Recensione

Sul n. 104-105  della Rivista “ La grotta della vipera” è uscito un breve saggio di Francesco Casula su Antonello Satta. Eccolo

 

L’opera e il pensiero di  Antonello Satta in due volumi

di Francesco Casula:

Sono nelle librerie da qualche mese le Opere di Antonello Satta (pubblicate da Condaghes editore, in due grossi volumi). Le ha curate Alberto Contu, autore anche di una magistrale introduzione. Contu non è nuovo a questi lavori di esegesi, lettura e interpretazione di opere di intellettuali sardi importanti: ha curato anche le opere di Lilliu, (pubblicate in tre volumi da Zonza editore), personaggio certo molto diverso da Satta ma di lui amico e legato da vicinanza per sensibilità culturale e identitaria.

 

-La sua figura e la damnatio memoriae

Con la pubblicazione delle Opere, Satta inizia finalmente, a sei anni dalla sua scomparsa, ad essere dissotterrato e dissepolto. Figura di primo piano nella cultura sarda contemporanea, uno dei cervelli più fini e innovativi della Sardegna del Novecento –come giustamente lo definisce Contu-, più fini creativi e originali, aggiungo io; intellettuale poliedrico: è stato scrittore e poeta, saggista, giornalista –cronachista, si autodefinisce , tra il serio e il faceto- ed editore, oltre che infaticabile operatore culturale, studioso e profondo conoscitore della cultura e della poesia popolare, fin’ora è stato sottoposto alla damnatio memoriae, utilizzo ancora l’affilato lessico di Contu.

Dimenticato in vita e anche post mortem. Gli è che Satta era un intellettuale “disorganico” e  irregolare, un incallito libertario: fuori e contro partiti e camarille, gruppi di potere culturali e  politici, istituzionali e accademici.

Un intellettuale dunque scomodo e renitente, che metteva in discussione tutte le coordinate culturali e politiche dei gruppi dominanti e del potere: compresi quelli di sinistra, per non dire soprattutto questi, area politica da cui proveniva: ad iniziare dal l’industrialismo, lo statalismo, il progressismo e l’identificazione del “progresso” con lo sviluppo industriale capitalistico, così come era stato considerato sia a destra (per esempio con Rosario Romeo) che a sinistra (con Emilio Sereni).

Ai politici e agli uomini di potere Satta voleva dare fastidio, “fastidiar”. Anzi, riteneva che compito dell’intellettuale fosse proprio quello di creare problemi e grattacapi al potere, all’establishment: anche a quello editoriale e mediatico.

Forse non è un caso che sia L’Unione Sarda che La Nuova Sardegna negli anni recenti abbiano ripubblicato opere di decine e decine di Autori sardi –francamente, molte,  zeppe di burrumballa e di bascaramene- ma si siano stranamente dimenticati delle sattiane Cronache del sottosuolo, un capolavoro di analisi e di ricerca ma anche letterario.

Questo per il passato. Per il futuro non vorrei che a Satta succedesse quanto è avvenuto a Lussu, suo amico. Quando, quelli stessi che in vita lo avevano combattuto e osteggiato,-segnatamente a proposito dell’Autonomia e del Federalismo- post mortem, si sono scoperti e riconosciuti “sua figliolanza” (l’espressione è della moglie Joyce) e, dopo averlo “convertito” e piegato al proprio orizzonte ideologico, purgandolo e mutilandolo nelle parti più scomode del suo pensiero, lo hanno mitizzato e imbalsamato. Una volta sterilizzato e ridotto a “santino”, innocuo e rassicurante, si può anche mettere nella nicchia, per diventare dio protettore dei sardi e della Sardegna.

Ecco, Satta -come del resto Lussu-, nella sua figura come nel suo pensiero, è renitente, scomodo e disadatto a ogni incorporazione storica da parte di chicchessia, ma dei vincitori in specie: siano essi di destra che di sinistra.

I due volumi raccolgono molti suoi scritti: da quelli più propriamente politici a quelli riguardanti il regionalismo e la questione nazionale sarda; da quelli attinenti specificamente alla questione della Lingua sarda a quelli sulle Etnie e le politiche dell’Identità (Primo volume).

Il secondo invece tratta della cultura del “sottosuolo”, de Sa scomuniga de Predi Antiogu, di Storia e identità, di lingua sarda e cultura popolare, di Emilio Lussu. Contiene inoltre una serie di saggi critici, di traduzioni e di sue poesie.

La riflessione su cui ritorna in molti scritti riguarda in modo particolare la “Questione sarda”. E da questa inizio.

 

-Il vizio di Onesicrito.

Un certo Onesicrito tra il 332 e il 336 a.c. aveva visitato l’India al seguito di Alessandro Magno, riportandone descrizioni alquanto fantasiose, che misero a  lungo, fuori strada i geografi dell’epoca.

Partiti, Sindacati italiani e buona parte degli studiosi e degli storici – segnatamente quelli di impronta più statalista – per decenni ci hanno dato della “Questione sarda” una descrizione alquanto “fantasiosa”- un po’ come Onesicrito aveva dato dell’India – riducendola a un semplice frammento o appendice della “Questione meridionale”. O in ogni caso in questa affogandola.

 C’è di più: essa è stata considerata esclusivamente dal punto di vista economico ed economicistico. Non solo: ad iniziare dall’analisi gramsciana si è considerato il Sud “sottosviluppato” perché atavicamente arretrato, semifeudale, ancora precapitalistico. Tale tesi si rifaceva a Federico Engels che in una celebre lettera a Filippo Turati sosteneva appunto che il Mezzogiorno d’Italia soffriva per la mancanza di uno sviluppo capitalistico e di una rivoluzione borghese.

La cartina di tornasole di questa visione della “Questione sarda” è rappresentata –fra l’altro-  dallo Statuto speciale di Autonomia della Sardegna, tutto giocato sul crinale economicistico. Infatti l’insieme degli aspetti etnoculturali e linguistici è del tutto assente, nonostante gli avvertimenti di Lussu sulla necessità di sancire l’obbligo dell’insegnamento della Lingua sarda nelle scuole in quanto “essa è un patrimonio millenario che occorre conservare” e nonostante i consigli di Giovanni Lilliu che suggeriva ai Costituenti sardi di rivendicare per la Sardegna competenze primarie ed esclusive almeno per quanto riguardava i “Beni culturali”. 

Non cade nel vizio di Onesicrito, Antonello Satta, che contesta “L’autonomia intesa come integrazione, quella autonomia cioè che nel suo concreto realizzarsi aveva il fine proclamato essenzialmente economicistico, di portare l’isola « al livello delle regioni più sviluppate d’Italia». Questo concetto è entrato in crisi, assieme al primato della grande industrializzazione, con il primo Piano di rinascita, non per un riporto delle culture americane… ma per una esperienza, o se volete, per ”un istinto” del tutto interni alla Sardegna”.

Secondo Satta la “Questione sarda” deve rifondarsi a partire dal riconoscimento di una comunità con caratteristiche etniche originali e inconfondibili. La Sardegna esce in tal modo dalla definizione meramente giuridica di «regione autonoma», perché essa “è una terra che produce una peculiarità, un modo di essere «diverso» dalle altre terre, e i suoi abitanti possiedono, nel collettivo, una «identità» e la esprimono nel bene e nel male, con la loro lingua e con il loro atteggiamento dinnanzi al mondo”.

Concezione molto contigua a quella di un suo amico, l’indipendentista federalista Antonio Simon Mossa, per il quale la Sardegna costituisce “unità o comunità etnica ben distinta dalle altre componenti dello Stato Italiano”. I due intellettuali sardi si incrociano e si incontrano nella sostanza ma perfino nella forma lessicale: tutti e due parlano di “comunità etnica” e dunque di “Nazione sarda”. Da intendere “fuori dalle concezioni ottocentesche, raccogliendo la sua attualità nel mondo contemporaneo”.

E’ questo del resto l’asse, il fulcro, l’impianto teorico, culturale e politico intorno a cui si sviluppa e si articola l’intera riflessione di Satta: sia come saggista e scrittore, sia come giornalista, editore e operatore culturale.

Non a caso, l’intestazione della prestigiosa testata che fonderà –insieme al compianto Eliseo Spiga, scomparso il 19 Novembre scorso- e che dirigerà, sarà proprio “Nazione Sarda”.

 

-Nazione sarda, stato plurinazionale, economia nazionale sarda

Fin dal n°.o del Giugno 1977, in lingua sarda, Satta precisa cosa intenda per Nazione sarda: Essa è “Su chi li nana identitade, est a narrere de totu su chi nos achede, a nois sardos, diferentes dae sos ateros e istranzos in Italia” .

Una Nazione, che proprio in virtù della sua Identità/differenza ha “Su derettu de essire a su campu, de chistionare, in sardu e in italianu, chene presunzione, ma chene timoria peruna. E credimus chi sa nazione sarda, po cantu opprimia, tenza’ cosas de narrere”. Per questo “C’è oggi la fondamentale questione della costituzione di uno stato plurinazionale e articolato per autonomie sostanziali”. Ma un autonomia sostanziale, effettiva “fondata sull’autogoverno, non può oggi esistere se non si dà un’ampia base economica. Non si tratta di avviare un processo autarchico. Si tratta di costruire fuori dalla dipendenza, una economia nazionale sarda, procedendo a una riappropriazione di tutte le risorse dell’Isola, per gestirle e valorizzarle direttamente. A questo punto l’economia sarda potrebbe confrontarsi con le altre economie non più come produttrice di materie prime o come mera sede di intraprese multinazionali, ma come creatrice di prodotti finiti”.

La dipendenza invece, in barba alle illusioni programmatorie e petrolchimiche degli anni ’60 seminate in quantità ciclopiche dai politici sardi,, è invece aumentata con “La linea della colonizzazione capitalistica promossa dai gruppi dominanti forestieri, sostenuta dagli agrari e dai ceti di borghesia “compradora” …Essa si realizza con la industrializzazione della Moratti-Esso, della Rovelli-Gulf, della Rumianca, della Snia-Viscosa, della Montedison, della Bastogi, della Fiat e con la destinazione di gran parte dell’Isola ad “area di servizio” del capitalismo internazionale: servizi economici e servizi militari….in particolare la colonizzazione comporta la totale liquidazione di ogni attività di lavoro ancora autonoma, ancora non totalmente soggiogata allo sfruttamento capitalistico”.

Con il Piano di Rinascita infatti calano in Sardegna “Le industrie petrolchimiche e le intraprese turistiche internazionali. Gli avventurieri di un lumpen-capitalismo piovono come mosche sul miele, impiantano fabbriche prive di qualsiasi giustificante economia o, addirittura, fanno finta di impiantare fabbriche o mettono su delle baracche che utilizzano macchinari vecchi fatturati come nuovi. Ritirano però i contributi a fondo perduto e i mutui di favore del Piano di rinascita. E’ il più vasto processo di espropriazione che la Sardegna abbia mai conosciuto. In questo periodo l’emigrazione raggiunge le vette più alte. Ci troviamo innanzi alla situazione paradossale per cui i 400 miliardi della Rinascita diventano una risorsa per il capitalismo italiano. L’integrazione si traduce in una vera e propria occupazione dell’Isola”.

I risultati di tale “colonizzazione” sono oggi sotto gli occhi di tutti: liquidazione delle fabbriche, ridotte per lo più a cimiteri di rottami, disoccupazione, cassa integrazione, aumento della povertà e…devastazione del territorio.

Certo, è venuto il turismo “ma è rimasto anch’esso un fatto esterno. La sua utilizzazione del folclore sardo, con i balli tondi a Porto Cervo, con i pastori noleggiati per arrostire il porcetto allo spiedo, tutti lustri in costume di gala, ha un sapore disgustosamete hawaiano”.

 

-Identità, lingua e cultura popolare e del sottosuolo

Per Satta costruire un’economia nazionale sarda per poter così rompere la dipendenza “significa procedere anche alla costruzione di una cultura nazionale sarda che si applichi puntualmente alla valorizzazione di tutte le risorse isolane e che diventi essa stessa risorsa per confrontarsi con le altre culture”. Ma non in solitudine. Infatti E’ assolutamente indispensabile intrattenere rapporti con le altre culture. Questi rapporti però devono svolgersi alla pari. Non possiamo collocarci in posizioni subordinate, se vogliamo che nella generale identità del popolo sardo emerga anche una specifica identità della cultura sarda. Nella ricerca e nella costruzione di questa identità culturale, i rapporti più intensi, superando i ritardi che spesso ci caratterizza nelle elaborazioni (e che è esso stesso provocato dalla dipendenza) vanno ricercati soprattutto con quelle culture che soffrono i nostri stessi problemi, che ricercano e costruiscono giorno per giorno una loro specifica identità :da quella catalana e basca a quella occitana, bretone, gallese, irlandese e corsa”. Con le culture insomma di tutte le minoranze etniche, segnatamente di quelle europee, in uno scambio fecondo di pensieri ed emozioni.

Sull’Identità il pensiero di Satta è estremamente lucido e preciso. Per intanto denuncia con forza che “All’interno della politica e dell’ideologia integrazionistica ogni elemento dell’identità isolana corre il rischio di venire degradato a folclore; a qualcosa da conservare e da proteggere integro da contaminazioni contemporanee in un circuito museografico per amatori e turisti, una merce a disposizione dell’etnologo e dello studioso “in partibus”, sempre disposti a venire in Sardegna all’inizio della carriera universitaria, per poi spiccare il volo verso le cattedre universitarie…l’identità innocua che si esprime attraverso le manifestazioni più esterne del folclore senza offendere –come dice il poeta- né capra né lepre”.

Di essa, di contro, Satta afferma la sua dimensione dinamica : “L’Identità dei sardi è così difficile da definire proprio perché dinamica e variabile, fatta di somme e di accumuli e non di sottrazioni successive. Se procediamo per ortodossia totalizzante, e ci mettiamo a sottrarre e a sottrarre, escludendo e tagliando, per riscoprire l’autentico, possiamo arrivare fino a ricondurre la cultura sarda dentro la sua lingua originaria precedente alla romanizzazione”.

Dinamica come la lingua sarda, l’elemento caratterizzante e indispensabile dell’identità e della nazionalità dei sardi. Essa infatti non ”un coccio archeologico”, magari da conservare proteggere e tutelare, ma un valore “da fondare e sviluppare, non soltanto glottologicamente ma anche politicamente e può trovare soluzione in un processo storico in cui si determini un’autonomia effettiva della Sardegna”.

A noi –scrive- la parola «tutela »  dà un’enorme fastidio. La lingua sarda non va posta sotto tutela, quasi fosse minorenne. Ha troppi anni di vita. Basta legge un qualsiasi manuale, non di linguistica ma di storia, basta andare a Marc Bloch, per esempio, per sapere che la lingua sarda è nata prima dell’italiano. La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo, ed ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo status di lingua”.

Di qui la proposta di legge di iniziativa popolare per il bilinguismo perfetto, che vede protagonisti attivi, insieme a Satta, il nucleo della rivista di Nazione sarda: da Francesco Masala, che sarà presidente de su Comitadu pro sa limba, a Eliseo Spiga, segretario, a Gianfranco Contu, Elisa Spanu Nivola e altri.

Ma c’è di più: il problema della lingua si pone anche come rivendicazione del diritto alla parola per il popolo sardo. Fra l’altro, in tal modo essa “esce dalla emarginazione folcloristica cui è costretta dalla cultura dominante e da risorsa per glottologi e linguistici diventa fatto politico e di cultura contemporanea”.

“Del resto –scrive ancora Satta-  la lingua sarda come tutte le altre lingue proibite, è il luogo della più tenace resistenza popolare, è la manifestazione più genuina e sicura della nazione sarda, ma è anche per gli altri, per i colonizzatori, il segno di una nostra presunta inferiorità razziale e culturale. Lottare per la parità linguistica significa lottare per la liberazione culturale, per la piena libertà di espressione e partecipazione di coloro tra i quali il sardo è lingua dominante, e cioè dei pastori, dei contadini, degli operai. E significa –cosa non meno importante- il riconoscimento della nazione sarda e del suo diritto al vero autogoverno”.

Un cenno infine sulla cultura popolare, del sottosuolo, su cui –fra l’altro- Satta scrive anche un suggestivo saggio-ricerca, Cronache dal sottosuolo: la Barbagia. Quella cultura del sottosuolo che è costituita di «passioni», che “nel bene e nel male ne costituiscono il centro e che se non ci sarà l’etnocidio, continueranno a correre discipline esterne e saranno sempre uno degli elementi primi della «costante resistenziale» di cui parla Lilliu, una definizione indovinata per esprimere un mondo difficile a definirsi soltanto con criteri storicistici, pieno di «fantasie», di passioni appunto, intollerante dei normali codici o capace di adeguarli a una logica tutta sua, interna e creativa, talvolta demoniaca”.

 

Conclusione

Da più parti si è parlato di Antonello Satta come di un vecchio cavaliere ed eroe romantico, di un apostolo, di un nuovo profeta, idealista. Anche un pò folle e donchisciottesco, come lui stesso si definisce.

 Può darsi. Forse era anche “irragionevole”. Ma di quella irragionevolezza di cui parlava un caustico esponente della cultura europea del primo Novecento quando affermava che l’uomo ragionevole si adatta al mondo, l’uomo irragionevole vorrebbe adattare il mondo a se stesso: per questo ogni progresso dipende dagli uomini irragionevoli. Di sicuro era un utopista: è lui stesso a rivendicarlo con orgoglio quando scrive che “Se non hai qualche utopia in tasca devi dimetterti dalla vita”.

 

 

Recensioneultima modifica: 2011-03-20T08:08:21+01:00da zicu1
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