Colonialismo italiano in Sardegna:dagli “spogliatori di cadaveri” alle scorie nucleari

Colonialismo italiano in Sardegna:dagli “spogliatori di cadaveri” alle scorie nucleari

ROMA – La politica italiana nei confronti della Sardegna (e del Sud) è tutto giocata sul colonialismo interno. Fin dai primordi dell’Unità. Tanto che un neomeridionalista come Nicola Zitara, scriverà un libro dal titolo emblematico: L’Unità d’Italia- nascita di una colonia

Ma di “colonialismo” italiano parlerà anche Gramsci a più riprese: fra  l’altro scrivendone il 16 Aprile  1919 in un articolo dell’Avanti, avente per titolo “I dolori della Sardegna”. 

Nel cinquantennio 1860-1910 – scriveva –  lo Stato italiano nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché–aggiungeva– è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato «spende» per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”? 

Proseguirà ricordando che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente “La Brigata Sassari” aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino oltre che con le tasse sproporzionate, con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde. Soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, quando fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. UInfatti con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi – erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.

Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti. Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili. Discende bruscamente il prezzo del vino e del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri”. La prima categoria di tali “spogliatori” è quella degli industriali del formaggio. “I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale”.

Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri: gli industriali del carbone. Il cui lascito per la Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali – soprattutto toscani – ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi. “A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza”, scrive Gramsci.

Così – continua l’intellettuale di Ales –“L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche”. 

Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri spogliatori di cadaveri. Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo. I Savoia per quattro soldi le daranno in concessione a pochi “briganti”, in genere stranieri ma anche italiani.

Essi si limiteranno – scrive Gramsci –  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”.

Nel ventennio del brutale regime fascista l’economia sarda si inabisserà ulteriormente: l’Isola continuerà ad essere considerata una colonia d’oltremare. “Più volte – scrive Carta-Raspi – Mussolini aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da stanziare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse”.

Con la nuova Italia democratica, il colonialismo nei confronti della Sardegna continuerà: certo assumendo forme più sofisticate e meno brutali ma non per questo meno devastanti. Continuerà l’emigrazione e proprio in coincidenza con il boom economico dell’Italia degli anni ’60. L’Isola sarà utilizzata come stazione di servizio per industrie nere e inquinanti: quelle petrolchimiche in primis. Senza per altro risolvere il problema dell’occupazione. E come area di servizio della guerra (con il 65 per cento di tutte le aree militarizzate in Italia). Con i Sardi privati del proprio territorio. Con 1/5 della costa sarda – ben 437 Km – vietata alla balneazione, specie a causa delle basi militari. Ed ora lo Stato e il Governo italiano, contro l’unanime opposizione dei Sardi, vorrebbero costringere l’Isola ad essere ricettacolo delle scorie nucleari. Trasformandola in un vero e proprio muntonargiu de aliga mala. Permanente e pericolosissima. 

 

La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

 La guerra italiota e le migliaia di Sardi morti.

Cento anni fa l’Italia entrava in guerra. Una “strage inutile”, “una spaventosa carneficina” la definirà il papa Benedetto XV. Un valente sardo come Emilio Lussu – che proprio in quella guerra acquisterà prestigio e fama – parteciperà alla Guerra con entusiasmo, da interventista convinto e “chiassoso”, giustificandola “moralmente e politicamente”.

Al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia, ottusità e stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili. Ma soprattutto con l’olocausto degli uomini sfracellati e le foreste zeppe di crani nei cimiteri militari; con i 13.602 sardi morti su 100 mila pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati. La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. “Abbasso la guerra”, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in «Un anno sull’altopiano» – “Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita”.

Anche perché, in cambio dei 13.602 sardi morti in guerra, (1386 morti ogni diecimila chiamati alle armi, la percentuale più alta d’Italia, la media nazionale infatti è di 1049 morti) – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi – “non sfamava la Sardegna”.

Nascerà dalla sua esperienza sul fronte l’opposizione netta, radicale, decisa di Lussu alla guerra: ”Di guerre non ne vogliamo più – scriverà – e vogliamo collaborare e allontanare la guerra vita natural durante nostra e dei nostri figli e a renderla impossibile per sempre, disarmandola”. 

Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

 

Il SUPERPORCELLUM, I PRECEDENTI STORICI E LA RESTAURAZIONE RENZIANA

di Francesco Casula

Il sistema elettorale è la cartina di tornasole della qualità e quantità di democrazia di un Pese. Storicamente. Ad iniziare dal sistema maggioritario e uninominale, dell’Italia postunitaria prefascista. Era  uno dei principali strumenti di potere del Partito liberale di allora, dato che i suoi esponenti, in genere appartenenti alle élites locali, riuscivano a raccogliere senza troppe difficoltà – grazie anche a rapporti personali, di amicizia e di clientele – l’appoggio di un esiguo manipolo di elettori:qualche centinaia. Ricordo che nel 1861 il diritto di voto era riservato all’1,9% della popolazione:esclusivamente ai maschi di 25 anni con determinati redditi e titoli di studio. In Sardegna gli aventi diritto al voto erano 10 mila che salirono a 21.700 con la riforma elettorale del 1882, la cui percentuale salì in Italia al 6.9%.

I grandi partiti democratici di massa: il Partito popolare e soprattutto il Partito socialista si batterono allora per il suffragio universale perché, – canterà il nostro Peppino Mereu – “senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales/ Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende”.

Con l’introduzione del suffragio universale (maschile) nel 1913 e del sistema elettorale proporzionale nel 1919, il vecchio sistema politico finì gambe all’aria e si affermarono proprio il Partito Socialista e quello Popolare, che si erano battuti contro il Partito dei notabili, delle clientele, della corruzione e della malavita e dunque, contro il sistema uninominale e maggioritario che lo favoriva.

Fu il Fascismo – non a caso – da meno di un anno al potere, ad abolire il sistema proporzionale e a reintrodurre un particolare maggioritario. Il Governo di Mussolini infatti, fra il luglio e il novembre del 1923, fece approvare alla Camera e al Senato una nuova legge elettorale – detta Legge Acerbo, dal nome del proponente ed estensore, un sottosegretario – che introdusse un premio di maggioranza: avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi 356 (alla Camera) la lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti e il restante terzo, da ripartire su base proporzionale, alle liste rimaste soccombenti. Il disegno era chiaro: eliminare di fatto ogni ipotesi di opposizione parlamentare, assicurarsi una maggioranza assoluta, accrescere l’indipendenza del potere esecutivo, preparare un regime a partito unico. Esattamente ciò che tragicamente si avvererà e si realizzerà.

Caduto il Fascismo e ritornata la democrazia, ancora una volta, non a caso, si opterà di nuovo per il sistema proporzionale. Cercò di attentare a questo sistema nel 1953 De Gasperi, che per garantire alla DC e ai suoi alleati una maggioranza in grado di mantenere la stabilità governativa su una linea centrista, fece approvare in Parlamento una legge che assegnava il 65% dei seggi alla Camera, al partito o al gruppo di partiti che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti. Sandro Pertini dopo l’approvazione della legge si recò dal Presidente della Repubblica Einaudi chiedendogli di non firmarla. La firmò ma i risultati elettorali impedirono lo scatto di quella legge (i quattro partiti di centro, apparentati, ottennero solo il 49,85% dei voti)  ma i partiti di sinistra la battezzarono ugualmente legge-truffa.

Il 9 Giugno del 1991fu svolto il Referendum voluto da Segni: più del 90%  degli italiani – ma al Sud votarono solo il 55,3% degli elettori e al Nord il 68,3 –  si espressero a favore di un sistema maggioritario corretto (il 25% dei seggi veniva assegnato ancora su base proporzionale) e uninominale. Il nuovo sistema elettorale

 fu incarnato nel Mattarellum  del 1993. Segnatamente su tre punti si scatenò allora la propaganda e la demagogia dei referendari: la lotta alla partitocrazia, il rapporto diretto fra eletto ed elettore, e la“governabilità”. Ma nessuno di questi obiettivi fu raggiunto.

Il Mattarellum fu sostituito dal Porcellum – nomen omen! –  utilizzato nelle elezioni del 2008 e contenente tre elementi fortemente antidemocratici. Primo: non ha permesso all’elettore di scegliere i propri rappresentanti. Questi, di fatto, sono “nominati” dagli oligarchi dei Partiti: il cittadino, mancando il  voto di preferenza, deve solo stabilire le quote spettanti ai partiti stessi. Secondo: grazie allo sbarramento (4%) vengono estromesse dal Parlamento forze politiche storiche importanti. Terzo: assegna uno smisurato premio di maggioranza alla coalizione che ha preso più voti. A prescindere dalla percentuale.

Come ognuno può avvedersi si tratta di una legge che lede acutamente il principio di rappresentanza, tanto che molti costituzionalisti ritennero già da allora che contenesse elementi di anticostituzionalità. Come puntualmente la Corte costituzionale stabilirà, sia pure in grave ritardo nel 2014.

Arriviamo così oggi all’Italicum, fotocopia del Porcellum, da cui eredita tutte le nefandezze., Un vero e proprio Superporcellum, per di più approvato da una maggioranza parlamentare ristrettissima, alla faccia del principio secondo il quale “le Regole” si decidono insieme e con la più ampia maggioranza possibile.

Una legge che avvia e segna un processo autoritario e un presidenzialismo de facto, impastata com’è della cultura del capo. Parte integrante di tale progetto è il neocentralismo statuale con l’attacco forsennato alla Autonomie locali e la delirante proposta di abolizione delle Regioni o comunque di un loro ridimensionamento e depotenziamento.

Il Pd è il paladino di questo ciarpame di incultura e di perversione della rappresentanza, della democrazia, della libertà e dell’Autonomia , di cui storicamente ne è stata titolare e depositaria la Destra.

Combattere e liquidare tale paccottiglia restauratrice renziana è urgente: non risolveremo certo la crisi della politica ma sicuramente potremmo mettere una diga perché essa non si inabissi definitivamente nella melma.

 

 

LA NUOVA LEGGE TRUFFA E LIBERTICIDA DI RENZI-BERLUSCONI

 

Fu il Fascismo – non a caso – da meno di un anno al potere, ad abolire il sistema proporzionale e a reintrodurre un particolare maggioritario. Il Fascismo fra il luglio e il novembre del 1923, fece approvare alla Camera e al Senato una nuova legge elettorale – detta Legge Acerbo, dal nome del proponente ed estensore, un sottosegretario – che introdusse un premio di maggioranza: avrebbe ottenuto i 2/3 dei seggi 356 (alla Camera) la lista che avesse ottenuto il maggior numero dei voti e il restante terzo, da ripartire su base proporzionale, alle liste rimaste soccombenti.

Il disegno era chiaro: eliminare di fatto ogni ipotesi di opposizione parlamentare, assicurarsi una maggioranza assoluta, accrescere l’indipendenza del potere esecutivo, preparare un regime a partito unico. Esattamente ciò che tragicamente si avvererà e si realizzerà.

Caduto il Fascismo e ritornata la democrazia, nel 1953 De Gasperi, che per garantire alla DC e ai suoi alleati una maggioranza in grado di mantenere la stabilità governativa su una linea centrista, fece approvare in Parlamento una legge che assegnava il 65% dei seggi alla Camera, al partito o al gruppo di partiti che avessero raggiunto il 50% più uno dei voti. I risultati elettorali impedirono lo scatto di quella legge (i quattro partiti di centro, apparentati, ottennero solo il 49,85% dei voti)  ma i partiti di sinistra la battezzarono ugualmente legge-truffa.

Oggi Renzi propone che chi raggiunge il 36% dei voti abbia un premio di maggioranza del 18/20%. Altro che legge truffa di De Gasperi!

Ma non basta: nella scheda troveremo già decisi e stampigliati 4 candidati: decisi da pochi gerarchi di partiti e partitini, piccole e grandi lobby che aggregatisi in una coalizione, semplicemente per motivi di interesse e di potere, decideranno chi candidare e dunque –  a priori – si spartiranno i seggi. All’elettore solo il compito di segnare con una croce e di avallare quanto è stato deciso in qualche stanza segreta dai capibastone. Che candideranno – manco a dirlo – amici, famigli, portaborse, funzionari-dipendenti di partito – e di azienda berlusconiana –  purché tutti siano fedeli e servili nei confronti dei rispettivi “capi”. Certo, ci sarà pure qualche eccezione, ma solo per confermare la regola.

E chi non si rassegna a intrupparsi nelle coalizioni di Renzi e Berlusconi? E le minoranze? Fuori! Per loro nessuna rappresentanza, a meno che non raggiungano il 5%! E il principio:un capo, un voto? Liquidato.

Renzi, l’“americanizzazione” della politica e dintorni

Renzi, l’“americanizzazione” della politica e dintorni

 
Renzi, l’“americanizzazione” della politica e dintorni

 

ROMA – Sbaglia chi ritiene che oggi, il cancro della politica stia essenzialmente – o comunque si esaurisca – nell’affarismo, nella corruzione e nel malaffare dei “politici” di cui, ormai da anni, è zeppa la cronaca quotidiana.

Certo, quest’aspetto è quello più volgarmente visibile e corposo e giustamente colpisce e impressiona l’opinione pubblica e i cittadini creando un’istintiva reazione di protesta, rifiuto e di reiezione della “politica” tout court, vista come “cosa sporca”, “affare per mestieranti”, da cui dunque stare alla larga e da evitare. Salvo continuare da parte di quelli stessi cittadini a sostenere e votare quelli stessi politici che abominano, perché evidentemente sperano comunque di ottenerne un qualche vantaggio.

No, il cancro della politica sta oggi in ben altro: le ruberie, la ricerca esclusiva del proprioparticulare in qualche modo costituiscono l’aspetto “patologico” dell’azione politica, una sorta di bubbone che potremmo chirurgicamente recidere attraverso l’azione della magistratura o con un controllo più oculato. O più semplicemente smettendola di finanziare, con centinaia di milioni di euro “la politica”: ovvero i gerarchi e gerarchetti dei Partiti.

Il cancro più pericoloso, proprio perché ormai oggi “fisiologico”, strutturale, dentro la “politica stessa” e che, sia pure in misura diversa, attiene a tutti i Partiti e all’intero sistema politico italiano sta in ben altro. L’opinione pubblica tale aspetto, spesso non riesce a coglierlo, altre volte si abitua considerandolo non un “cancro” ma un aspetto positivo di “modernizzazione” della politica.

Qual è dunque questo cancro, questo cambiamento “genetico” della politica?

Il sistema politico italiano da un po’ di tempo – almeno da 20 anni – tende sempre più a “modernizzarsi”, “americanizzandosi”. Ricorre cioè a un uso più consolidato e più spregiudicato dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, di tecniche più sofisticate di psicologia di massa, di linguaggio, di controllo dell’informazione, di sondaggi. Attraverso tali tecniche e linguaggi, Partiti uomini politici e programmi vengono “venduti”, prescindendo dai contenuti: quello che conta, che si valorizza – come in tutte le operazioni di marketing – è l’involucro, la confezione, l’immagine, il louk: Renzi, da questo punto di vista è esemplare.

Berlusconi, la versione estrema della mutazione della politica, come  gli altri ras dei Partiti che cercano di imitarlo, vengono scelti e votati in quanto immagini rappresentative e simboliche del moderno autoritarismo e del gioco simulato, dietro tecniche di comunicazione, in larga misura mutuate dalla pubblicità.

La politica si svuota così e di contenuti – restano solo quelli simulati – e diventa pura e asettica gestione del potere: il conflitto tra i Partiti – più apparente che reale – diventa lotta fra gruppi, spesso trasversali, in concorrenza fra loro per assicurarsi questa gestione. La battaglia politica perciò diventa priva di telos, di finalità. E poiché i gruppi politici si battono fra loro avendo come unico scopo la conquista e la gestione del potere e l’occupazione di Enti, di qualsivoglia genere – da quelli bancari a quelli culturali – purché rendano in termini di soddisfacimento degli appetiti plurimi dei “clienti” più fidati, idee politiche, ideologie, programmi e progetti si riducono a pura simulazione: sono effimeri e interscambiabili. Tanto che qualche anno fa i due “poli” di centro-destra e di centro-sinistra si scambiarono reciproche accuse di plagio dei programmi. E negli ultimi due anni si sono addirittura organicamente alleati, prima con il governo Monti e oggi con Letta.

In nome – si sostiene – della governabilità e della stabilità, considerata alla stregua di una vera e propria finalità politica. 

La politica diventa in tal modo autonoma non solo dall’etica ma dall’intera società e si riduce a “gioco” simulato e insieme a “mestiere” – ben remunerato – per “professionisti”: non a caso nasce il termine “i politici”.

La legittimazione per i Partiti e i “Politici” non nasce più dalla libera aggregazione dei cittadini attorno a finalità e programmi e progetti discussi, concordati e condivisi, né dal consenso popolare, né da una delega concessa su obiettivi determinati, né dalla difesa di interessi di classi, categorie o gruppi sociali. 

   La legittimazione tende ad essere tautologica: si è legittimati a governare, per il fatto stesso di essere al governo. E i Partiti sono legittimati per il fatto stesso di essere all’interno del sistema dei Partiti – o della partitocrazia che dir si voglia – più florida che mai nonostante i supposti propositi e i disegni di colpirla.

Più florida, prosperosa e ben pasciuta, grazie alle centinaia di milioni di Euro dello Stato, cioè del contribuente, devoluti e concessi ai Partiti, in barba a un Referendum popolare in cui pressoché all’unanimità i cittadini si erano pronunciati con nettezza contro il finanziamento pubblico.

   Il sistema elettorale basato sul Porcellum e sul maggioritario è uno degli strumenti principi dell’americanizzazione della politica italiana e dunque della espropriazione delle capacità decisionali. Esso ha infatti prodotto disastri e devastazioni infliggendo colpi mortali alla democrazia; alla stessa libertà elettorale; al diritto all’ esistenza politica delle minoranze “fastidiose” per l’estabiliscement, segnatamente di quelle etno-nazionali, presenti nel territorio dello stato italiano, ad iniziare da quella sarda o di quelle della sinistra radicale; alla qualità del ceto politico e parlamentare, viepiù scelto e selezionato non in base ai meriti ma al tasso di obbedienza e di servilismo nei confronti dei gerarchi dei Partiti. Con il Porcellum infatti essi addirittura “nominano” i Parlamentari. E agli elettori è rimasto il solo potere di stabilire le quote da assegnare ai singoli partiti. 

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sulla liberta di stampa

 

 

gianfrancopintore

martedì 6 ottobre 2009

“Sono meno libero”: lettera aperta ai giornalisti sardi

Cari colleghi,
molti di voi hanno credo partecipato, fisicamente o solo con il cuore, alla manifestazione di Roma per l’informazione libera. E molti, come me, avranno avuto modo di riflettere sull’avvertimento del costituzionalista Valerio Onida: “Il cittadino non informato o informato male è meno libero”. Come meglio definire lo stato dei cittadini italiani e sardi disinformati o male informati da una estesa campagna di stampa contro i dialetti e le lingue minoritarie, per altro tutelate dalla Costituzione e dalle leggi?
Nessuno, almeno non io, nega ai giornalisti la libertà di pensare e di scrivere in piena autonomia pro o contro le lingue delle minoranze e i dialetti. Ma hanno anche la libertà di mistificare, dare notizie senza fondamento, o, peggio, negare l’informazione a riguardo? La nostra libertà è sovraordinata al diritto dei cittadini di sapere? Sappiamo bene che in una società della comunicazione un fatto non esiste se non è comunicato.
Questa lettera aperta ai giornalisti sardi da parte di un giornalista sardo non vuole essere una generica mozione degli affetti, ma segnalare alcuni fatti concreti i quali portano a concludere che, per responsabilità dei due maggiori quotidiani dell’isola, il milione e duecento mila sardofoni sono meno liberi. A loro, da un po’ di tempo i due quotidiani negano l’informazione sui fatti riguardanti il loro status o, nel migliore dei casi, la mistificano.
I fatti riguardano iniziative culturali, politiche e istituzionali. Partirei dall’ultimo esempio di comunicazione istituzionale. È quella attraverso la quale l’assessore della Cultura il 3 ottobre segnala che nella rimodulazione del suo accordo con il ministro Gelmini in materia di istruzione e lavoro si punterà anche “alla tutela e alla valorizzazione della specialità linguistica della Sardegna”. L’Unione ha completamente ignorato la notizia, la Nuova Sardegna tace che fra gli obiettivi della cosiddetta rimodulazione c’è l’uso del sardo a scuola.
Su Comitadu pro sa limba sarda ha inviato alla Regione la duplice richiesta di inserire la lingua sarda (insieme al gallurese, al sassarese, al catalano d’Alghero, al tabarchino) nel Piano Regionale di sviluppo come possibile motore di crescita economica e sociale e di prevedere l’insegnamento del sardo a scuola fin dal momento di modificare l’accordo Baire-Gelmini. La notizia è del tutto ignorata dall’Unione ed è data dalla Nuova nella edizione leggibile solo a Cagliari.
Questa proposta è stata illustrata in una conferenza stampa. Mentre le televisioni ne hanno parlato diffusamente nei loro Tg, l’Unione ha completamente taciuto il fatto e la Nuova ne ha pubblicato la notizia nell’edizione leggibile solo a Cagliari. In più ha taciuto della richiesta principale (l’inserimento della lingua sarda nel PRS) e ha attribuito al “professore universitario Francesco Cesare Casula” quel che invece è stato detto da Francesco Casula. Tanto per segnalare un caso di completezza e accuratezza dell’informazione.
Ma il top è stato raggiunto all’indomani della manifestazione organizzata ad Ollolai dall’ex presidente Renato Soru per discutere di lingua, identità e sovranità. L’Unione non ha scritto una sola riga, nell’articolo della Nuova di tutto si parla (di territorio, di autonomia e persino di indipendenza) ma non di lingua che pure è stato il tema d’apertura del convegno. Io mi sento molto “meno libero” per effetto di questa disinformazione che solo un ingenuo può pensare casuale e non frutto, invece, di una scelta editoriale.
Capisco che su questa scelta possa aver influito una voglia di contrastare Bossi e il suo appello alla valorizzazione dei dialetti e delle lingue maldestramente da lui definite regionali. Del resto, a leggere quotidiani e periodici italiani, da L’Espresso a Libero, da La Repubblica a Il Corriere della Sera, appare chiarissimo che la campagna contro i dialetti, ma anche contro il friulano e il sardo, muove dal contrasto a Bossi. Ciò che non condivido ma ritengo legittimo. Quel che legittimo non è, è la negazione dell’informazione o, peggio ancora, la sua mistificazione finalizzata all’arruolamento dei lettori in un esercito anti-dialetti. Altro che libertà dell’informazione.
Non vorrei che la nostra comune battaglia per la tutela di uno dei beni più preziosi della democrazia si trasformasse in una lotta per la libertà dell’arbitrio, durante la quale una casta si arroga il diritto di decidere che cosa i cittadini debbano sapere e che cosa è meglio ignorino. O conoscano i fatti solo dopo che la casta li ha predigeriti, metabolizzati e sfornati non per quel che sono ma per quel che dovrebbero essere.

 

I Media, Veltroni e il Veltronismo

0ad04dc91458ac326db355146c0f8e20.jpgIl sindaco di Roma si avvia ad essere incoronato segretario del Partito democratico ma continua ad essere oggetto di giudizi caustici: da sinistra come da destra. Veltroni? Un imbroglio mediatico. Giulietto Chiesa lo liquida così, in modo impietoso e brutale. Non è da meno Tremonti che lo definisce  il Truman show politico, lo spettacolo in cui “tutto è falso”.

 

In tali valutazioni, forse  è presente un sovrappiù di animus, un’acredine che rende il loro giudizio troppo risentito e acceso: il fondo è però sostanzialmente condivisibile. Certo si potrà obiettare che è parziale, riduttivo ed eccessivamente liquidatorio. Difficile comunque non riconoscere scampoli di verità: senza i media infatti Veltroni e il veltronismo non esisterebbero.

 

Finita l’era delle appartenenze ideologiche, espresse dai partiti di massa e dalle grandi organizzazioni sociali, da almeno 20 anni, dopo la caduta del muro di Berlino e della prima repubblica, il distacco dei cittadini dalla politica e dai partiti si è fatta sempre più ampio e palese. Da “fedeli” sono diventati “spettatori”. Di una commedia con pochi attori protagonisti. Prima la rappresentanza si fondava sulla partecipazione e sui partiti. I quali promuovevano il rapporto fra le istituzioni e la società. Selezionavano e legit- timavano la classe dirigente. Oggi tutto ciò si è rovesciato. Al posto dei partiti si sono imposti i gerarchi. Al posto della partecipazione i sondaggi e la comunicazione. Mentre la legittimazione ormai è divenuto un problema di marketing. I partiti non sono scomparsi ma si sono evoluti (o devoluti) in funzione dei leader. Partiti personali. Così la democrazia si è ridisegnata: da confronto fra grandi linee interpretate da grandi organizzazioni a competizione fra persone, fra leader. E fra programmi riassunti in dieci punti, in tre parole, in slogan.

 

Veltroni nuota dentro questa temperie culturale che, seppellendo le vecchie ideologie, ne ha fondato una nuova: quella dello spettacolo e del marketing politico. Con cui, da sindaco di Roma, è riuscito ad avvolgere i problemi della capitale in una coperta visionaria fatta di inaugurazioni, concerti, eventi culturali, aiuti all’Africa e messaggi elettorali pigliatutti, gigantesche operazioni di immagini che costituiscono il succo del veltronismo: basti pensare ai Villaggi della solidarietà, alla individuazione di aree destinate alla costruzione di chiese in periferia, alle visite agli anziani, ai regali ai bambini ammalati, alle cittadinanze conferite a profughi ed esuli, ai fuochi di artificio per il compleanno del papa, al Colosseo illuminato contro la pena di morte, alle foto giganti dei sequestrati in Irak o in Afganistan allestite sulla piazza del Campidoglio, ai  pranzi con i poveri della Caritas, alle presenze alla inaugurazione dei ristoranti per sordomuti, alla dedica a Giovanni Paolo II di una stele alla Stazione Termini nei giorni di maggior attrito sul caso Welby, all’insediamento di un ufficio comunale per la pace in Medio Oriente. Tanto da far scrivere su Libero all’allora segretario radicale Capezzone che prima o poi delle moltitudini si sarebbero recate in pellegrinaggio al Campidoglio per adorare le stimmate del sindaco santo.

 

Con la politica dello “spettacolo” Veltroni coniuga quella dell’inclusione: mette insieme l’ex candidato di Berlusconi alle regionali del Lazio Michelini, e Edo Patriarca, (già portavoce del Comitato Scienza e Vita, voluto dal Cardinal Ruini che promosse l’astensione ai Referendum sulla fecondazione assistita) con il no global Nunzio D’Erme; l’Opus Dei con i missionari comboniani, la Comunità di Sant’Egidio con i protestanti e i buddisti. Presenta il libro della tradizionalista principessa Alessandra Borghese (Sete di Dio) e si fa fotografare nel bel mezzo di danze dal sapore animista con capre e galli votivi in Malawi.

 

Insieme strizza l’occhio a Padoa Schioppa e a Draghi, ricevendo gli elogi di Montezemolo. Mette d’accordo tutti i Ds, compresi Fassino e D’Alema e questi con la Margherita , ad iniziare da Rutelli e Marini. Conquista anche i Sindaci retralcitranti del Nord: da Chiamparino a Cacciari. Getta scompiglio nella stessa Casa della Libertà e piace agli ex DS come Mussi, a Cossutta e allo stesso Bertinotti.

 

Tutto bene, naturalmente. I problemi verranno quando dovrà scegliere con nettezza su questioni dirimenti: sulla Tav e i rigassificatori; sulla guerra e i rapporti con gli Stati Uniti; sui contratti e i conti pubblici; sui Dico e sui moderati e radicali da mettere d’accordo.

 

 

(Mandato all’Unione Sarda ma non ancora pubblicato)

Termovalorizzatore

Il termovalorizzatore della Giunta regionale e il no delle popolazioni nuoresi.

 

di Francesco Casula

In poche settimane, il comitato popolare sorto per contrastare la realizzazione del termovalorizzatore nella piana di Ottana ha raccolto 5.000 firme ed è fortemente intenzionato a proseguire la sua battaglia. Per la verità non in solitudine: nei giorni scorsi anche il Sindaco di Ottana ha rotto gli indugi e si è schierato con la popolazione chiedendo un Referendum e l’intero Consiglio Comunale minaccia il ricorso al TAR per annullare la gara già espletata dalla Giunta per l’assegnazione dei lavori di realizzazione del megaimpianto.

Gli esperti insistono che quel progetto è pericoloso: produce residui da combustione che è difficile smaltire anche con  le nuove tecnologie né esistono soluzioni efficaci per le polveri sottili che producono danni irreversibili tra le popolazioni, inquinando il territorio e rendendo impossibile la qualità dei prodotti delle numerose Aziende agropastorali presenti. Inoltre trattando biomasse, si aprono le porte al raddoppio dei volumi dei rifiuti che passerebbero da 200 mila  a 400 mila tonnellate. Non basterebbero i rifiuti di tutta la Sardegna a soddisfare l’economicità dell’impianto e ciò preluderebbe all’importazione di altre quantità di rifiuti da altri paesi e località. La Confederazione sindacale sarda -che sostiene la lotta delle popolazioni barbaricine- insiste sugli effetti disastrosi sull’ambiente, sulle pochissime ricadute positive in termini di occupazione e di energia prodotta, sulla raccolta differenziata come alternativa al Termovalorizzatore.   (Pubblicato su Il Sardegna del 4-7-07)