prosperità e di benessere, lasciandosi alle spalle la rassegnazione, la lamentazione, il piagnisteo e i complessi di inferiorità e avendo il coraggio di “cacciare” i “nuovi piemontesi” o romani o milanesi che siano, non meno arroganti, prepotenti sfruttatori e “tiranni” di quelli scommiatati da Cagliari il 28 Aprile del 1794. “Fu un momento esaltante –ha scritto Giovanni Lilliu– fu un’azione, poi bloccata dalla reazione “realista”, tesa a procurare un salto di qualità storica. Fu il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo ad una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
Al di là comunque di tutto questo e dello specifico avvenimento, quello che è importante è oggi il valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante. Nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato dunque: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, si tratta prima di tutto di dissotterrarlo e conoscerlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo lottando contro il tempo della dimenticanza. Un passato che -solo apparentemente perduto- occorre ritrovare perchè è durata, eredità, coscienza. In esso si innesta infatti il valore dell’Identità, non statico e chiuso, non memoria cristallizzata ma patrimonio che viene da lontano e fondamento nel quale far calare nuovi apporti di culture, di vite individuali e sociali che determinano sempre nuove identità.
Il messaggio di Sa die è rivolto soprattutto ai giovani e l’occasione storico- culturale è destinata prima di tutto agli studenti, perché acquistino consapevolezza di appartenere a una storia e a una civiltà e di ereditare un patrimonio culturale, linguistico artistico e musicale, ricco di risorse da elaborare e confrontare con esperienze e proposte di un mondo più vasto e complesso. In cui, partendo da radici sicure e dotati di robuste ali, possano volare alti: i giovani e non solo.
Ø Governo della Reale Udienza, contraddizioni del post-“commiato” e la figura di G. M. Angioy
1) Il post scommiato
Con la cacciata del viceré e dei Piemontesi, il governo (in cui gli Stamenti si erano arrogati il diritto di interferire) fu assunto, dalla Reale Udienza, dominata da Giovanni Maria Angioy, e la difesa fu affidata alla milizia popolare del Sulis. Inizia in questo momento un periodo pieno di contraddizioni: da una parte ricco di speranze e progetti verso l’Autogoverno, dall’altra con un rovinoso prevalere di interessi e appettiti personali e di gruppo, con tradimenti e trasformismi, opportunismi e ambizioni.
Fallita intanto la missione a Torino, facevano ritorno in patria il Sircana ed il Pitzolo. In quest’ultimo, tuttavia, – scrive Natale Sanna (1)- che pur con la sua lettera era stato (a quanto almeno si diceva) uno dei principali sobillatori della rivolta del 28 aprile, si notava uno strano cambiamento: biasimava la sommossa ed i suoi capi, proclamava doversi ristabilire l’ordine turbato dalla disubbidienza alle disposizioni reali, accusava aspramente Domenico Simon come uno dei principali responsabili del fallimento della missione.
La defezione del Pitzolo, passato ormai apertamente ai conservatori, provocò il rafforzamento dell’altra fazione, detta dei giacobini (termine forse improprio, ma allora di moda), capitanata da Cabras, Pintor, Sulis, Musso e, soprattutto, dall’Angioy.
In questo ribollimento di odi e di fazioni, -scrive ancora Sanna- un inaspettato provvedimento del governo di Torino sembrò dar ragione a coloro che accusavano il Pitzolo di essersi lasciato corrompere da segrete promesse di impieghi e di prebende. Il nuovo ministro, conte Avogadro di Quaregna, nominò d’autorità, senza tener conto dell’antico sistema delle terne, i nuovi alti ufficiali: reggente la Reale Cancelleria l’avvocato Gavino Cocco, governatore di Sassari il cavalier Santuccio, generale delle milizie il marchese Paliaccio della Planargía, notoriamente reazionario, ed infine sovrintendente del Regno il cavalier Pitzolo. Le proteste si levarono violentissime: si inficiavano di illegalità le nomine per non essersi tenuto conto dell’uso delle terne, si accusava di spergiuro il Pitzolo per non aver tenuto fede al giuramento fatto prima di partire per Torino, ma soprattutto si paventava lo spirito reazionario del Planargia che si vociferava, volesse restaurare l’antico ordine e reprimere duramente i capi della rivolta contro i Piemontesi il 24 Aprile. Si paventava inoltre che sia il Pitzolo che il Planargia riservassero solo a sé a i propri amici “reazionari” cariche, benefizi e impieghi escludendo rigorosamente i “democratici”.
Non si può procedere nella narrazione senza chiedersi quali fossero gli obiettivi che il movimento popolare intendeva raggiungere cacciando via dall’isola i piemontesi e lo stesso viceré.
Sull’insurrezione di Cagliari, sugli avvenimenti successivi e sul ruolo giocato da Giovanni Maria Angioy esiste infatti un dibattito storiografico, che, sin dall’inizio, con le opere del Manno e del Sulis, si è venuto fortemente intrecciando a motivazioni politiche che possono anche oggi influire su un corretto giudizio degli avvenimenti.
I popolani di Cagliari, alle cui spalle agivano influenti personaggi di orientamento democratico e giacobineggiante, si proponevano, come sembra ritenere il Manno, di rovesciare gli ordinamenti tradizionali e, seguendo l’esempio francese, approdare alla costituzione di una repubblica sarda? O, invece, e certo ugualmente rinnovando, sia pure con valenza politica ben diversa, riconquistare « i privilegi tradizionali » progressivamente usurpati dai piemontesi, così da assicurare al regno un governo rispettoso degli interessi della popolazione locale?
E, in questo quadro, quale la funzione di Giovanni Maria Angioy, certo la figura di maggior rilievo e prestigio del movimento complessivo? Quella di chi sin dall’inizio aveva chiaro che l’obiettivo era una Sardegna repubblicana e non più feudale e, in funzione del raggiungimento di questo obiettivo, regolava le mosse proprie e delle forze politiche che lo seguivano? O quella, invece, di chi adeguava la propria strategia all’incalzare degli avvenimenti e all’allargarsi della mobilitazione di massa, progressivamente mutandola, sino a esserne travolto anche per mancanza di un disegno strategico iniziale costruito in base a una valutazione attenta delle forze che sarebbe stato possibile mobilitare?
Difficile rispondere a questi interrogativi. Occorrerà studiare in modo più approfondito quegli anni terribili e insieme fecondissimi: in cui saranno poste le premesse del riscatto e dell’Autonomia del popolo sardo.
Certo è che –per usare la prosa storica di Girolamo Sotgiu (2)- ”i protagonisti di quelle vicende in realtà erano non tessitori di miserabili congiure o espressione di improvvide rivalità campanilistiche o, nella migliore delle ipotesi, ambiziosi riformatori sociali, ma gli interpreti di un disegno globale di rinnovamento politico e sociale della Sardegna, in accordo con lo spirito dei tempi…” E quel periodo della storia della Sardegna, non solo il triennio rivoluzionario ma l’intero decennio (1789-1799) “seppure si chiude con la sconfitta delle forze politiche e sociali che lottavano per una trasformazione profonda della società isolana ha tuttavia rappresentato il punto di riferimento per quanti successivamente hanno speso il loro impegno per liberare l’Isola dalla subalternità e dalla arretratezza”(3)
Fra i protagonisti di tale disegno complessivo di riscatto politico, economico e sociale e di autonomia identitaria, emerge con forza e spicco la figura di Giovanni Maria Angioy.
2) La figura di Giovanni Maria Angioy
La sua figura –scrive il già citato storico sassarese Federico Francioni-(4) nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevano particolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze». Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche piú marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana.
È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà».
Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna.
3) Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza.
La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.
Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, -anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi –ad iniziare dal Sulis- si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.
4) Angioy e i moti del 1795.
I moti del 1795 –scrive ancora Francioni- (4) a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica”. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi –per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24 Novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario.
Lo sbocco di questo ampio movimento –autenticamente rivoluzionario e sociale perchè metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne- fu l’assedio di Sassario –scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano-) (5). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi.
Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto econonomico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy.
5) Angioy “Alternos”
Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito.Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, -grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro.
L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis.Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano –scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.
6) L’Angioy a Sassari
Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta –persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento- in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero “de si bogare sa cadena da-e su tuiu: come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 Marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 Giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere.
Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad Aprile.Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile”(6). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.
7) L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno….
Il 2 Giugno 1896 l’alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui”(7). Difatti a Macomer popolani armati sobillati da ricchi proprietari cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 Giugno giunse in vista di Oristano.
Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos: l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie.
Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”.
Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa–come risulta dal suo Memoriale (8)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”.
Ø Come gli storici valutano l’Angioy
Dionigi Scano nella prefazione a <“Scritti inediti”, Gallizzi editori>, nel secondo capitolo dedicato a “Don Maria Angioy e i suoi tempi” oltre che esprimere lui stesso dei giudizi “Dei personaggi che parteciparono alle movimentate vicende della Sardegna nell’ultimo decennio del XVIII secolo, il più discusso è stato ed è tuttora il giudice della Reale Udienza Don Giommaria Angioi o meglio Angioy secondo la grafia originaria”, riporta tutta una serie di valutazioni di altri storici, sardi, italiani e stranieri.
Eccoli:
“Il primo a scriverne fu Domenico Alberto Azuni con il quale 1’Angioy fu legato d’affettuosa amicizia che, contratta sin da quando ambedue frequentarono le scuole del Collegio Canopoleno di Sassari, si rafforzò ancor più in età matura a Parigi, dove si trovarono ai primi dell’Ottocento, 1’Angioy esule e accorato e l’Azuni elevato dal Consolato ad alti uffici.
L’Azuni scrisse dell’opera del suo amico affettuosamente più che imparzialmente presentandolo come il più ardente difensore della nazione sarda e leale servitore del. regio servizio asserendo che nella carica di alternos, affidatagli dal vicerè si comportò saggiamente, ristabilendo nel Capo Settentrionale l’ordine e la sicurezza.
Il Sisternes in alcune sue note scritte nel secondo decennio dell’Ottocento e destinate alla regina Maria Teresa, accusa 1’Angioy di essersi rivolto alla repubblica francese per l’insurrezione del 1795 e di aver voluto rovesciare il governo monarchico per instaurare un regime repubblicano.
Il Mimaut esprime sull’Angioy lo stesso giudizio dello Azuni.
Il poeta Stanislao Caboni, condensa nel breve ambito di un sonetto il suo pensiero sull’Angioy. Eccolo integrale, mentre Dionigi Scano, nell’opera citata ne riporta solo alcuni versi:
GIOVANNI MARIA ANGIOI
E’ questa l’urna che il proscritto serra?
Vo lo spirto evocar che più non mente;
Dímmi : al trono movesti insana guerra,
O agli oppressor d’un popolo fremente?
Ti spinse alto sentire anche d’uom ch’erra
Nel fatal varco o cieca ira impotente ?
Fosti un vile o un Eroe ? La patria terra
T’era, o un poter compro col sangue, in mente?
Cupe mormoran fossa; io vil non fui,
Non traditor, tradito; il cor mi strinse
Della patria, pietà, dei mali sui;
Ma Eroe non pur, ché fermo in mio pensiero
Non prò di man, di cuore, inscio me spinse
Non oltre il Rubicon spinsi il destriero.(4)
Carlo Botta lo chiama il Paoli sardo, definendolo: uomo tanto più vicino alla modesta virtù degli antichi, quanto più lontano dalla virtù vantatrice dei moderni).
Il Valery lo dice vittima di patriottismo, forse unica nel nostro secolo .
Secondo lo Spano l’Angioy, mandato per sedare i tumulti dei vassalli, quando si persuase degli abusi dei feudatari, innalzò il vessillo dell’emancipazione feudale.
L’Angius lo definisce un ambizioso che favorì l’anarchia e che potente per le sue aderenze e per la popolarità, opprimeva il Magistrato e perseguitava gli amici dell’ordine e i devoti al re .
Il Manno è più severo: pur riconoscendo che ebbe virtù di ingegno, che fu buon padre e uomo generoso, lo definisce politiicante fazioso, al quale si devono gli eccessi della insurrezione del 1795, la morte del Pitzolo e del generale Della Planargia .
Il Tola, che nel 1837 ne scrisse una breve ed incompleta biografia con intonazione più che benevola, sei anni dopo s’associa al giudizio del Manno in uno studio apparso nella rivista « La Meteora »
Il Sulis in uno studio assai coscienzioso sui moti politici della Sardegna dal 1795 al 1825, rimasto incompiuto, s’indugia ad esaltare la figura dell’Angioy specialmente per la salda sua costanza nel professare i principi politici del popolare riscatto ai quali sacrò le attitudini della mente, le affezioni del cuore, le azioni della vita, le supreme preghiere in morte.
L’Esperson nel 1878 cerca abilmente di giustificare le contraddizioni ed incongruenze che si riscontrano nella condotta del1’Angioy attribuendogli il disegno di un popolare governo, coll’aiuto o non della Francia repubblicana, il che positivamente non consta, e punto non avrebbe gravato la sua posizione politica; salvo, occorrendo di venir in seguito, come dappertutto si operava, a transazione, accettando onesti e civili ordini monarchico-costituzionali..
Per il Costa l’Angioy fu un incompreso, non scevro di vizi e di virtù, e l’insurrezione che da lui prese il nome, fu il contraccolpo della rivoluzione dell’89, non un tentativo di codardi ambiziosi e di piccole vendette come scrisse il Manno.
Seguendo il Sulis, Raffa Garzia presenta un Angioy, ardente repubblicano e fautore delle massime francesi dell’89.
Il Pola, che nel suo esauriente studio sui moti delle campagne di Sardegna dal 1793 al 1802 si dimostra critico imparziale dell’operato dell’Angioy, ritiene che alla fine del 1796 le idee politiche dell’agitatore sardo non fossero ancora ben conosciute non solo, ma che non sussistessero in forma antidinastica, aggiungendo che i moti sardi del 1795 e 1796 ebbero carattere prevalentemente economico-antifeudale e che l’intenzione attribuita all’Angioy di condurre i villici armati a Cagliari per rovesciarvi il governo monarchico e levar la bandiera della repubblica non sia mai esistita.
Il Boi, che ebbe il merito di servirsi di documenti inediti tratti dagli archivi di Parigi per il suo studio sull’Angioy, scrive che questi alla soggezione ad un governo pavido e reazionario preferiva per la sua patria un governo, sia pure straniero, ma che agitava nel mondo la fiamma purissima della libertà
Si occuparono dell’Angioy, non di proposito ma incidentalmente, il Bartolucci, il Segre, il Martini, l’Agostini , il Bianchi , il Deledda , il La Vaccara , il Mossa , il Pittalis , il Loddo-Canepa. ed altri.
Le avventurose vicende dell’Angioy e soprattutto i suoi mutevoli atteggiamenti suscitarono l’interesse dei nostri storici a cominciare dal Manno. Malgrado ciò, manca una sua piena biografia, giacchè tale non può esser considerata nè quella del Tola che astrae dalle più importanti vicende in cui fu implicato l’agitatore sardo nè quella del Boi che considera in modo succinto la sua attività dal 1793 in poi.
In questa lacuna sta la ragione di questo studio che non vuol essere nè una condanna nè un’esaltazione e tanto meno una riabilitazione, giacchè quando ci si impanca a giudici, facilmente si è portati ad accusare o a difendere secondo le proprie tendenze e simpatie, specialmente se si tratta di persone che agirono in periodi rivoluzionari.
Narrando le vicende dell’Angioy ho voluto tener conto di tutti gli elementi che su di esse hanno potuto influire, non esclusi quelli che ad un superficiale esame appaiono superflui, e a tale scopo non solo ho attinto agli studi già fatti, ma ho proceduto a minuziose ricerche in fondi ancora inesplorati di archivi lo cali valendomi anche di numerosi ed inediti documenti tratti da archivi francesi. Ritengo che da questa mia narrazione, del tutto imparziale, la figura dell’Angioy risulti ben definita e lumeggiata. Se il suo operato, equivoco in certe circostanze, si presta a critiche e a suscitare delusioni, non bisogna dimenticare che il ribelle alternos non può e non deve esser giudicato alla stregua dei nostri costumi e dei nostri concetti in fatto di morale. Gli uomini di rivoluzione – e tale era 1’Angioy – non possono essere misurati col metro comune. Dire, per esempio, che egli fu una canaglia e il Pitzolo un virtuoso o viceversa significa non intendere i compiti della storia, riducendola ad una scolastica distribuzione di premi.
Certo la figura dell’Angioy, strana ed enigmatica, esaltata e vilipesa a seconda del prisma attraverso il quale la si guardò, ha suscitato e suscita tuttora l’interessamento più intenso e più vivo”.
Per concludere con le valutazioni degli storici, di particolarissimo interesse, pur curvata sul crinale faziosamente conservatore e reazionario, ovvero filofeudale e filobaronale, è la più antica ricostruzione storica del triennio rivoluzionario sardo (1793-1796) e dunque della figura di Giovanni Maria Angioy: “Storia de’ torbidi occorsi nel regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi”.
Si tratta di un’opera anonima e fa parte della ricchissima raccolta di manoscritti della sezione di storia patria della Biblioteca reale di Torino. L’opera è stata pubblicata nel 1994 a cura dello storico sardo Luciano Carta con presentazione di Girolamo Sotgiu per la Editrice Sardegna (27).”L’analisi sistematica della <Storia> -scrive il curatore Luciano Carta- rivelava inoltre singolari affinità con la Storia moderna di Giuseppe Manno….e faceva nascere il sospetto che quest’ultima poggiasse sulla prima come su un’intelaiatura… alla sostanziale identità di struttura si aggiungeva un altro fondamentale elemento di somiglianza, la singolare corrispondenza della tesi centrale delle due opere, che spingeva a supporre una sorta di dipendenza della Storia Moderna dalla Storia dei Torbidi. Entrambi gli autori infatti ascrivono il motivo di fondo dei moti del 1793-1796 ad una “congiura” ordita dal partito filo-giacobino, tendente a sovvertire l’assetto politico istituzionale della Sardegna, che poggiava sulla monarchia assoluta e sul sistema feudale, per trasformarlo in una repubblica democratica di stampo francese che avrebbe dovuto avere come presupposto necessario l’abolizione del feudalesimo” (28).
Capo del partito giacobino e protagonista della congiura sarebbe stato per l’anonimo estensore della “Storia dei Torbidi”- insieme ad altri– Giovanni Maria Angioy, cui si attribuisce addirittura la responsabilità di essere il “mandante” degli omicidi del Pitzolo –per mano di Ignazio Busa e Andrei de Lorenzo- e del Planargia. Oltre che, naturalmente di essere contro la feudalità e di volere un governo giacobino. Che per l’estensore della “Storia”, sostenitore delle magnifiche e progressive sorti della Monarchia sabauda e baronale, evidentemente era oltre che sovversivo un reato atroce e orrendo.
Angioy nell’immaginario collettivo, nella memoria e nella cultura popolare sarda.
A tal fine e a mo’ di conclusione riporto una poesia in limba, inedita, recapitatami da un’anziano signore macomerese, PEDRU MURZA, di cui io ho rivisto e corretto solo la grafia.
A ANGIOY
Su milli settighentoschimbantunu
est naschidu a Bono in Sardigna
da una mama ‘ona. illustre e digna,
E lul batizant in cussu Comunu.
A nomene l’ant postu Zomaria,
pizinnu sanu e bellu che fiore
coronadu lis benit s’amore
prenande sa domo de allegria.
Cando mannitu, ti mando a iscola
amanu aganzada ti che leo
finzas a che finire s’ateneo
mama non ti lassat a sa sola.
Inie s’andat dae gradu in gradu
C’agatas sos dottos de iscenzia
Impreada sa tua inteligenzia
Mama ti cheret avocadu
Avocadu de fama e onores,
de onestade e de baleintia
po che ‘ogare custa tirannia
de Ladros e crudeles oppressores.
Cuntenta beneitu l’at sa mama
c’a domo est torradu. magistradu
e Gìuighe onestu e onoradu,
in coro l’est azesa sa fiamma.
Iscriet líteras e quadernos
Ca sempre bada ite imparare
In su mentres s’est bidu nominare
rapresentante sardu Alterno.
Dubiosu Angioy at azetadu
Issu l’aiat bene cumpresu
Ca cosa b’aiat in mesu
Chi Arborea l’aiat preparadu
Su vicerè ischit de sa circolare
E faghet ‘ettare sos pregones
Chi non tocherant contes e barones
Ca issos solu depent comandare
Sa die ‘e Sant’Andria vintitres
A sos contes non piaghet sa tesi
Si ‘ortat Bessude, Cheremule e Thiesi
de non pagare tassas a viceres
Angioy da-e Caralis est partidu
Su treighi de frearzu s’aviat
Sa zente in caminu creschiat
E finas a Tatari l’ant sighidu
Sos prodes de totu sa costera
E sos Bonesos suos paesanos
Cun furchiddas e cavanas in manos
Pro c’’ogare sa zente forestera
Istamentas e viceres a foras
Totu traitores e tirannos
Isfrutadores da-e medas annos
Cussa zente mala e traitora
Da-e Bonorva caminant cun lestresa
Attraessende in su Logudoro
Pro giompere a sa ‘idda tataresa
Armados de coraggiu ant su coro
Su vintichimbe de su mese ‘e Nadale
In Tatari leadu n’ant sentore
Tuccat a boghes su banditore
Tancant Gianna barcone e portale
In su casteddu ant sos cannones
Chi ant cuminzadu a isparare
Ma su populu sighit a aboghinare
A foras contes marcheses e barones !
Creiant chi l’aiant fatta franca
Poi chi at passadu tantas oras
Aperint sas giannas e nd’essit foras
Arzende in manos bandela bianca
A Angioy l’an resu sos onores,
totu sa idda l’at acclamadu
ca su populu at liberadu:
tribagliantes, massagios e pastores
De lampadas su duos de su mese
Cheret faghere a Karalis tucada
Ma ainie non faghet arrivada
In Aristanis firmadu at sos pees.
Prima de arrivare a Campidanu
In Macumere est devidu passare,
però inie, invece de1′ azuare,
l’ant gherrada a manu a manu.
E bat bistadu mortos e feridos
E parizos sunt ruttos in terra,
ma luego ant finidu sa gherra
e adaboi sin-de sunt pentidos.
Passados sunt in Settefuentes
Attraessende montes, baddes e serra.
Arrivados che sunt a Munterra
Sighinde su caminu e sos molentes. (1)
In tottue serradu l’ant sa gianna
In Casale abertu l’ant su portone
Pero pro che lu ponnere in presone,
e a morte est bistada sa cundanna.
Su die vintiduos de Nadale
Lu liberat Felice Rubatta,
a che lu ‘ogare fora bi l’ha fatta
bestidu de franzesu uffiziale.
Zomaria in Franza ch’ est andadu
Esule inie ch’est abbarradu.
(1) Mulattiera che va verso l’oristanese
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