CUN SU BILINGUISMU SI CRESCHET MEZUS

CUN SU BILINGUISMU SI CRESCHET MEZUS

di Francesco Casula

Parlare in limba, ecco perché il Bilinguismo aiuta a crescere
Per decenni ci siamo sentiti dire da insegnanti e genitori:”Non parlare in dialetto”!
Oggi di meno, anche se il pregiudizio che parlare il Sardo sia un limite e un disvalore oltre che un ostacolo e un impedimento per l’apprendimento, permane ancora. In realtà la scienza – con pedagogisti, linguisti e glottologi, psicologi psicoanalisti e perfino psichiatri – ritiene che la presenza della lingua materna e della cultura locale, ad iniziare dal curriculum scolastico, si configurino non come un fatto increscioso da correggere, ma come elementi indispensabili di arricchimento, che non “disturbano” anzi favoriscono l’apprendimento e le capacità comunicative degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. Del resto persino i programmi scolastici, sia pure in misura ancora troppo timida e relativi solo alla scuola elementare, raccomandano di portare l’attenzione degli alunni “sull’uomo e la società umana nel tempo e nello spazio, nel passato e nel presente, per creare interesse intorno all’ambiente di vita del bambino, per accrescere in lui il senso di appartenenza alla comunità e alla propria terra”.
“E’ compito della scuola elementare – si afferma ancora – stimolare e sviluppare nei fanciulli il passaggio dalla cultura vissuta e assorbita direttamente dall’ambiente di vita, alla cultura come ricostruzione intellettuale”. Ciò significa –per quanto attiene per esempio al Sardo – partire da esso per pervenire all’uso della lingua italiana e delle altre lingue, senza drammatiche lacerazioni con la coscienza etnica del contesto culturale vissuto, in un continuo e armonico arricchimento dell’intelletto, per aprire nuovi e più ampi orizzonti alla formazione e all’istruzione. La pedagogia moderna più avveduta infatti ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta sono la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” culturalmente e linguisticamente. A confermarlo autorevolmente, è Antonella Sorace, docente di Linguistica Acquisizionale all’Università di Edimburgo,intervenuta recentemente a un Convegno a Cagliari, su iniziativa del Servizio Lingua e cultura sarda della Regione, sotto il nome di “Bilinguismu Creschet”.
Secondo la studiosa, non solo gli studi dell’Università in cui insegna, ma anche le ricerche di altri centri dimostrano che il bilinguismo modifica il cervello in modo significativo, rendendolo più flessibile: crescere un bambino “esponendolo” a due lingue è un investimento per tutta la società. Non è vero che crescerà confuso, né che l’impegno di passare da una lingua all’altra può ritardare lo sviluppo cognitivo o possa andare a scapito del rendimento scolastico nella lingua maggioritaria. E’ vero il contrario.

Carlo Felice e i tiranni sabaudi: la Sardegna degli uomini con meno diritti degli altri

‘Carlo Felice e i tiranni sabaudi’, la Sardegna degli uomini con meno diritti degli altri

di Enrico Lobina

È già alla terza edizione il libro di Francesco Casula, Carlo Felice e i tiranni sabaudi: una casa editrice coraggiosa (Grafica del Parteolla edizioni) e uno studioso che ha dedicato la sua esistenza alla divulgazione e all’approfondimento di temi che i media e le istituzioni, guarda un po’, tengono nascosti. L’aspetto che rende il libro agile, di facile lettura e in alcune parti avvincente è che Casula fa parlare gli storici e i protagonisti di allora.
Il libro di Casula risponde a una domanda semplice: dopo che i Savoia ricevettero, controvoglia, la Sardegna nel 1720, e divennero re, come si comportarono verso quella importante parte del loro regno? La risposta al quesito è semplice, lineare, durissima: la Sardegna venne trattata come un territorio altro rispetto al Piemonte, abitato da uomini che avevano meno diritti rispetto agli altri, culturalmente e socialmente inferiori, i quali dovevano essere trattati in modo tale da mantenere questa inferiorità. Questo pensavano i tiranni sabaudi, e le loro modalità di governo, o meglio di spoliazione, sono la diretta conseguenza della visione ideologica appena tratteggiata.
Girolamo Sotgiu, probabilmente il più grande storico del periodo sabaudo in Sardegna, pur essendo un oppositore della “diversità” dei sardi rispetto agli italiani, non poté non constatare il carattere coloniale dei rapporti tra Piemonte e Sardegna. Di quei rapporti non sono colpevoli coloro che allora abitavano il Piemonte (per carità) bensì i governanti, cioè i Savoia e, successivamente, gran parte della classe dirigente post-1861.
Nel 2011, durante le celebrazioni del 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia, si è persa l’occasione di riflettere criticamente sul Paese e sul processo di “unificazione”. Però si può sempre (ri)cominciare, anche in assenza di una ricorrenza. Se un turista, un italiano o uno straniero, viene in Sardegna, scoprirà che la strada più importante, la SS131, è la “Carlo Felice”. Carlo Felice, detto anche “Carlo feroce” è stato uno dei peggiori, più sanguinari e pigri vice-re di Sardegna.
Un amico studioso ama ripetere che è come se gli israeliani, nel 2200 dedicassero la loro strada più importante a un nazista, magari a Hitler in persona. Certo, questo sarebbe potuto succedere se i nazisti avessero vinto. Dato però che non è giusto che la storia la facciano i vincitori, le persone dotate di senno o almeno di amor proprio che abitano in Sardegna, perché non mettono mai in discussione la memoria che si reifica nei nomi delle strade e delle vie di Sardegna?
A Cagliari, nella piazza più frequentata, svetta la statua di Carlo Felice. Più di sei anni fa proposi, per molti provocatoriamente, di sostituirlo con Giovanni Maria Angioy, il quale “fu il capo […] del movimento anti-feudale sardo. Angioy fece proprie le rivendicazioni delle popolazioni della campagna vessate dai feudatari, e propugnò l’eliminazione delle arcaiche strutture di potere”. Da tempo, un movimento di opinione, che ha presentato anche una petizione, chiede che la statua venga spostata.
In questa fase storica, di disfacimento di un progetto politico (l’Italia), ragionare sulla sua storia secolare e i suoi governanti, ragionare sul suo carattere plurinazionale (l’Italia è insieme alla Francia uno dei paesi europei a non aver ratificato la Carta Europea delle Lingua Minoritarie), fa sicuramente bene ai popoli in cerca di una libertà che Roma non ha fornito, ma anche a Roma stessa.
Il libro di Francesco Casula, che rifiuta ogni razzismo anti-italiano, è un valido contributo per riscrivere veramente la storia, andando contro i tanti tradimenti dei presunti chierici.
5 aprile 2017 Il Fatto Quotidiano

Le pale eoliche: si pigant su ranu e a nois lssant sa palla

Le pale eoliche: issos si pigant su ranu e a nois lassant sa palla.

di Francesco Casula

Furat chie benit dae su mare.
E’ una costante storica: chi viene dal mare per occupare e conquistare la nostra Isola mostra il suo istinto predatorio.

Iniziarono a occupare il nostro mare. Precludendoci il commercio e i viaggi. Rinchiudendoci e isolandoci.
Poi occuparono le nostre terre. E con esse si impadronirono delle nostre miniere. Ci rubarono i nostri prodotti, per alimentare gli eserciti romani e le loro conquiste: il nostro grano, pelli e lana, carne e formaggi.
Iniziarono a radere al suolo le nostre foreste. Progressivamente. Fino alla soluzione finale con i tiranni sabaudi. Per le ferrovie e le industrie del Nord.
Ed oggi ci depredano persino il sole e il vento.

Contemporaneamente ci privarono della nostra lingua, della nostra cultura e della nostra identità comunitaria come canta in “Su patriota sardu a sos feudatarios” Francesco Ignazio Mannu.: Issos nos hana leadu/Dae sos archivios furadu/Nos hana sas mezzus pezzas/
Et che iscritturas bezzas/Las hana fattas brujare.
Perché, parafrasando quanto sostiene Gaspare Barbiellini Amidei in un suggestivo saggio, “Il Minusvalore”: gli uomini ricchi – ed io aggiungo i popoli ricchi e dominatori – rubano da sempre agli uomini poveri, – ed io aggiungo ai popoli poveri – la loro fatica, pagandola con un salario che è soltanto una parte dei loro prodotti. Il resto, plus valore, va ad accumulare altra ricchezza. Ma gli uomini – e i popoli – ricchi rubano agli uomini e ai popoli poveri anche la memoria, la lingua, la cultura, la bontà.
La vicenda delle Pale eoliche ha più di un’analogia con l’industrializzazione, segnatamente quella petrolchimica, imposta dallo Stato con la complicità e, talvolta persino consenso aperto, delle classi dirigenti sarde: come quella, anzi più di quella viene imposta dall’altro, senza il coinvolgimento né consenso delle popolazioni: anzi, spesso contro la loro volontà.
L’industrializzazione – peraltro clamorosamente fallita, anche rispetto ai fini principali che diceva di proporsi: l’occupazione – significò devastazione e inquinamento del territorio. E con esso esportazione dei semilavorati nel Nord per produrre là ricchezza profitti e lavoro, con le seconde e terze lavorazioni e la chimica fine: proseguendo con quel meccanismo coloniale dello scambio ineguale. Con cui la Sardegna continua a esportare nel Nord materie prime e semilavorati, pagati pochissimo, mentre continua a importare dallo stesso Nord prodotti finiti pagati moltissimo. Di qui il nostro impoverimento progressivo, da una parte e dall’altra l’arricchimento ulteriore dello stesso Nord. Aumentando il divario e la forbice nello sviluppo.
In maniera , per così dire per molti versi analoga, succede con le Pale: alla Sardegna rimane sa palla e issos si pigant su ranu. Calchi sisinu, pocos soddos alle popolazioni che ospitano i mostri di ferro e profitti milionari agli speculatori. Alla Sardegna fra 20/30 anni tonnellate di ferro arrugginito da smaltire e al Nord energia bella, pronta e pulita. Perché occorre ribadirlo l’energia prodotta dal vento (e dal sole) sardo non è per noi ma per loro. Come i semilavorati della chimica. Per creare, ancora una volta, la loro ricchezza. Alle nostre spalle.
Basta!

MA I NURAGICI CONOSCEVANO LA SCRITTURA?

MA I NURAGICI CONOSCEVANO LA SCRITTURA?

di Francesco Casula

Nei testi scolastici ufficiali continuiamo a leggere che “l’uso della scrittura fu introdotto dai Fenici”: esattamente come sostiene l’archeologo Donald B. Harden. Da non pochi anni però alcuni studiosi sardi hanno iniziato a mettere in discussione la storiografia ufficiale affermando che la scrittura in Sardegna era nota molti secoli prima: la conoscevano infatti e l’utilizzavano i cosiddetti “Nuragici”, gli scribi sacerdoti dell’età del bronzo finale e del ferro. A sostenerlo è soprattutto lo studioso oristanese Gigi Sanna (1) che si occupa con una rigorosa e ormai trentennale ricerca, dell’interpretazione di antichissimi documenti di scrittura in metallo, in pietra e in ceramica, rinvenuti in Sardegna e non solo. Egli è così arrivato alla conclusione, esposta in libri (in modo particolare in Sardoa Grammata e nel testo di didattica I geroglifici dei Giganti- Introduzione allo studio della scrittura nuragica), e in numerosi articoli e saggi, che i cosiddetti Nuragici conoscessero, leggessero e utilizzassero vari system alfabetici.
“La Stele di Nora – scrive Gigi Sanna – è, insieme alle minuscole ‘tavolette’ rinvenute in un ripostiglio nei pressi del Nuraghe Tzricotu di Cabras (con le quali condivide identici “principii” e modalità di scrittura), un bellissimo documento attestante il ruolo dell’altissima e raffinatissima scuola scribale nuragica della Sardegna (già operante dalla fine del Secondo Millennio a.C.) e non prodotto scrittorio di quella “fenicia”. Lo dimostrano, senza margini di dubbio, le recenti scoperte della scrittura e della stessa lingua nuragica; il rinvenimento del “coccio” nuragico di Orani (con segni alfabetici e contenuto identici a quelli della stele norense; la rilettura di questa in base a stupefacenti scoperte epigrafiche (ad es. i due “shalom” laterali della lastra, individuati dalla dott. Alba Losi dell’Università di Parma) che spingono nella direzione di letture aggiuntive rispetto alla “normale” lettura retrograda; la conferma dell’esistenza di una scrittura “numerica” a rebus, che dà al documento un significato eccezionale nella stessa storia generale della scrittura consonantica; la stupefacente comparsa del nome di un “santo” nuragico (LPHSY > EPHISY), oggi celeberrimo santo cristiano dell’Isola, alla fine della scritta (nome di persona che sostituisce l’improbabile, anche perché rarissimo, nome del dio Pumay).
Il Sanna dunque fa risalire con certezza alla cultura specifica alfabetica dei nuragici la Stele di Nora: lo confermerebbe in modo incontestabile anche il ritrovamento recente di un documento: un ciondolo scritto, di pietra grigio-scura, di forma ellissoidale (cm.7,5×4,3) contenente dei segni di scrittura graffiti in entrambe le facce alcuni dei quali solo apparentemente “fenici” perché scritti con il codice fenicio.
A conferma della presenza della “scrittura nuragica” inoltre, nel corso di un ventennio e più di ricerca, lo studioso oristanese ha proposto, oltre alla suddetta stele, più di trecento documenti, in vario supporto scrittorio scritti in diversi periodi “nuragici”. Oltre alle quattro “tavolette” bronzee (più propriamente “sigilli”: i sigilli dei ‘Giganti’ di Monte ‘e Prama) di Tzricotu di Cabras e ai “cocci di Orani”, ricordiamo il “brassard” di Is Locci – Santus di San Giovanni Suergiu, il sigillo di S. Imbenia di Alghero, lo spillone di Antas di Fluminimaggiore, il coccio del Nuraghe Alvu di Pozzomaggiore, la pietra del Nuraghe Pitzinnu di Abbasanta, il coccio di Su Pranu di Selargius, la pietra di YHW di Aidomaggiore, la fusaiola “nuraghetto” di Su Cungiau de is mongias di Uras, la pietra della capanna di Perdu Pes di Paulilatino, il frammento di “alyl” (crogiolo) del Nuraghe Addanas (Cossoine), la scritta dell’archetto della chiesetta campestre di San Nicola di Trullas di Semestene, la pietra di Jerzu, il ciondolo di Solarussa. Naturalmente ricordiamo anche e soprattutto la barchetta fittile di s’Urbale di Teti, unico documento, per ora, “accettato” dalla scienza accademica in quanto, sottoposto a perizia, è stato giudicato essere stato scritto all’incirca nel IX secolo a.C. E, notizia fondamentale, con i segni graffiti “ante coctionem”.
Tantissimi documenti dunque, tutte belle prove attinenti non solo alla disciplina epigrafica ma anche a quella scientifica storica in quanto “fonti dirette” o di conoscenza primaria. Le prove insperate che servono per far passare la Sardegna dalla preistoria alla storia, anche quella più conosciuta, del Mediterraneo.
“Eppure c’è da scommettere – scriveva specificamente per la stele e scrive ancora Sanna per gli altri documenti – che da parte dei soliti negazionisti e dei cosiddetti feniciomani si cercherà di soffocare il tutto con il più rigoroso silenzio”.
Perché, evidentemente, si tratta di verità “scomode”, che mettono in discussione e il più delle volte inficiano vecchie certezze di accademici e sovrintendenti che su di esse hanno costruito le loro carriere e i loro successi. Ad iniziare dall’inglese Donald Harden.
Nota Bibliografica
1. Gigi Sanna, Sardôa grammata, Ed. S’Alvure, Oristano, 2004

DE HISTORIA LOCI: sulla storia sarda

DE HISTORIA LOCI: sulla storia sarda

di Francesco Casula

Premessa: per più di 70 anni le Istituzioni sarde – ad iniziare da quelle regionale – hanno dormito. Ora almeno uno spezzone pare si sia svegliato: l’Anci (associazione dei Comuni) e “Sardegna verso l’Unesco” hanno predisposto una proposta di legge, già presentata ai capigruppo in Consiglio regionale per la “Promozione dell’insegnamento della storia dell’antica civiltà sarda nelle Scuole della Sardegna”. Gli stessi proponenti (Emiliano Deiana, Presidente dell’Anci Sardegna) precisano però che il disegno di legge sulla storia sarda riguarda non solo quella nuragica ma arriva fino ai nostri giorni. Ha fatto bene a precisarlo: perché i Sardi la loro storia devono studiarla tutta e non a pezzi. L’iniziativa, a parte il colossale ritardo, è comunque meritoria purché si faccia in fretta.
La riflessione che segue vuole sviluppare una serie di valenze che lo studio e l’apprendimento della storia “locale” – e dunque per noi la storia sarda – implicano e comportano, ma soprattutto i riverberi e le conseguenze che producono sulla formazione dei giovani studenti.
La scuola italiana, nonostante qualche timida apertura, da secoli, nei confronti della storia locale nutre e manifesta sospetti, riserve e, spesso, vera e propria insofferenza. Di qui il sostanziale interramento, censura, mistificazione e, persino, vera e propria falsificazione.
Ma non solo la scuola: i Media in genere. A mo’ di esempio ricordo che La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2006 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria, nel quale Nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia – di dominare sull’Isola. Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo.
Al contrario – ma è solo un esempio – della Francia in cui, soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien Febre con la creazione nel 1929 degli Annales e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta ha superato il paradigma storiografico secondo il quale solo la “ Storia generale “ è degna di essere studiata. Superando e rifiutando in tal modo la storia come grande evento militare e rivalutando la storia locale, che si pone come “laboratorio” della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.

a. Valenze identitarie
La Storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà collettiva e individuale, della nostra Identità. Nessun individuo può vivere senza la coscienza e conoscenza della sua identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale e storico.
Un filo ben preciso lega il nostro presente al passato: il filo della nostra identità e diversità, come individui e come collettività-comunità. Se non fossimo diversi non potremmo neppure dialogare, confrontarci, conoscere: noi conosciamo in quanto siamo diversi. Avremmo altrimenti l’hegeliana notte nera in cui tutte le vacche sono nere. La diversità ci salva dalla omologazione- standardizzazione. Sia ben chiaro: la coscienza di essere diversi non esclude la consapevolezza di essere e di vivere dentro un universo più vasto.
La coscienza dell’Identità esiste anche come coscienza collettiva e non solo come coscienza individuale: a livello di famiglia, società, comunità, gruppo. Il legame fra i membri di una comunità sono la lingua, la religione, i valori, i comportamenti che la comunità stessa ha acquisito attraverso i tempi lunghi della storia. Il bisogno di appartenenza, il radicamento, le radici, la memoria storica rappresentano il collante dell’Identità. La biografia personale si intreccia con la biografia collettiva, la storia locale con la storia generale.

b. Valenze conoscitive
Dicevo prima che vi è stato e ancora vi è, nei confronti della storia locale, un atteggiamento di insofferenza e di incomprensione, una tendenza a vedere gerarchie: la storia generale più alta, più dignitosa della storia locale e, dunque, la storia “nazionale” più importante della storia “regionale”. Di qui – per esempio – le diffidenze verso le specificità e identità etniche. La ripulsione è fra l’altro frutto di equivoci e di incomprensioni alimentate in gran parte dall’insegnamento della storia a scuola, risultato di quel paradigma unitarista imposto al momento dell’Unità d’Italia, dalla necessità risorgimentale del d’azegliano fare gli italiani, cucire lo stivale, realizzando di fatto, un’unità artificiosa che prescindeva dalla composita realtà culturale, storica e linguistica. Il paradigma unitarista nasceva inoltre dal mito della generalizzazione e dalla scarsa attenzione al locale, al diverso, al particolare, alla periferia.
Negli anni ‘30 – l’ho a già accennato – con gli Annales degli storici francesi e in modo particolare di Lucien Febre e Marc Bloch prima e Fernand Braudel poi, ovvero alla luce della dissoluzione dell’eurocentrismno storiografico, che metteva al centro l’analisi dei fondamenti materiali della civiltà, si pervenne alla conclusione che nella ricerca storiografica, locale o universale, non fosse possibile individuare gerarchie. Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile, così uno storico italiano come Franco Catalano può scrivere che “la storiografia si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia, per cui la “nuova storia” oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.
La storia insomma è come il maiale nelle tradizionali famiglie agropastorali: quando si ammazza, non si butta niente, serve tutto, dalle orecchie agli occhi. Come non si butta niente di ciò che è opera degli uomini: e la storia è come l’orco delle favole, che corre e va dove sente odore di uomini.
In sintesi, la valenza conoscitiva della storia locale va individuata nella possibilità di interpretare i fenomeni generali:
– Come verifica della ricaduta a livello locale del fenomeno generale (pensiamo per esempio alle conseguenze, a livello sardo, delle politiche economiche e fiscali della Destra e della Sinistra storica o del Fascismo).
– Come individuazione degli effetti che scelte e spinte che provengono dal locale, dal basso, inducono e producono nelle scelte di ordine generale.
– Come modelli di comportamenti locali che vengono generalizzati.

c. Valenze educative
La conoscenza e la coscienza delle nostre radici etno-storiche e linguistico- culturali ci aiutano a superare i conflitti fra le diversità. Essere se stessi, con le proprie caratteristiche peculiari è infatti condizione per dialogare con gli altri, per relazionarci. Senza conoscenza, consapevolezza e sviluppo continuo della propria Identità, della propria e specifica fisionomia vi è solo omologazione, vieppiù oggi con la civiltà dei consumi, con la standardizzazione delle merci e dunque dei gusti, con la globalizzazione che tende a tritare tutto e tutti, potando diversità e peculiarità.
Conoscere e prendere coscienza della nostra peculiarità etno-storica, etno-culturale e etno-linguistica non significa ne può né deve significare esaltazione acritica del nostro passato in termini mitologici e neppure etnocentrismo o peggio chiusura verso l’esterno e/o il diverso.

d. Valenze didattiche
Se riconosciamo alla storia locale una funzione, un ruolo, una valenza altamente formativa ed educativa, occorre inserirla nelle scuole di ogni ordine e grado organicamente, dentro i curricula scolastici, non come appendice, come elemento marginale da ghettizzare nel doposcuola o in contro turno), da raccordare con la storia generale, da studiare parallelamente, per così dire, in modo sinottico e contestuale.
Ma non basta studiarla la storia locale: occorre scriverla o meglio riscriverla, perché, spesso. la storia sarda è stata scritta dagli altri, dai dominatori, dai “Vincitori”, che evidentemente – dai Romani agli Spagnoli, dai Piemontesi agli Italiani – avevano ed hanno, visioni e interessi “altri” – per non dire contrapposti – rispetto ai nostri, di Sardi.
Scriverla partendo dalle condizioni sociali, facendo verifiche sul campo, utilizzando tutte le fonti ad iniziare dai documenti, non solo scritti ma da tutto quell’arcipelago di testimonianze che “parlano” forse più dei papiros e dei documenti degli archivi (paesaggio agrario, resti archeologici, monumenti, nuraghi, pozzi sacri ecc. ecc.)
Senza la ricostruzione degli elementi più significativi della vita della gente comune, la storia continua ad essere storia evenementiel, cioè storia dei re e imperatori, di Papi e di generali. E perciò è sostanzialmente mistificazione e falsificazione.