ALCUNI PREGIUDIZI E LUOGHI COMUNI SULLA LINGUA SARDA
(E’ un dialetto-E’ divisa-arcaica-non la parla più nessuno-ha prodotto poco-non serve)
1.Il sardo è un dialetto
Sul Sardo sono presenti -e spesso vengono circuitati ad arte- una
serie di pregiudizi e di luoghi comuni. Una sorta di Idola fori, per
dirla con il lessico forbito del filosofo e politico inglese Francesco
Bacone. Essi si sono creati e sedimentati nel tempo, frutto insieme
dell’ignoranza e della malafede da parte degli nemici della Lingua
sarda.
l pregiudizio e il luogo comune più diffuso è che il sardo sia
un dialetto. Occorre rispondere e chiarire con nettezza che nessun
linguista o intellettuale rigoroso e serio ritiene che il sardo sia un
dialetto: dal massimo studioso Max Leopold Wagner (che scriverà
una monumentale opera dal titolo inequivocabile: La lingua sarda.
Storia, spirito e forma) a un intellettuale come Antonio Gramsci che
in una lettera dal carcere del 26 marzo del 1927 alla sorella Teresina
scriverà: “Devi scrivermi a lungo intorno ai tuoi bambini, se hai
tempo, o almeno farmi scrivere da Carlo o da Grazietta. Franco mi
pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In
che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli
darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me,
non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente
il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo
una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore
coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto…” .
Ma oggi è lo stesso Stato italiano a riconoscere al sardo lo status
di Lingua: nella Legge del 15 dicembre 1999, n.482 concernente
“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”
l’art.2 recita testualmente: “In attuazione dell’art. 6 della Costituzione
e in armonia con in principi generali stabiliti dagli organismi
europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura
delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e
croate e quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano,
il ladino, l’occitano e il sardo”.
Il sardo è una lingua con proprie strutture sintattiche e grammaticali,
espressioni foniche e semantiche, peculiari, autonome e distinte
da tutte le altre lingue neolatine o romanze, ad iniziare dall’italiano.
D’altronde basta leggere un qualsiasi manuale, non di linguistica ma
di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la
lingua sarda è nata ben 300 prima della lingua di Dante: come si può
pensare dunque che sia un dialetto italiano?
Ciò premesso occorre anche aggiungere che la linguistica moderna,
scientifica, non distingue nè fa differenze tra ciò che comunemente
si chiama lingua da ciò che si chiama dialetto e, a maggior ragione,
non distingue tra lingua egemone e lingua subalterna. Ciò che rende
differente ciò che noi chiamiamo lingua da quello che chiamiamo
dialetto non è qualcosa di insito nel sistema linguistico ma l’uso e
l’importanza sociale dello stesso. In altra parole fra lingua e dialetto
non ci sono differenze culturali ma politiche e giuridiche.
Per cui schematicamente potremmo affermare che la lingua è
un dialetto che nella storia “vince” politicamente: così è stato per
l’Attico di Atene in Grecia; per il castigliano di Madrid in Spagna;
per il francese che da “dialetto” di Parigi, in seguito alla supremazia
della città, è stato adottato come idioma di tutto lo stato francese; per
lo stesso italiano che da “dialetto” di Firenze, diviene idioma comune
a tutta la penisola per il prestigio culturale degli scrittori fiorentini,
e via via elencando.
O pensiamo ai “dialetti” dei vari paesi africani e asiatici ecc., che
una volta decolonizzati e ottenuta l’indipendenza, diventano “lingue”.
Così il Kiswahili – ma è solo un esempio – considerato “dialetto” nel
Kenya sotto il dominio inglese fino al 1964, è oggi la lingua ufficiale
di questo paese africano. È cambiata qualcosa? Sì. Lo status politico e
giuridico, non altro. Ed è proprio lo status politico, in buona sostanza,
a distinguere una lingua da un dialetto. A questo proposito è quanto
mai opportuno ricordare la famosa definizione di Max Weinreich: “Una
lingua è un dialetto con un esercito e una flotta”.
2. Il Sardo non è unitario
Un altro diffuso e ubiquitario pregiudizio e luogo comune attiene
all’unità e unitarietà del Sardo. Non c’è un Sardo, si dice, ma molti
Sardi. Occorre rispondere con nettezza che il Sardo consta di due
fondamentali varianti o parlate: il logudorese e il campidanese. Ma il
fatto che esistano due parlate non mette minimamente in discussione
l’esistenza di una lingua sarda sostanzialmente unitaria, in quanto
la lingua, per la linguistica scientifica è considerata un sistema o un
insieme di sistemi linguistici. Inoltre la struttura del campidanese
e del logudorese è sostanzialmente identica: quando vi sono delle
differenziazioni di tratta di differenziazioni o lessicali (dovuta alla
diversa penetrazione delle lingue dei popoli dominatori, soprattutto
spagnolo e italiano) o differenze fonetiche, di pronuncia. Cioè differenze
minime. Peraltro presenti anche nei diversi paesi della stessa “zona
linguistica”. Ma non differenze sostanziali a livello grammaticale o
sintattico. Del resto, qualcuno può affermare che l’Italiano non sia
una lingua unitaria perchè viene parlata con una pronuncia che varia
– e molto! – da regione a regione, da paese a paese, da città e città?
Qualcuno può pensare che la lingua sarda non sia unitaria perchè
“adesso” in campidano risulta “immoi” e nel logudoro “como”?
Che dire allora dell’italiano “unito” a fronte di adesso, ora, mo’ per
indicare lo stesso termine? Il fatto che in sardo per indicare asino si
utilizzino molti lessemi (ainu, molente/i, poleddu, burricu, bestiolu,
burriolu, burragliu, chidolu, cocitu, unconchinu) non è forse segno
di ricchezza lessicale piuttosto che di disunità del Sardo? Una lingua
fatta di somme e di accumuli in virtù delle influenze plurime indotte
dalla presenza nei secoli, di svariati popoli, ognuno dei quali ha
influenzato e contaminato la lingua sarda?
Ma poi, dopo essere stata riconosciuta anche giuridicamente
e politicamente come lingua, chi impedisce al Sardo di assurgere
al piano e al ruolo anche pratico, di lingua unificata? Così come
è successo storicamente a molte lingue, antiche e moderne, nel
mondo e in Europa, prima pluralizzate in molte parlate e dialetti e in
seguito unificate? Negli ultimi 150 anni della nostra storia è successo
nell’800 e nel primo ‘900, tanto per fare qualche esempio, al rumeno,
all’ungherese, al finlandese, all’estone; e recentemente al catalano, le
cui varietà (il barcellonese, il valenzano, il maiorchino per non parlare
del rossiglionese, del leridano e dell’algherese) erano assai diverse
fra loro e assai più numerose delle varietà del Sardo di oggi.
Dopo l’incerto procedere, fra molte incomprensioni e non pochi
pregiudizi, che accompagnò una prima proposta di standardizzazione
della lingua, dal 2006 la Regione si è dotata di Sa limba sarda comuna,
uno standard linguistico per i documenti in uscita dall’Amministrazione
e di riferimento per le decine di varietà del sardo. Si tratta non di un
cocktail di varianti ma di una lingua effettivamente parlata nel centro
dell’Isola, qualcosa che sta al sardo come il lucchese stava all’italiano
nascente. È un primo incoraggiante inizio: occorrerà proseguire in
tale direzione.
Si potrà ancora obiettare che tra logudorese e campidanese
potrebbero esserci differenze poco sostanziali, ma come la mettiamo
con il Catalano di Alghero, il Tabarchino di Carloforte e Calasetta, e lo
stesso Gallurese e Sassarese? I linguisti rispondono a questa obiezione
con chiarezza e scientificità: si tratta di Isole alloglotte. Ovvero di
lingue e dialetti diversi dalla Lingua sarda, pur presenti nello stesso
territorio sardo. Un fenomeno del resto presente in tutto il territorio
italiano – e non solo – dove vi sono molte isole alloglotte in cui si
parla: albanese, catalano, greco, sloveno e croato oltre che francese,
franco-provenzale, friulano, ladino e occitano. Questo fenomeno ha
radici storiche precise: per quanto attiene al catalano di Alghero è da
ricondurre al fatto che nel 1354 Alghero fu conquistata dai catalani
che cacciarono i Sardi e da quella data si parlò il catalano, appunto.
Il Tabarchino parlato a Carloforte (Isola di San Pietro) e a Calasetta
(Isola di Sant’Antioco) è ugualmente da ricondurre a motivazioni
storiche: alcuni pescatori di corallo provenienti dalla Liguria e in
particolare dalla città di Pegli (a ovest di Genova, ora quartiere del
comune capoluogo) intorno al 1540 andarono a colonizzare Tabarca
(un’isoletta di fronte a Tunisi) assegnata dall’imperatore Carlo V alla
famiglia Lomellini. Nel 1738 una parte della popolazione si trasferì
nell’Isola di San Pietro. Nel 1741 Tabarca fu occupata dal bey di
Tunisi. La popolazione rimasta fu fatta schiava, Carlo Emmanuele di
Savoia, re di Sardegna, ne riscattò una parte portandola ad accrescere
la comunità di Carloforte. Di qui il tabarchino.
Diverso è invece il discorso che riguarda il sassarese, considerato
dai linguisti un sardo-italiano e il gallurese ritenuto un corso-toscano.
E da ricondurre ugualmente a motivazioni storiche.
3. Il sardo è una lingua “arcaica” inadatto a esprimere la “modernità”
Il sardo secondo alcuni sarebbe rimasto “bloccato”, cioè ancorato
alla tradizione agropastorale, perciò incapace di esprimere la cultura
moderna: da quella scientifica a quella tecnologica, dalla filosofia
alla medicina ecc. ecc.
Intanto non è vero che il sardo sia completamente “bloccato”:
termini e modi di dire dell’italiano dovuti allo sviluppo culturale
scientifico e sociale impetuoso negli ultimi decenni sono entrati nella
lingua sarda, così come termini e modi di dire stranieri – soprattutto
inglesi – sono entrati nella lingua italiana che li ha giustamente
assimilati. Questo “scambio” è una cosa normalissima e avviene
in tutte le lingue e tutti i sistemi linguistici, sia quelli di società “più
avanzate”, scientificamente ed economicamente, sia di società “più
arretrate” sono in grado di esprimere i più moderni concetti e le più
moderne e complesse teorie, prendendo in prestito terminologia e
lessico da chi li possiede: come il contadino, che se ha finito l’acqua
del proprio pozzo, l’attinge dal pozzo del vicino.
A rispondere, del resto, a chi parla di “blocco” e di incapacità di
alcune lingue a esprimere l’intero universo culturale moderno, sono
due intellettuali e linguisti di prestigio. Scrive Sergio Salvi, gran
conoscitore della Sardegna e delle minoranze etniche e linguistiche:
“La rimozione de “blocco” è pienamente possibile. Farò soltanto
l’esempio, così significativo ed eloquente della lingua vietnamita,
storicamente e politicamente dominata, fino a tempi recenti, prima dalla
cinese e poi dal francese, una lingua che non solo ha brillantemente
rimosso il proprio “blocco” dialettale, ma che pur non possedendo
ancora un completo vocabolario tecnico-scientifico, ha creato “una
grande corrente di pensiero”, eppure settant’anni fa il vietnamita era
soltanto un “dialetto” o meglio un gruppo di dialetti”.
Sullo stesso crinale si muove e risponde l’americano Joshua Aaron
Fishman, il più grande studioso del bilinguismo a base etnica (è il caso
della Sardegna) che scrive: “Qualunque lingua è pienamente adeguata
a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano.
Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un
periodo relativamente breve, la lingua precedentemente usata solo
a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella
tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”.
Il problema se una lingua “arcaica” possa o no esprimere concetti
moderni è dunque un falso problema.Ogni lingua può “parlare” l’Universo.
Anche quella della più sperduta tribù dell’Africa, immaginiamo una lingua
neolatina come quella sarda. !n più c’è da rilevare che in ogni lingua
“egemone” o “ufficiale” o “media” (che chiameremo per la
complessità della sua struttura Macro lingua) si formano dei linguaggi
“specifici”, i tecnoletti,che tendono sempre più a internazionalizzarsi,
per mezzo di una terminologia che si esprime per parole “rigide”, per
formule, in termini greco-latini o inglesi. I tecnoletti si caratterizzano per
essere costituti da segni linguistici depurati da qualsiasi connotazione. I
tecnoletti sono monosemici e referenziali, uniti da un legame biunivoco
a un concetto ben determinato. Esso infatti deve significare una cosa
ben precisa e non veicolare significati collaterali di nessun genere,
ad esempio la linguistica moderna ha elaborato una serie di termini
internazionali: struttura, funzione, significante, significato, diacronico,
incronico ecc: oppure li ha presi in prestito.
In questi casi si possono operare dei traslati come è avvenuto
dall’inglese all’italiano. Nessun problema quindi: il sardo può acquisire
e prendere a prestito parole e modi di dire elaborati altrove.
4. Il sardo non lo parla più nessuno
Forse è il luogo comune che ha meno basi nella realtà vera. Che ci
documenta esattamente il contrario. I risultati scaturiti da una indagine
voluta dalla Giunta Regionale e svolta dal Dipartimento universitario
di Ricerche economiche e sociali di Cagliari e da quello di Scienza
dei linguaggi dell’Ateneo di Sassari non lasciano infatti dubbi in
merito alle opinioni dei Sardi su sa Limba: il 68,4% degli abitanti
dell’Isola dichiara di conoscere e parlare una qualche varietà della
lingua sarda; una percentuale ancora più alta, il 78,6%, si dichiara
d’accordo sull’insegnamento del Sardo a scuola; e addirittura l’81,9%
vorrebbe che si insegnasse il Sardo insieme all’Italiano e a una lingua
straniera. La percentuale dei sardi che conoscono e parlano sa Limba
sale ancora – 85,5% – se ci si riferisce agli abitanti dei paesi con meno
di 4.000 abitanti.
Questi dati parlano chiaro e sono ancora più eloquenti e significativi
e in qualche modo persino miracolosi se si pensa che ancora oggi il
sardo – nonostante un risveglio e una serie di leggi (a livello europeo
con la “Carta Europea per le lingue regionali e minoritarie”; a livello
regionale con la Legge n.26 del 15 ottobre 1997 sulla “Promozione e
valorizzazione della cultura e della lingua della Sardegna” e infine a
livello nazional-statale italiano con la Legge n.482 del 15 dicembre 1999
riguardante “Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche
storiche” in cui è presente la Lingua sarda); di fatto è ancora una
lingua “alla macchia”. Certo, non più, come nel passato quando era
“proibita”. Pensiamo a quando nel 1955, nei programmi elementari
elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto
per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto.
Proibita e addirittura “criminalizzata”. Basta ricordare che in tempi
a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti
– del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare
eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della
Lingua sarda nelle scuole”. E una precedente nota riservata dello
stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva
addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare” gli insegnanti.
È una lingua “alla macchia” perchè non è ancora insegnata
organicamente nelle scuole e tanto meno è stato inserita nei curricula,
non viene utilizzato nei media (TV-Radio-Internet-Giornali) tanto
meno nella pubblicità o nella toponomastica. Pensiamo solo a come
sarebbe – parlato e scritto – il sardo se solo godesse dei “diritti” di cui
gode oggi la lingua italiana!
5. Il sardo ha prodotto “poco”
È un altro luogo comune che non risponde a verità: in realtà,
dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo
nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.
Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue
romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso
– si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno,
legato e imbrigliato potesse correre?
La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca
nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con
la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di
dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno
prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il
castigliano e infine di nuovo l’italiano.
Nonostante questo, tutta la storia sarda è stata contrassegnata
dalla presenza di una letteratura in lingua sarda: da Antonio Cano
e Sigismondo Arquer a Gerolamo Araolla, Antonio Maria da Esterzili
e Gian Matteo Garipa. Per non parlare della poesia in limba nel
‘700-‘800, una poesia fra umorismo, satira e impegno politico: dal
capolavoro anonimo di Sa scomunica de Predi Antiogu arrettori
de Masuddas, apprezzato da Gramsci e da Wagner, a poeti come
il cagliaritano Efisio Pintor Sirigu; da Francesco Ignazio Mannu,
autore del monumentale Su patriotu sardu contra sos feudatarios,
più noto come “Procudad’ ‘e moderare” a Diego Mele o a Peppino
Mereu o a quello che è considerato forse il più grande poeta sardo
del Novecento, Antioco Casula (Montanaru), elogiato dallo stesso
Pier Paolo Pasolini.
E ancora a Pedru Mura, Aquilino Cannas, Benvenuto Lobina, lo
stesso Michelangelo Pira (con Sinnos), Antonio Cossu, Francesco
Masala, tradotto in molte lingue europee, Faustino Onnis, Franco
Carlini. Per arrivare infine ai giorni nostri con romanzieri come
Gianfranco Pintore e Antonimaria Pala o poeti come Giovanni Piga,
Maddalena Frau, Paola Alcioni, Anna Cristina Serra. Ai nostri giorni
e agli ultimi 30 anni in cui c’è stata l’esplosione della letteratura sarda,
sia in poesia che in prosa.
Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale
in Sardigna, Condaghes, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa
in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni.
Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra
cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità
fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto
orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos
tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle
letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare
alla ribalta la questione della lingua sarda.
Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che
raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57.
Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono
ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa
manna – scrive Antoni Arca – prus de chentu in nemmancu in sete
annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa
narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e
como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su
modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980
a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant
onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas
feas a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona
legibilidade”(Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran
cosa – scrive Antonio Arca – più di 100 in meno di sette anni, che
cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire
che una narrativa in Lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa
in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca
un modello da interpretare, perché come abbiamo analizzato per il
periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che
attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere
mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello
medio di buona qualità).
6. Non serve
E’ l’unico luogo comune che ci sentiamo di condividere:la lingua sarda non serve nessuno. Nel senso che non è serva di nessuno. Caso mai serve solo per liberarci dall’oppressione coloniale linguistica e culturale impostaci dai dominatori del passato e del presente. Serve per liberarci dagli atavici complessi di vergogna e di inferiorità. Serve per restituirci l’orgoglio e la dignità di Sardi.