LA SARDEGNA NELL’ULTIMO LIBRO DI PINO APRILE:”Terroni ‘ndernescional”, a cura di Francesco Casula.

Pino Aprile, giornalista (è stato vicedirettore di “Oggi” e direttore di “Gente”) e scrittore (ricordo alcuni suoi libri di successo: “Terroni”, “Giù al Sud”, “Mai più Terroni”, “Il Sud puzza”) in questi giorni ha pubblicato l’ultimo suo saggio storiografico in cui la Sardegna è abbondantemente presente:

TERRONI ‘NDERNESCIONAL(Piemme Edizioni, Milano 2014)

Ecco la gran parte di un capitolo

YESTERDAY

[…] Tutto questo radicalizza le posizioni. E chi recupera la storia negata (ma non perduta) viene accusato di “nostalgia borbonica”, così come di “Ostalgia” i tedeschi dell’Est. Intendendo, con questo, che chi rimpiange quei tempi, li vorrebbe riproporre oggi. Naturalmente, non è vero, anche se lo trovi sempre qualcuno che rivedrebbe volentieri i Borbone alla guida del Regno delle Due Sicilie, Cecco Beppe a governare le Tre Venezie, il muro a dividere di nuovo Berlino, Eleonora d’Arborea a governare la Sardegna con leggi della Carta de Logu, del 1392 (che rimase in vigore più di quattro secoli e che i sardi ritengono la prima vera carta dei diritti del popolo, perché la precedente Magna Charta inglese del 1215 si occupava più dei potenti, ecclesiastici e no, che della gente; mentre la Carta de Logu fa il contrario, e con visione molto moderna, persino femminista, in alcuni casi: la violenza sessuale era duramente punita e lo stupratore condannato anche a sposare la donna aggredita, ma solo “se piace alla donna”. Ove fosse rifiutato, doveva “farla accasare munendola di una dote, secondo la condizione sociale della donna violentata e il rango sociale dell’uomo violentatore”. Immaginate un don Rodrigo che approfitta di una popolana…).

Quella nostalgia è importante! Va capita e compresa, perché segnala il valore di una perdita che non è stata compensata da quel che doveva sostituirla, in meglio. È una promessa tradita. Insomma, ti manca il passato che era, o anche solo ti sembrava, migliore del presente. Proprio il professor Francesco Casula, nella sua monumentale opera sulla letteratura sarda, rammenta che “la nostalgia, a dispetto dei politici “realisti” -come diceva Borges- è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese”. Può avvenire che quel passato venga aggiustato nel ricordo e dal ricordo (la memoria salva il nostro equilibrio psichico, dimenticando i dolori più grandi: per questo le donne non si fermano tutte al primo figlio), ma la ragione del fenomeno rimane: cerchi rifugio in un’altra epoca, quando quella in cui vivi ti esclude: un modo per fuggirne. Soprattutto, se nel raffronto fra ieri e oggi, l’oggi perde; in più, se di quel passato ti è stato mostrato soltanto il male, mentre il bene ti è stato nascosto o diminuito, persino dileggiato e ridotto a motivo per denigrarti, sottrarti diritti, renderti “meno”, rispetto ad altri, allora recuperare quel che è stato diviene il modo per ritrovare la dignità e l’orgoglio amputati e pretendere la parità di trattamento e il rispetto che ti negano. Se nel passaggio da ieri a oggi ci siamo persi qualcosa, o ce l’ha rubato chi ha voluto traghettarci qui, magari a mano armata, è nel passato che dobbiamo cercarla, per rifarla nostra. Insomma: per quanto male o bene stessero i tedeschi orientali nella Germania Est, i sudditi dei Borbone nel Regno delle Due Sicilie, i sardi prima della conquista iberica e poi piemontese, non erano i meridionali, gli “ossiess” (orientali), i serbidoris di nessuno; fossero pure stati “poco”, a confronto con altri Paesi (ma erano avanti a molti che oggi li hanno superati), non erano “meno” in casa loro. Infatti: se “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo” ha resistito, è in virtù di quella che Giovanni Lilliu, il più grande archeologo sardo, chiama “la costante resistenziale”, ovvero, la forza e la coscienza di essere “nazione”. Tant’è che mentre “non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…”, sostiene il professor Francesco Casula, è possibile fare una storia delle letterature sarda e siciliana come “Letterature nazionali”. Parliamo di valori che possono a lungo affievolirsi, sino a diventare poco più di sussurri nell’anima, ma non muti. E quando magari non te l’aspetti, ti riportano qualcosa di tuo (a proposito: per “letteratura campana” si intende regionale, essendo di grande rilievo quella “napolitana”, che si riferisce a una lingua e a una cultura non cittadina, ma ultraregionale).

La frattura, così, si allarga, fra chi non vuol perdere il vantaggio che pensa di meritare (mentendo su come l’ha raggiunto, o ignorandolo, perché lo si tace: ricordate?, sino al 2050, non saranno accessibili i documenti più imbarazzanti su come è stata fatta la riunificazione tedesca; e di quelli risorgimentali nostri meglio non parlare) e chi non accetta più di essere un tedesco “ma” dell’Est, italiano “ma” del Sud; dove il “ma” è un diminutivo; del regno Sardo, “ma” sardo (!). E accade ben altro, con il dilagare di pubblicistica e movimenti di revisione culturale, a volte con progetti politici: si è voluta operare una distinzione fra “i meridionalisti cattivi” e quelli “buoni” (che non protestano se il governo ruba i soldi delle scuole del Sud e li porta al Nord; se cancella gli autori meridionali dai libri del liceo; se condanna a morte le università dei terroni o un ministro chiama i napoletani “topi da derattizzare”… Mai. Si inalberano solo se altri meridionali lo fanno notare e non dicono che, se questo accade, è “Tutta colpa del Sud”, come gridava a tutta pagina l’edizione del Mezzogiorno del Corriere della sera, citando il libro di un “nativo” che lo “dimostrava”).

Chi tiene altri in stato di subordinazione, ha bisogno di una classe intermedia locale (politica, culturale, imprenditrice) che funga da cuscinetto. E sono proprio queste truppe cammellate, non la Lega Nord, a partorire continuamente nuovi termini che accoppiano l’idea di “negativo” a quella di “Sud”. Per distinguere i meridionalisti acquiescenti da quelli no, quindi sbagliati, li hanno chiamati “neomeridionalisti” (brutta gente, neh?); non bastando, visto che aumentano di numero e pretese, per degradarli ancora di più, sono passati a: “sudisti” (bruttissima gente!); e quando un sudista esagera, diviene addirittura “neoborbonico” (per favore, siamo in fascia protetta, non fate leggere la parola i bambini: il trauma potrebbe bloccarne lo sviluppo. L’umanità ne uscirebbe impoverita per la perdita di un Trota o di un genio che ci spieghi perché è “Tutta colpa del Sud”. E la massoneria potrebbe non perdonarci, i posteri nemmeno).

Così, proprio alcuni meridionali, per far sapere (a chi?) che loro sono evoluti, non come gli altri, moltiplicano le parole che diventano dispregiative perché contengono l’idea di Sud (ai settentrionali basta “terroni”). Domanda: come mai non esiste qualcosa di analogo per il Nord? Forse perché non c’è nulla di sbagliato, sporco, disonesto, deteriore, lì? (Non so rispondere; proverò a fare qualche telefonata alla Parmalat, alla Minetti, alla coppia Berlusconi-Salvini, a Craxi e Mussolini, al Trota e a Cota, a Formigoni, al suo compagno di vacanze Daccò e a quelli di castità e appalti in Comunione e Liberazione. Se la direzione del carcere me li passa, anche a quelli che stanno in galera per gli appalti dell’Expo di Milano o le tangenti del Mose di Venezia: un miliardo di euro, non sarà un record mondiale? Poi vi dico). Chi usa termini che “sanno di Sud” per farne insulti, lo diminuisce, costringendolo alla sudditanza: è con le sue parole che il vincitore incatena il vinto (l’opportunismo non ha latitudine, ma questo sport miserabile praticato da meridionali contro il Meridione è anche un volersi allontanare da qualcosa, per non riconoscerla come propria. Quel qualcosa è nella storia che rese nemici, nel Sud, il popolo e quella che, avendone aspirazione e doti, si proponeva come sua classe dirigente; volendolo essere pur a dispetto del popolo, e persino contro, se non accettata come tale. E diventandola, alla fine, ma conto terzi. E contro, nella giacobina convinzione di essere la guida giusta di un popolo lazzaro e sbagliato).

Sarebbe interessante investigare ancora sui sentimenti che portano a quella (n)ostalgia, ma mi allontanerei troppo dalla ragione di questo libro (già così…). Ci basta sapere che non è il desiderio di tornare al passato, ma di recuperare dal passato le ragioni di una reputazione sminuita per altrui convenienza. Per questo, non è nemmeno importante quanto indietro stia, nel tempo, quel passato, purché offra quelle ragioni. Per i tedeschi orientali bastano 25-30 anni; per gli ex abitanti del Regno delle Due Sicilie, ce ne vogliono più di 150; per i sardi, sono pochi duemila: la loro preistoria e la loro storia sino all’oppressione dei fenici (che li costrinsero a rifugiarsi nell’interno), sono state idealizzate in una sorta di età dell’oro, della libertà fra pari, della giustizia e persino nell’origine del mito di Atlantide (“Epica della Sardegna antica, quindi: mito al posto della storia”, scrive Accardo. Ovviamente, su questo si discute molto, ma sentite quanta fierezza c’è nella sintesi che ne fa il professor Francesco Casula, in Letteratura e civiltà della Sardegna: “Quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il Mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi”, le tipiche costruzioni in pietra a tronco di cono. Una Sardegna “con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini (…), combatte alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli (…) isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù (…) molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi” da tutto il Mediterraneo, anche da Troia.

Poi, arrivano i cartaginesi, che seminano distruzione e morte e tutto finisce, con i sardi in fuga negli orridi, le caverne, i boschi dell’interno, come “verso un carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di una intera civiltà”, scrive Giovanni Lilliu, in La civiltà dei sardi. Che si divisero: “da una parte l’Isola montana dei Sardi ancora liberi, seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori (…), dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori” (cercate di immaginare quelle fughe e quei luoghi. Anche se non ci siete mai stati, li conoscete, specie l’Ogliastra, la provincia a Nord-Ovest della Sardegna, la più disabitata d’Italia: sterminato paesaggio di canyon, montagne a tronco di piramide, dette “tacchi”, pareti precipiti, anfratti… Ci siamo cresciuti in quei posti, con la fantasia, perché Aurelio Galleppini, detto Galep, e Gian Luigi Bonelli, gli inventori di Tex Willer, si ispirarono a quelli per farne la terra dei Navajos, spogliandola, però, dei boschi, dei pascoli).

Da allora, è un racconto di dominazioni che sostituiscono altre dominazioni e di sardi che si ribellano, indomiti e sempre schiacciati: i romani sterminarono metà della popolazione dell’isola, per piegarli e così tanti ne vennero ridotti in cattività, che i prezzi degli schiavi crollarono in tutto il Mediterraneo. Le insurrezioni continuarono finché i sardi, caduto l’impero di Roma, tornarono liberi, divisi in quattro regni o Giudicati, nei quali, per qualche secolo, specie in quello di Arborea, recuperarono se stessi. Ma ancora oggi, per dire, vuoi il retaggio di quella frattura fra sardi di costa e dell’interno, o la maggiore facilità di collegamenti dei primi con il continente (dopo aver ottenuto tariffe agevolate, in virtù del principio di “continuità territoriale”), si distingue fra una “Sardegna italiana”, che s’affaccia sul mare, più aperta e …contaminata, anche dal turismo internazionale; e quella interna, che maggiormente conserva anima e memoria. Ma anche questa, in qualcosa muta (con fastidio di chi teme che così possa perdersi), nell’incontro con un turismo meno superficiale, che cerca nelle antiche feste, nelle tradizioni, dalla cucina ai mamuthones, le famose maschere del carnevale di Mamoiada, la “vera Sardegna” (ricostruita per l’occasione, a volte).

Quella (n)ostalgia, allora diventa la vera patria, perché ti riporta al tempo in cui non eri figlio di un dio minore, a casa tua. Il ricordo potrà abbellirlo, certo, ma non ne tradisce la sostanza; che altri, invece, nutrendo i loro privilegi con la tua subordinazione, hanno interesse a negare e denigrare, per farti piacere quel che sei più di quello che eri. A questo serve costruire una memoria peggiorativa, che diminuisca te e tutto il tuo passato: “borbonico”, fosse pure un succo d’arancia, non può essere buono; “blocco socialista”, peggio mi sento; degli spagnoli in Sardegna, meglio dimenticarsene! Fortuna che sono arrivati i Savoia e i fratelli dell’Ovest. È l’operazione esattamente inversa a quella compiuta dalla (n)ostalgia: il tuo passato è così brutto (te lo dico io), da diventare la tua colpa; ringraziami per il presente che ti do. Se ti lamenti per il trattamento inferiore, metti in discussione il mio giudizio e il mio racconto sul tuo passato e il tuo miglior presente, e non lo condividi, scelte truppe cammellate indigene di intellettuali da riporto sapranno come squalificarti (che ne dite di “lagna neoborbonica”? Così, negli scritti di Giuseppe Manno, primo storico sardo, “è evidente”, avverte Accardo, “il fastidio per il vittimismo querulo e inconcludente dei sardi, talvolta malamente camuffato da ribellismo” contro gli spagnoli; e “atteggiamenti che gli apparivano velleitariamente lamentosi”, con i Savoia, di cui era intimo e con cui faceva carriera, per meriti). In Germania, sono stati più furbi e pratici: quando hanno visto che, a ogni sondaggio, la percentuale di tedesco orientali che rimpiangono le perdute condizioni (meglio primi nel blocco dell’Est che ultimi nel Paese unificato) era arrivata a due su tre, il governo ha deciso di non fare più sondaggi.

E dopo averti ridotto così, si chiedono perché sei così. Così come? Te lo dicono loro: raccontano quant’è ladro, incivile, incapace, assistito, pigro il Sud, o l’Est o quello a cui tocca, stavolta. Quelli progressisti “e di sinistra”, come la puttana della canzone di Lucio Dalla, spiegano che non tutti i tedesco-orientali o i terroni sono così: alcuni sono attivi, lavoratori, onesti (fanno esempi, nomi, cognomi); e nemmeno i tedesco occidentali o i padano-veneti sono tutti in gamba, intraprendenti, onesti: c’è qualcuno disonesto anche lì (seguono citazioni). Siam mica razzisti, noialtri! Un modo che, persino oltre le reali intenzioni degli autori (non sempre, non tutti), trasmette l’idea che gli onesti siano eccezioni qui e i disonesti, eccezioni lì: il mondo ha le sue imperfezioni… Se chiedi perché del particolare accanimento nel raccontare solo il peggio dei “meno” e solo il meglio dei “più” la risposta è “per dare una salutare scossa” a chi non si muove, insomma una sorta di brutale verità, di schiaffo a fin di bene (tipo L’inferno, di Giorgio Bocca e più recenti tomi di suoi imitatori). È l’unica forma di aiuto che viene profusa con illimitata generosità (fai schifo, te lo dico perché tu possa correggerti). Il seguace di Lombroso, Paolo Orano per amore dei sardi, che lo elessero pure al Parlamento, “dimostrò” che erano arretrati e delinquenti per patrimonio genetico (speriamo in quelli che gli vogliono male…). Mi ricorda una scena del film L’aereo più pazzo del mondo: appresa la notizia che  si rischia di precipitare, un passeggero resta paralizzato dal terrore e tutti gli altri, in fila, a turno, lo prendono a ceffoni e gli urlano: «Ritorni in sé!». Il poveraccio lo farebbe pure, ma non riesce manco dire «Ok!», ché arriva un altro soccorritore a schiantargli due sganassoni sul viso: «Ritorni in sé!». E poi un altro, e un altro, e… Alla fine, le amorevoli cure dei soccorritori brutali solo per necessità rendono il malcapitato catatonico peggio di prima, ma con la mascella a pezzi.

Riconoscete il metodo? Non è quello che l’Europa teutonicamente diretta ha fatto con la Grecia e con altri, Italia inclusa? Così si fece il Regno Sardo, così l’Italia unita, così la riunificazione della Germania, così si pretende, con la moneta unica gestita dai più forti come una clava sui più deboli, di fare dell’Europa una sorta di Stato continentale. Magari fosse! Magari no, se nasce diviso nei fatti e unito a parole, come il Regno sardo, l’Italia, la Germania.

Non chiamate “passatista”, volendo offenderlo, chi stanco di essere “meno” nella stessa casa, comincia a pensare che forse era più rispettato quando se ne stava per i fatti suoi. Nella cosiddetta Marsigliese sarda di Francesco Ignazio Mannu, un paio di secoli fa, di avvertiva: “Su pobulu chi in profundu/ Letargu fi’ sepultatdu/ Finalmente despertadu/ S’abbizza ch’est in cadena/ Ch’ista’ suffrende sa pena/ De s’indolenzia antiga” (Il popolo che in profondo/ Letargo era sepolto/ Finalmente svegliatosi/ S’accorge ch’è in catena/ Che sta soffrendo la conseguenza/ Della sua antica indolenza). “Passatista” è la sciocca condanna di chi volge attenzione al valore del passato, accomunando lui e quel che è stato in una sentenza che non salva nulla dell’uno e dell’altro. Beh, solo questo: se dell’oggi siete così fieri da farne luogo e tempo di ogni bene, contrapposto al passato, luogo e tempo di ogni male, pensate che questo presente non ci sarebbe, senza quel passato. Distinguere è fatica, fra il bene e il male di oggi e il bene e il male di ieri. Ma non conosco altra forma di onestà.

 

LA SARDEGNA NELL’ULTIMO LIBRO DI PINO APRILE:”Terroni ‘ndernescional”, a cura di Francesco Casula.ultima modifica: 2014-12-25T17:37:49+01:00da zicu1
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