Una portentosa impresa dei Romani: lo sterminio dei Sardi.

Una portentosa impresa dei Romani: lo sterminio dei Sardi.

di Francesco Casula

In tempi di risorgente “romanità”, favorita anche dai personaggi “neri” che si sono impadroniti del governo e dello Stato, ecco le imprese dei Romani in Sardegna.
Con il dominio romano fu ancora peggio che con i Cartaginesi. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. Negli anni 177 e 176 a.c – scrive lo storico Piero Meloni – un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata dallo storico romano Tito Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.
Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio Sardi venales: Sardi di poco valore e dunque acquistabili e da vendere, a basso prezzo.
Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i Sardi.
Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade, cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.
La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.
Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre, foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.
A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. La lunga guerra di libertà dei Sardi – è Giovanni Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage – già ricordata – di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.C., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori).
La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).

LE IMPRESE DEI ROMANI IN SARDEGNA (1)

di Francesco Casula

In un momento di risorgente “romanità”, sono andato a spulciare le mirabolanti “imprese” dei Romani in Sardegna.
Certo i romani fecero strade, ponti, palazzi, terme cloache vespasiani e teatri, per transitare velocemente le forze armate e il bottino per ristorarsi, alleggerirsi e divertirsi. E tracciarono le vie per tutti gli invasori successivi
Fecero soprattutto strade e ponti.
Infatti per meglio governare quel territorio secondo le proprie logiche di dominio furono costruite strade carrabili sui tracciati di quelle già realizzate dai Punici, che furono ampiamente collegate con nuove vie secondarie che penetravano nelle zone interne per meglio controllarle e gradualmente assoggettarle.
Nei punti nevralgici che fungevano da cerniera fra i territori sottomessi e quelli ancora nelle mani dei ribelli resistenti, i Romani insediarono presidi nei quali stazionavano guarnigioni di soldati, a fare da argine alle scorrerie di quelli che chiamavano sardi pelliti, nelle pianure coltivate dai contadini assoggettati.
Il sistema stradale che costruirono nell’Isola era certamente funzionale al più efficiente presidio militare nel territorio per meglio difenderlo dai nemici interni ed esterni e per consentire alle legioni di muoversi rapidamente per i loro interventi, ma era utile, per loro naturalmente ma non per i Sardi, anche per agevolare i traffici delle merci e gli scambi commerciali, oltre che per connettere i vari centri abitati tra loro, diversi dei quali presero proprio il nome delle colonne miliarie romane, come gli odierni centri di Sestu, Quartu, Settimo, Decimo.
La merce principale da trasportare è il grano: se nei produce tanto , (per 250.000 persone) : serve anche (o soprattutto) per gli eserciti e la plebe romana. Quella, panto per intenderci, cui distribuire e dare “Panem et ciscenses”, per addomesticarla e cloroformizzsarla, per impedirle di ribellarsi.
Con il grano sardo infatti si riempiranno tutti i granai dell’Urbe e per contenerlo se ne costruiranno altri nuovi: specie nel Campidano e nel meridione dell’Isola.
Ma l’impresa più grande e di cui si vanteranno a Roma, sarà lo sterminio dei Sardi. Un vero e proprio etnocidio o, se volete, genocidio.