FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI E LA SETTIMANA SANTA

FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI
E LA SETTIMANA SANTA

di Francesco Casula

La Chiesa cattolica, in occasione della Settimana santa, nei suoi riti (e nelle sue preghiere) attinge a piene mani dall’Opera di Fra Antonio Maia da Esterzili. Senza che mai venga nominato o, semplicemente ricordato. E’ stato infatti sottoposto a una damnatio memoriae vergognosa: non solo da parte della Chiesa ma da parte di tutta la cultura italiana ma anche sarda.
Fra Antonio è il fondatore della sacra rappresentazione in Sardegna (1664-1727) con una grande Opera letteraria che rimase “sepolta” nella Biblioteca universitaria di Cagliari per circa tre secoli (dal 1688 al 1959): e gli studiosi, dunque, per secoli a ripetere la litania secondo la quale la lingua sarda non aveva “prodotto” testi teatrali!
Tutto ciò che sappiamo dell’autore lo ricaviamo da una annotazione contenuta nel registro dei frati Cappuccini della Provincia di Cagliari, conservato presso l’Archivio della Curia provinciale dei Cappuccini di Cagliari (vol. II, 1695-1802). Da essa risulta che era presente nel Convento di Sanluri (Cagliari) nel Novembre del 1668 e che morì all’età di 82 anni, il 26 Aprile 1727, dopo averne trascorso 57 di vita religiosa.
Dobbiamo dunque dedurre che nasce nel 1644 e a Esterzili, sulla base della consuetudine vigente soprattutto negli ordini religiosi, secondo i quali quando si entrava in una Congregazione, i novizi abbandonavano il nome secolare e se ne assumevano un altro di devozione, in onore di qualche santo, seguito generalmente dal nome del paese di origine, in questo caso appunto Esterzili.
Da alcuni accenni nelle cronache dell’Ordine dei Cappuccini si desume inoltre che trascorse un periodo della sua vita a Iglesias e che certamente visse anche a Cagliari. Non è improbabile tuttavia – scrive Sergio Bullegas uno dei massimi studiosi di Fra Antonio – che sia stata fatta sparire di proposito ogni traccia del suo cognome secolare e della sua biografia a causa di alcuni fatti imprecisati e incresciosi in cui fu coinvolto. Si parla infatti – nel Registro dei Cappuccini cui si è già fatto cenno – che egli si rese colpevole di un crimine turpissimo (probabilmente ebbe un rapporto sessuale con un fraticello).
Di qui la dimenticanza, per secoli, dell’Autore e delle sue opere. Solo nel secolo XIX si inizierà a parlare di lui, grazie a Giovanni Siotto Pintor, storico e letterato sardo, che ne scriverà nella sua Storia letteraria di Sardegna (vol. IV), ma tratto in inganno dal frontespizio del manoscritto, cadde in un grossolano errore affermando che si trattava di opere in spagnolo.
Nel frontespizio in alto del manoscritto – che si trova attualmente presso la Biblioteca universitaria di Cagliari – è infatti scritto in castigliano, con grossi caratteri: “Libro de Comedias escripto por Fray Antonio Maria de Estercyly sacerdote capuchino en Sellury 9bre a 18 año 1688” (Libro di Commedie scritto da Fra Antonio Maria di Esterzili, sacerdote cappuccino in Sanluri il 18 Novembre 1668).
In realtà le sue “Comedias” (Commedie, drammi) contenute nel manoscritto sono scritte in una bella lingua sarda-campidanese con le didascalie in castigliano, la lingua dominante e ufficiale dell’epoca, in Sardegna.
Il manoscritto che conserviamo contiene: La Natività, La Passione, La Deposizione, più 550 versi, prevalentemente ottonari ed endecassillabi, strutturati in quartine e ottave, intitolati Versos que se rapresentan el Dia de la Resurrection (Versi che rappresentano il giorno della Resurrezione). Vi è inoltre un frammento, costituito dal Prologo e dall’incipit del primo atto di un’altra rappresentazione intitolata Comedia grande sobre la Assumption de la virgen Maria señora nuestra als çielos (Grande commedia sull’Assunzione di Maria vergine nostra Signora nei cieli).
A questo punto il manoscritto si interrompe – quasi fosse stato smembrato – e seguono Excomunicationes in diae coenae Domini, (Scomuniche nel giorno della cena del Signore) un compendio di disposizioni ecclesiastiche e canoniche, aggiunte probabilmente durante la rilegatura ottenuta con l’uso della pergamena.
Di tutte le opere di Fra Antonio Maria, contenute nel manoscritto, è stata edita solo la Passione, nel 1959.

DEMITIZZARE CICERONE I sardi per lui sono “negri”.

 
 
 
Francesco Casula
DEMITIZZARE CICERONE I sardi per lui sono “negri”.
di Francesco Casula
Cicerone è il personaggio della “romanità” più osannato ed esaltato. Non solo come abbagliante oratore ma come espressione di saggezza e maestro di umanità. Persino oggi in un corsivo dell’Unione sarda, di certo Tacitus, c’è un elogio immane. Occorrerebbe invece iniziare a fargli le pulci: come uomo intendo. Ricordando, fra l’altro, la sua fine ignominiosa, di cui nei testi scolastici, non c’è traccia. Per intanto Cicerone è lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, etichettata tout court “Mala Insula”, di cui parla soprattutto in Pro M. Aemilio Scauro oratio. L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. I capi d’accusa (indicati in forma sintetica da Marziano Capella, grammatico romano del 5° secolo dopo Cristo) riguardano: de Bostaris nece, de Arinis uxore et de decimis tribus: è cioè accusato di tre crimini: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: poi le malversazioni del governatore e cioè il crimen frumentarium, l’esazione illecita di una terza decima; il governatore di una provincia non poteva infatti istituire nuovi tributi, né aggravare le imposte precedenti. Scauro venne dunque accusato in virtù della lex Iulia de pecuniis repetundis del 59 a.C. e probabilmente della lex Cornelia de veneficiis, sicariis, parricidiis dell’81 a. C. “I due reati, veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo – sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi – non erano tali da preoccupare un avvocato dell’ abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo”(1). Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali il celebre Quinto Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni laudatores a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato. Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro. Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento (crimen frumentarium), non ci sia pervenuta. Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes). Ma c è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l accusa più grave e insultante, oggi diremmo razzistica: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente nemmeno all’origine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?) Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai Fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere. A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d accordo con il suo compare Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Si tratta, di artificio oratorio o ignoranza? Probabilmente dell’uno e della altra insieme. Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua origine. Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i 4 giudici che lo mandarono assolto. Ma uno degli accusatori, Publio Valerio Triario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone, E pochi anni dopo, come ricorda il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, “Cicerone venne decapitato dal centurione di Marc Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la moglie del potente triumviro romano, la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato”(2). Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri. Difficile dare torto a Vivanet. Note bibliografiche 1. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, 1971, Milano, pagina 241. 2..Aldo Puddu,Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda,Chimbe iscenas chin Isterrida e Tancada – 5 Atti bilingui, con prologo e Epilogo, Editziones de Sardigna, Nuoro, 2002, pagina 323

MARACALAGONIS: continua la colonizzazione energetica. ISSOs SI PIGANT SU RANU E A NOIS LASSANT SA PALLLA

MARACALAGONIS: continua la colonizzazione energetica. ISSOs SI PIGANT SU RANU E A NOIS LASSANT SA PALLLA
di Francesco Casula

Altre quattordici pale eoliche alte 220 metri. Un ulteriore, un ennesimo assalto al vento sardo: questa volta a Baccu Mandara, una zona, alle pendici del massiccio dei Sette Fratelli, ad alto valore naturalistico e turistico. Peraltro con vincoli paesaggistici. Un progetto coloniale che stava passando sotto silenzio, con l’Amministrazione comunale di Maracalagonis (sul cui territorio ricadrebbe il mostruoso Parco) neppure informata. Di qui le proteste, il dissenso e l’opposizione decisa della battagliera sindaca Francesca Fadda che parla di progetto inaccettabile inquietante speculatore distruttivo. Non dunque “un progetto di transizione ecologica ma di vera e propria speculazione energetica”. Insomma si ripete e si replica il vecchio schema e paradigma del colonialismo italico: ieri l’Isola come base si servizio per industrie nere e inquinanti e oggi come hub per produrre energia per l’Italia: la Sardegna infatti produce più del 40% del suo fabbisogno. Ma non basta: i profitti andranno alle aziende e alle multinazionali che impiantano le Pale. E ai sardi? Una misera elemosina, l’abbruttimento del paesaggio e fra 30 anni, pali di ferrovecchio arrugginito da smaltire: insomma issos si pigant su ranu e a noi lassant sa palla, come i baroni savoiardi. E l’Autonomia? Calpestata, violata. Come sempre. E la Regione sarda? Che aspetta ad opporsi?

 
 
 
 
 
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Sa chida santa e le feste pasquali fra sacro e profano

Sa chida santa e le feste pasquali fra sacro e profano

di Francesco Casula

Il connubio e l’ibridazione fra sacro e profano è presente in tutta la cultura popolare sarda come nelle tradizioni e le Feste: che sono nello stesso tempo religiose e profane. Alcuni studiosi fanno risalire alcune feste popolari e religiose addirittura al periodo prenuragico o comunque a quello nuragico in cui le comunità sarde periodicamente si ritrovavano e si riunivano nei “santuari” di allora: a Santa Cristina di Paulilatino come a Santa Vittoria di Serri.
L’intelligenza e la flessibilità della Chiesa cattolica è stata nel sopprimere ma nello stesso tempo di recuperare e mediare quel senso di segno magico-pagano e profano, quell’universo mitico di estrazione folclorico-rurale, proveniente da antichissime abitudini precristiane, mai completamente sradicate, nell’ambito sacro del Cristianesimo e delle sue feste. tanto che oggi non esiste scadenza liturgica importante che non presenti innesti di tipo pagano-profano, che la Chiesa comunque renderà compatibili con la simbologia cristiana, riplasmandoli in questo modo dal Natale alla Pasqua, dalla Quaresima alla Festa dei morti, dalla festa di San Giovanni a quella di Sant’Efisio.
Così un’ampia gamma di soluzioni sincretistiche punteggerà in modo discreto ma persistente lo sviluppo dell’intero anno liturgico, per non parlare della loro presenza nel ciclo esistenziale di ciascun individuo: dalla culla alla bara.
Dicevo della Pasqua (in sardo sa Pasca manna per distinguerla dae sa Paschixedda). Ebbene nelle Feste pasquali, nella settimana santa, nel ricordo rituale e drammatizzato della Passione di Cristo, l’elemento sacro e religioso si coniuga e si unisce a quello profano, riferibile al cosiddetto ciclo dell’anno e a rituali magico propiziatori legati, soprattutto in ambito rurale, alla rigenerazione primaverile della natura. Cosicché nell’elemento che accomuna la liturgia ufficiale della Chiesa e gli usi locali, le cosiddette paraliturgie, vi è la consapevolezza di vivere in quei giorni, una fase di passaggio e di rinnovamento interiore, di transito da una condizione di negatività a una, auspicata e propiziata, di benessere e prosperità di nuova vita.
Abbiamo così due tipologie di rituali: quelli propriamente liturgici, con i riti del sacro oggetto della liturgia di Santa romana chiesa (fino a non molto tempo fa celebrati in latino) e quelli paraliturgici, in genere tramandati dalle Confraternite, dalla gente comune che spesso riprendono e riadattano a uso del popolo, i cerimoniali ufficiali, altre volte si sovrappongono ad essi introducendo, sincreticamente, usi e credenze di origine precristiana. Due tipologie di rituali insomma che a volte convergono a volte sembrano configgere fra loro e, per questo motivo hanno subito talvolta nel corso dei secoli e persino oggi, l’ostracismo e l’opposizione delle autorità ecclesiastiche.
Persino oggi il rapporto fra parroci e sodalizi confraternali, vere e proprie macchine collaudate per trasmettere le paraliturgie, non sempre è stato o tuttora è idilliaco: ma a scontrarsi più che il sacro con il profano spesso è la tradizione sostenuta dalle comunità locali dei credenti con la linea ufficiale della Chiesa. Finché i due binari quello dell’ufficialità e quello della località scorrono paralleli e in rapporto di buon vicinato, non si verifica alcun problema. Le difficoltà emergono invece quando vi sono dei reali o presunti sconfinamenti di campo.
Persino nelle cronache giornalistiche assistiamo a contrasti cuntierras e brias fra Parroci, Confraternite e Pro Loco.