Raimondo Manelli

 

Ricordando Raimondo Manelli, il valente poeta gavoese cantore dei vassallos.

di Francesco Casula

Ricorreva l’8 settembre scorso il centenario della nascita di Raimondo Manelli, valente poeta,cantore dell’Isola “conchiglia” e del  riscatto sociale dei poveri e dei vassallos. A quanto mi consta, nessun ricordo. La data è sfuggita pure a me. Con questa nota voglio in qualche modo “riparare”.

 Manelli nasce a Gavoi (Nu) l’8 settembre 1916. Si laurea in materie letterarie a Cagliari nel 1940. Nel 1943, torna a Gavoi come sfollato antifascista sotto il governo Badoglio. Nel dopoguerra svolge un’attività politica prima a Gavoi e poi a Cagliari, al fianco di Sebastiano Dessanay: di queste battaglie epiche, dalla parte dei contadini e dei pastori, c’è un riflesso immediato nelle sue poesie, che per la maggior parte hanno per tema la Sardegna, ma soprattutto Gavoi, il suo paese natale, raffigurato in tutti i suoi aspetti: le dure condizioni di vita, i personaggi caratteristici, l’impatto con la modernità. In una delle sue poesie più felici dal titolo Gavoi 1958, si legge: Ora le ultime bettole si chiamano bar;/ i maestri del ferro sono meccanici;/ l’ultimo fabbricante di speroni/ è morto bruciato dall’alcool;/ e la domenica non si odono più/ gli accordi vocali del “bomborobò”./ È giunta la televisione/ coi ministri e le prime pietre,/ con le annunciatrici che sorridono sempre.

Dedicherà tutta la sua vita all’insegnamento e alla scuola (sarà maestro elementare prima di diventare professore e poi preside) e alla sua passione per la poesia. Scriverà ininterrottamente dall’adolescenza fino alla tarda età. Muore a Cagliari il 5 Maggio del 2006.

Una delle sue poesie che mi ha sempre colpito è Mia madre popolana, contenuta nella silloge La strada dei poveri del 1947, la seconda raccolta di poesie di Manelli, dopo Filo d’acqua del 1939. In essa l’Autore, cristiano e comunista, canta e sta dalla parte di un’umanità povera e dolente, che attende da tempo immemorabile, nella terra dei pastori e dei braccianti, un riscatto e una liberazione dalle prepotenze dei prinzipales e dei sennores. Non solo. Il poeta estraneo alla giungla imperante/di faccendieri e commedianti, confessa d’aver diffuso tra la buona gente/dottrine incendiarie/che mettevano in forse l’antica virtù dei notabili,/l’onestà dei mercanti//che lungo le strade maestre/ostentano le case a molti piani.

In Mia madre popolana ricorda con smisurato affetto e forte commozione la mamma, pensando anche alla umanissima vicenda che essa ha vissuto. Quella mamma  incerta nel leggere e nello scrivere che ha appreso nella scuola serale. Quella mamma religiosissima, che recita a gran voce il Miserere a fronte di un improvviso temporale.

Che pur fatta curva dagli stenti/ e dalle notti insonni, continua a lavorare  stoiando seggiole, ovvero confezionando sedie con le stuoie, in quel tempo largamente usate, della povera gente di Gavoi e della Barbagia, ma non solo.

La madre che ormai ridotta a una lampada presso alla fine dell’olio, leggeva negli anni futuri. E il figlio-poeta che si avvide che Dio si rivela ai più buoni. Ovvero a quelli come la madre. Ai poveri e  – evangelicamente – agli ultimi.

L’amore immenso del poeta per i genitori ma in particolare per la mamma non è presente solo in questa lirica, ne attraversa molte altre e comunque ricorre spessissimo nei suoi versi. E insieme agli affetti a ai sentimenti amicali è prepotentemente presente nella sua poesia l’amore per la sua gente.

Anzi sono le redici stesse della sua poesia   – è il poeta stesso a ricordarlo in un suo scritto –  che affondano sostanzialmente nella terra sarda e più particolarmente nelle vicende e nel destino dei contadini e dei pastori del suo paese.

Ovvero nella dolorosa realtà della sua terra, la Sardegna, impronta di piede contadino, che si va gradualmente trasformando dietro l’incalzare del progresso scientifico e tecnico. E anche quando la tematica si allarga via via per comprendere i problemi e le ansie del più vasto mondo contemporaneo, del gramsciano  mondo grande e terribile, il sapore delle immagini e le predilezioni culturali e sociali dell’autore saranno sempre

coerenti con l’autenticità delle proprie origini e delle proprie radici della sua piccola patria sarda. Infatti, L’isola è una conchiglia/e vi respira il mare/con le voci del mondo. Ferma restando nella sua poetica – scrive Alberto Frattini, suo critico e grande estimatore –  l’istanza di comunicare, di farsi intendere dagli altri e non solo dai professionisti della Letteratura.

Si inserisce su questo crinale proprio Mia madre popolana, la sua poesia più famosa e dal poeta stesso la più amata, degna comunque di essere inserita a mio parere, nelle Antologie. Il componimento piacque talmente al linguista Georges Mounin che lo tradusse in francese, ritrovando in esso una libertà e una scioltezza nel parlare delle così dette cose trite e prosaiche. Con un libero verseggiare e con un lessico realistico, piano e comune, senza sperimentalismi né contorsioni intellettualistiche, in cui la testimonianza di affetto e di amore per la madre trae forza dalla sobrietà e dall’incisività delle strutture e dei registri espressivi.

Oltre alla poesia dedicata alla madre voglio ricordare (e riportare) due belle poesie “storiche”:

-LA PASSERELLA:L’Isola fu, nel Mar Mediterraneo,/la passerella dei conquistatori:/ogni ribaldo che venne da fuori /ottenne almeno un feudo temporaneo./Oggi, ancora, se un invadente estraneo/aspira a conquistarsi nuovi allori,/verrà scelto dai nostri reggitori/innanzi a ogni aspirante conterraneo./Vige il mito dell’ospitalità/col motto:”Il miglior letto al forestiero!/Per ogni familiare c’è una stuoia”./E fummo generosi coi Savoia,/ offrimmo le miniere allo straniero,/riservandoci invidie e crudeltà.

-IL TURNO DEI PADRONI: Cartagine ci indusse a fare a meno dei frutteti;/ ci disse: E’ meglio il grano./E quando giunse il milite romano/ci tolse il grano e ci concesse il fieno./Di bene in meglio, qualche saraceno/visitava le coste e, a mano a mano,/portava nei mercati del sultano/uomini e donne del nostro terreno./Ma in nostro aiuto vennero i Pisani/in gara coi mercanti genovesi/ e sorsero conventi da ogni parte./Allora il Papa mescolò le carte:/invitò Aragonesi e Catalani /e restammo infeudati e vilipesi.

 

Raimondo Manelliultima modifica: 2016-09-17T10:28:49+02:00da zicu1
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