La Donna Sarda per Giuseppe Dessì a cura di Francesco Casula

LA DONNA SARDA, di Giuseppe Dessì, 1950

a cura di Francesco Casula

Giuseppe Dessì (Cagliari 1909-Roma 1977). Scrittore. Scritti principali La sposa in città, racconti, 1939; San Silvano, 1939; Michele Baschina, 1942;; Racconti vecchi e nuovi, 1945; Storia del principe Lui, 1949;; I passeri, 1955; Ursola del­l’Angelo e altri racconti, 1957; La balle­rina di carta, 1957; Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, 1959; La giu­stizia, dramma, “Sipario”, 1959; Rac­conti drammatici, 1959; Sardegna una civiltà di pietra (con il fotografo Franco Pinna e Antonio Pigliaru), 1961; Il disertore, 1961; Narratori di Sardegna (con Ni­cola Tanda), 1965; Eleonora d’Arborea, racconto drammatico in quattro atti, 1964; Scoperta della Sardegna, 1965; Paese d’ombre, 1972.

La donna sarda

Lo scrittore inglese Lawrence ci ha lasciato un mirabile ri­tratto della Sardegna in un suo libro che dalla Sardegna pren­de il titolo (Sea and Sardiniai e che Elio Vittorini ha tradot­to in parte nelle Pagine di viaggio edite da Mondadori. Law­rence ha trovato in Sardegna il tipo virile ideale secondo la sua concezione che esalta le forze primigenie della razza quali si manifestano nella distinzione e insieme nell’ armo­nia dei sessi. Certamente pochi altri paesi si prestano me­glio a una simile interpretazione. Del resto egli non fu il solo ad esaltare la fierezza e la virile dignità dell’uomo sar­do. Se ne è parlato fino alla nausea, da Padre Bresciani in poi, fino a farne un luogo comune letterario; e tutte le buo­ne qualità morali che ai sardi si riconoscono universalmen­te, quali la fedeltà, 1′amore per la patria e per la famiglia, il coraggio, la lealtà, ecc. ecc., vengono fatte discendere da quella qualità fondamentale. Una volta fatto questo riconoscimento, sia lecito, a me sardo, porre una domanda. Come mai un popolo così ricco di qualità morali e tutt’ altro che privo di intelligenza (chiun­que sia stato in Sardegna sa che la media dell’intelligenza è elevatissima) non ha lasciato tracce di sé nella storia; co­me mai la Sardegna non ha avuto nessun grande uomo? Si annoverano insigni studiosi, giuristi, qualche storico, qual­che buon generale, ma veri e propri grandi uomini no. Sem bra sia negato, a noi sardi, quel tanto di fantasia che occor­re per essere grandi uomini. Solo due personaggi della sto­ria sarda hanno questo carattere di fantasia: Eleonora d’Ar­borea e Grazia Deledda. Ma sono donne, non uomini. Sa­rebbe interessante studiare il carattere di queste due don­ne per arrivare a stabilire fino a che punto la loro forza ri­posi su una concezione matriarcale della vita che solo in parte contrasta con la famosa irsuta virilità degli uomini sardi. Perché una specie di matriarcato vige, in realtà, in Sar­degna. Direi un matriarcato clandestino, che non è tornato alle antiche forme barbariche solo per una innata delicatez­za e discrezione della donna sarda. Con tutto il rispetto che ho per i miei conterranei di sesso maschile (e con loro buo­na pace) devo rivelare un segreto che pochi conoscono. L’ar­monia tra i due sessi, che Lawrence esaltò parlando della Sardegna, in realtà non esiste. In Sardegna la società è for­mata da due parti che legano male, come una medaglia fusa in due metalli diversi. Se noi consideriamo la vita di qua­lunque villaggio sardo – la vita di tutti i giorni, in tutti i suoi aspetti – noi vediamo che esiste una differenza pro­fonda tra la vita degli uomini e quella della donna; tra la concezione del tempo che ha l’uomo e quella che ha la don­na. E vediamo che tutto ciò che dipende dalla donna fun­ziona, mentre tutto ciò che dipende dall’uomo funziona ma­le. È l’uomo che costruisce la casa, ma le case sarde sono tra le più brutte e le più miserabili che si possono vedere sulla faccia della terra: la donna non solo rende abitabili que­ste povere case, ma dà loro un’impronta di civiltà con po­che cose essenziali. I tappeti che essa fabbrica sono vere e proprie opere d’arte. L’uomo fa strade, ma le fa male e non ne cura la manutenzione. I veicoli che percorrono queste strade sono ancora quelli dell’età preistorica. Non sarebbe possibile trasportare da un paese all’ altro o dal podere alla casa altro che delle pietre, o tutt’ al più delle patate. Invece si trasportano dolci, e chi è stato in Sardegna sa quanto squisiti e delicati: si trasportano grazie alle donne. Sono esse che viaggiano con un cestello sulla testa. lo amo il loro lun­go passo matriarcale e leggero sotto le vesti scure. Guai se in Sardegna non ci fossero simili donne. Sarem­mo senza remissione riprecipitati nella barbarie di cui stia­mo sempre sull’orlo. Pur essendo cessate ormai le ragioni che determinarono quella sorta di urbanesimo che paraliz­za la vita rurale sarda, i nostri contadini continuano ad abi­tare grossi agglomerati urbani, e la campagna è deserta. Il sardo, Pur in uno spazio ristretto, si sposta come un noma­de per andare a coltivare il grano o a pascolare le pecore, dorme all’ addiaccio, si cambia la camicia una volta al mese. La donna lo raggiunge come può, gli fa sentire una presen­za costante, vigile. E quando il contadino o il pastore sper­duto nella solitudine trae dalla bisaccia il tovagliolo di lino in cui è avvolto il pane, si spande di là, non soltanto mate­rialmente, la fragranza della casa. Pane e lino si rifanno a una tradizione essenziale quanto antica di civiltà, e solo la donna ne è depositaria e custode. E non credo che sia esa­gerato affermare che le catalogate virtù di cui noi, uomini sardi, ci fregiamo, e che rientrano nella categoria generica e appariscente della virilità, non siano altro che riflessi di vere, profonde, silenziose e solide virtù femminili a cui nes­suno ha finora pensato di dare un nome. Benché sardo, qualche volta guardo i miei sardi con sor­presa. Non so del tutto spiegar mi certi loro modi, certo pi­glio eroico. Non che siano degli spacconi: sono sobri nei gesti e nella parola. Pur tuttavia hanno un certo modo di buttar­si il mantello sulla spalla come se andassero a compiere chi sa quali imprese. Invece vanno semplicemente a riportare all’ ovile i bidoni vuoti. Si mettono in testa la berretta co­me un elmo antico, e questo è un po’ esagerato, anche se vanno a caccia del cinghiale. Forse, se invece del mare aves­sero avuto intorno ai loro monti le pianure dell’ Asia, que­sti cavalieri sarebbero stati dei conquistatori. Anzi saremmo stati, perché ci sono anch’io. Ma noi abbiamo paura del mare. Ne stiamo a rispettosa distanza. È questo che ci manca per essere davvero eroici, davvero come ci vedeva Lawren­ce. Abbiamo una paura ancestrale, invincibile. Chi sa qua­le immane naufragio ci ha travolti in tempi antichissimi. Ba­sta guardare un sardo per capire che non va d’accordo con l’acqua. Persino i nostri cavalli, quando vedono il mare, pun tano i piedi. Ma è la nostra paura che si trasmette ad essi come una scossa elettrica. Sta a noi riscattarcene; ma fino­ra non ci abbiamo ancora pensato seriamente. lo penso alle nostre donne come a tante Penelopi senza Ulisse. Per secoli e secoli sono state al telaio a tessere quei tappeti di cui, noi uomini, siamo fieri, e che sono, in realtà, molto belli. Ma quei tappeti avrebbero il valore che noi uo­mini gli attribuiamo solo se fossero stati tessuti durante la nostra assenza, mentre noi navigavamo in mari lontani, ed esse erano là, nell’ antica casa, ad aspettarci. Invece noi era­vamo appena a qualche chilometro di distanza, a mungere le nostre pecore, oppure seduti per ore e ore a canticchiare qualche nenia e a tagliuzzare col nostro terribile coltello un gambo d’asfodelo. Mi si dirà che esagero, che i sardi hanno dato prova di esser dei buoni soldati e di poter essere, al­l’occorrenza, terribili banditi. D’accordo; ma era il meno che potessero fare per tentare d’adeguarsi a donne come le nostre. Donne così fedeli, così costanti, così coraggiose, così resistenti alla solitudine eran fatte per esser mogli di uomi­ni che non avessero paura del mare e dello spazio, mogli di grandi naviga tori. lo me le immagino sedute alloro te­laio, ma al centro di continenti e di oceani, punto di par­tenza e punto di approdo. Povere mogli di eroi deluse! Solo al tempo dei nuraghi i sardi fecero qualcosa di vera­mente importante. Quella volta furono gli uomini, credo, perché si trattava, per costruire quelle torri a tronco di co­no che servivano da fortilizi, si trattava di trasportare e col­locare a regola d’arte, dopo averli squadrati, massi di granito del peso, talvolta, di qualche decina di tonnellate. E se si pensa che di queste torri in Sardegna, tra grandi e picco­le, se ne contavano circa ottomila, si deve ammettere che i sardi dovessero essere abbastanza bene organizzati. Inol­tre, per fare opere del genere, bisognava avere cognizioni architettoniche che presuppongono un alto grado di civil­tà. Ebbene, ciò nonostante, non si trova una sola iscrizione dell’età nuragica. È uno dei tanti misteri che gli archeologi non riescono a spiegare in Sardegna. Ma ciò che rende il mistero più interessante, è che questa mancanza di iscrizio­ni si accorda perfettamente con la ripugnanza innata e per­sistente nei secoli che i sardi hanno per l’alfabeto. Il nostro analfabetismo è granitico, nuragico, eppure ci sono dei sar­di analfabeti e tuttavia intelligentissimi e anche, in certo senso, civili. Ciò può essere: basta pensare, ad esempio, a Carlo Magno. Il sardo odia l’alfabeto come l’acqua. Anche l’alfabeto è spazio, come il mare. Sono due ripugnanze che si spiegano a vicenda. Non così per la donna. La donna sar­da non odia punto l’acqua: basta vederle quando vanno al fiume, estate e inverno, indifferentemente. E di solito san­no leggere e scrivere. Ma il fatto veramente degno di consi­derazione – che è anche il secondo segreto che mi propo­nevo di rivelare – è questo. Gli archeologi non hanno ab­bastanza apprezzato il contributo dato dalle donne in ge­nere alla civiltà nella creazione dei simboli che divennero poi ideogrammi, geroglifici e, infine, lettere dell’alfabeto. Forse nessuno ha osservato la delicatezza femminile dei più antichi ideogrammi, tanto egizi che cinesi. Certamente è una mano di donna che li ha tracciati. Potrei darne prove sicu­re. L’uomo, solo in seguito, col suo razionalismo, li ordinò e coordinò; e ne nacquero geroglifici e alfabeti.

Ebbene la donna sarda non mancò, nemmeno in questo, al suo compito. Osservate i fregi dei suoi tappeti, i ricami delle sue tele di lino: cervi, colombi, galli, fiori … Non sono altro che simboli di un linguaggio ideografico di cui essa offrì all’uomo i rudimenti, ma che l’uomo sardo non seppe o non volle sviluppare. Dò ai miei conterranei questo modesto consiglio: attenti al linguaggio ideografico delle nostre donne!Scherzi a parte, impariamo dalle nostre donne a fare tut­to ciò che finora non abbiamo fatto e che avremmo dovuto fare da secoli. Perché non basta essere fieri e virili per esse­re mariti di Penelope.

 

 

Peppino Mereu:il poeta “maledetto”, il poeta socialista di FRANCESCO CASULA

PEPPINO MEREU:

Il poeta “maledetto”, il poeta socialista (1872-1901)*

di Francesco Casula

Nasce a Tonara (Nuoro) il 14 Gennaio 1872. Il padre, medico condotto del paese muore accidentalmente nel 1889 bevendo del veleno che aveva scambiato per liquore. Interrompe gli studi dopo la terza elementare –a Tonara non esistevano altre scuole e per proseguire gli studi avrebbe dovuto recarsi fuori dal paese- e diventa sostanzialmente un autodidatta: non si spiega diversamente la sua conoscenza del latino e della mitologia classica cui fa riferimento in alcune sue poesie.

Da giovanissimo inizia a cantare e a scrivere poesie frequentando i poeti tonaresi più noti: Bachis Sulis e altri. A 19 anni e precisamente il 7 Aprile 1891 si arruola volontario carabiniere: durante i cinque anni della vita militare in vari paesi dell’Isola, visse fra Nuoro e Cagliari, Osilo, Sassari, –i cui nomi figurano nelle date di alcune poesie-  dove conosce alcuni poeti sardi. Canta le sue poesie nelle feste e nelle sagre paesane dimostrando grandi capacità poetiche e di improvvisazione. Questi anni (1891-1895) segnano profondamente la sua formazione: prende coscienza delle ingiustizie e degli abusi di potere, tipici del sistema militare. Di qui la sua critica spietata al ruolo dei carabinieri, che invece di essere difensori della giustizia sono spesso alleati degli stessi trasgressori della legge. Significativi a questo proposito i versi diventati a livello popolare famosissimi, soprattutto nel Nuorese: Deo no isco sos carabinersi/in logu nostru proite bi suni/e non arrestan sos bangarutteris. (Io non capisco perché/da noi ci sono i carabinieri/e non arrestano i bancarottieri).

Proprio in questi anni prende consapevolezza dei problemi socio-economici-culturali della Sardegna e aderisce alle idee socialiste del tempo, un socialismo utopistico in cui il poeta individua la soluzione per i problemi delle classi lavoratrici e oppresse. Idee e valori socialisti che Mereu  diffonde affidandosi alle sue poesie per sostenere con nettezza, prima di tutto la libertà e l’uguaglianza: Senza distinziones curiales/devimus esser, fizos de un’insigna/liberos, rispettados, uguales (Senza distinzioni curiali/ dobbiamo essere figli di una stessa bandiera/:liberi, uguali, rispettati). Per continuare con la rivendicazione del suffragio elettorale che i Socialisti propugnavano con forza e che il poeta di Tonara così canterà, -proprio nel 1892, anno della nascita del Partito socialista- Si s’avverat cuddu terremotu/su chi Giacu Siotto est preighende/puru sa poveres’ hat haer votu/happ’a bider dolentes esclamende/<mea culpa> sos viles prinzipales/palattos e terrinos dividende/. (Se si avvera quel terremoto/per cui sta pregando Giago Siotto/che anche i poveri potranno votare/potrò vedere, addolorati, gridare/<mea culpa>i vili printzipali/a dividere palazzi e terreni/).

Oltre a denunciare le ingiustizie sociali e i soprusi subiti dal popolo -che in A Genesio Lamberti, invita alla ribellione- Mereu mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).Il poeta il 6 Dicembre 1895 per motivi di salute viene congedato: ritorna così a Tonara. La sua produzione poetica se da una parte è pervasa da motivi melanconici, dall’altra accentua la critica ai rappresentanti della Chiesa e del potere locale; se da una parte srotola poesie “della morte”, dall’altra dipana componimenti scherzosi e allegri, brevi ritratti schizzati in punta di penna di figure e fatti di paese, irridente e maledicente come quando in Su Testamentu, sentendo ormai prossima la morte, nel confessarsi accusa e maledice, cantando con tutta l’amarezza di un cuore esacerbato, che raggiunge toni epici di violenza espressiva: pro ch’imbolare unu frastimu ebbia/a chie m’hat causadu custa rutta/vivat chent’annos ma paralizzadu/dae male caducu e dae gutta (per lanciare una sola maledizione/colui che è stato causa di questa mia disgrazia/viva cent’anni ma paralizzato/dall’epilessia e dalla gotta). Consumato dalla tisi, che candela de chera (come una candela di cera) muore l’11 marzo 1901 a soli 29 anni. 

La crisi economica e sociale della Sardegna di fine Ottocento

Soprattutto in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia (1887) e la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 –ricorda lo storico Carta-Raspi- erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.A ciò dobbiamo aggiungere –per capire il dramma che vivrà la Sardegna- il fiscalismo operato dal Governo del nuovo stato italiano nei confronti dell’Isola. Di tali “sofferenze” a più riprese parlerà Antonio Gramsci, fra l’altro scrivendone il 16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo proprio “I dolori della Sardegna”.Nel cinquantennio 1860-1910 –scriverà- lo Stato italiano nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”? Proseguirà ricordando che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale –come aveva sostenuto e documentato il parlamentare sardo Enrico Carboni-Boy- ciascun abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più  di quello di regioni ricchissimequali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66). Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente “La Brigata Sassari” e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino oltre che con le tasse sproporzionate, con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde; con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le Americhe: ben centomila lasciarono l’Isola; con l’allocazione di tutti i centri decisionali e di potere a Torino: ad iniziare dai Consiglio di Amministrazione delle Ferrovie sarde e di alcune società minerarie i cui membri –sottolinea Gramsci- erano lautamente retribuiti.

A NANNI SULIS

1.

NANNEDDU meu,

su mund’est gai,

a sicut erat1

non torrat mai.

2.

Semus in tempos

de tirannias,

infamidades

e carestias.

3.

Como sos populos

cascant che cane,

gridende forte

«Cherimus pane».

4.

Famidos, nois

semus pappande

pane e castanza,

terra cun lande.

5.

Terra c’a fangu

Torrat su poveru

senz’alimentu,

senza ricoveru.

6.

B’est sa fillossera2,

impostas, tinzas,

chi non distruint

campos e binzas

7. .

Undas chi falant

in Campidanu

trazan3 tesoros

a s’oceanu.

8.

Cixerr’in Uda,

Sumasu, Assemene,

domos e binzas

torrant a tremene.

9.

E non est semper

ch’in iras malas

intrat in cheja

Dionis’Iscalas.

10.

Terra si pappat,

pro cumpanaticu

bi sunt sas ratas

de su focaticu.

11.

Cuddas banderas

numeru trinta,

de binu onu,

mudad’hant tinta.

12.

Appenas mortas

cussas banderas

non piùs s’osservant

imbreagheras.

13.

Amig’ a tottus

fit su Milesu,

como lu timent,

che passant tesu.

14.

Santulussurzu

cun Solarussa

non sunt amigos

piùs de sa bussa.

15.

Semus sididos

in sas funtanas,

pretende sabba

parimus ranas.

16.

Peus su famene

chi, forte, sonat

sa janna a tottus

e non perdonat.

17.

Avvocadeddos,

laureados,

bussacas buidas,

ispiantados

18.

in sas campagnas

pappana4 mura,

che crabas lanzas

in sa cresura.

19.

Cand’est famida

s’avvocazia,

cheres chi penset

in Beccaria? 5

20.

Mancu pro sognu,

su quisitu

est de cumbincher

tant’appetitu.

21.

Poi, abolidu

pabillu e lapis

intrat in ballu

su rapio rapis6.

22.

Mudant sas tintas

de su quadru,

s’omin’ onestu

diventat ladru.

23.

Sos tristos corvos

a chie los lassas?

Pienos de tirrias

e malas trassas.

24.

Canaglia infame

 

piena de braga,

cherent s’iscettru

cherent sa daga!7

25.

Ma non bi torrant

a sos antigos

tempos de infamias

e de intrigos

26.

Pretant a Roma

Mannu est s’ostaculu ;

Ferru est s’ispada

Linna est su baculu

27.

S’intulzu apostolu

De su segnore

Si finghet santu

Ite impostore!

28.

Sos corvos suos

Tristos, molestos

Sunt sa discordia

De sos onestos

29.

E gai chi tottus

Faghimus gherra

Pro pagas dies

De vida in terra

30.

Dae sinistra

Oltad’a destra,

e semper bides

una minestra.

31.

Maccos, famidos,

ladros, baccanu

faghimus, nemos

halzet sa manu

32.

Adiosu, Vanni,

tenedi contu,

faghe su surdu,

ettad’a tontu.

33.

A tantu, l’ides,

su mund’est gai

a sicut erat

non torrat mai.

traduzione

A  VANNI SULIS

1. Nanneddu mio, così va il mondo: com’era un tempo non sarà più.

2. Viviamo in tempi di tirannia, soprusi e carestia.

3. Ora il popolo sbadiglia come un cane affamato, gridando a gran voce: «Vogliamo pane».

4. E noi, affamati, mangiamo pane di castagne, terra con ghiande.

5. La terra in fango riduce il povero, che non ha alimen­ti né casa.

6. La fillossera, le imposte e la peste ci distruggono i campi e le vigne.

7. Le piene che si riversano nel Campidano, trasportano tesori al mare.

8. Il Cixerri in Uta, Elmas e Assemini case e vigne manda in rovina.

9. E non sempre, durante i violenti temporali si può rifugiare in chiesa Dionigi Scalas.

10. Ci si nutre di terra, per companatico ci sono le rate del focatico.

11. Quelle compagnie molto numerose e amiche del buon vino hanno cambiato colorito.

12. Sciolte queste compagnie, non si vedono più persone sbronze.

13. Amico di tutti era il Milese ora ne hanno paura e lo sfuggono.

14. Santulussurgiu e Solarussa non sono più amici del portafo­glio.

15. Siamo assetati, alle fontane, lottando per l’acqua, sembriamo rane.

16. Peggio ancora, la fame bussa insistentemente ad ogni porta e non perdona.

17. Avvocatucci, laureati, a tasche vuote e spiantati

18. Nelle campagne mangiano more, come capre magre lungo le siepi.

19. Quando è affamata, la categoria degli avvocati vuoi che pensi a Beccaria?

20. Neanche per sogno, il dilemma è quello di soddisfare tanto appetito.

21. Quindi, messe da parte carta e matita, entra in ballo il rapio rapis.

22. Cambiano i colori del quadro, e l’uomo onesto diventa ladro.

23. I corvi scellerati a chi li lasci? Pieni di perfidia e im­broglioni.

24. Canaglia infame piena di boria, vuole lo scettro e il co­mando.

25. Ma non tornerà agli antichi tempi d’infamia e di intrighi.

26. Litigano a Roma, l’ostacolo è grande; di ferro è la spada, di legno il bastone.

27. L’avvoltoio apostolo del Signore, si mostra santo, che impo­store!

28. I suoi corvi scellerati e molesti sono la discordia degli uomini onesti.

29. E così tutti facciamo guerra per i pochi giorni di vita.

30. Se da sinistra ti volti a destra vedi sempre la stessa mine­stra.

31. Scellerati, affamati, ladri, creiamo disordine e nessuno si opponga.

32. Arrivederci, Nanni, rifletti su questo, fai il sordo e fingi di non capire.

33. Perché, è chiaro, così va il mondo: com’era un tempo non sarà più.

 

DAE UNA LOSA ISMENTIGADA

1.

Non sias ingrata, no, para sos passos,

o giovana ch’ in vid’ happ’istimadu.

Lassa sas allegrias e ispassos

e pensa chi so inoghe sepultadu.

Vermes ischivos si sunt fattos rassos

de cuddos ojos chi tantu has miradu.

Para, par’ un’istante, e tene cura

de cust’ ismentigada sepoltura.

2.

A ti nd’ammentas, cando chi vivia

passaimis ridend’oras interas?

Como happ’ una trista cumpagnia

de ossos e de testas cadaveras,

fin’ a mortu mi faghent pauria

su tremendu silenziu ‘e sas osseras.

E tue non ti dignas un’istante

de pensare ch’ inog’ has un amante!

3.

Ben’ a’ custas osseras, cun anneos,

si non est falsu su chi mi giuraist,

e pensa chi bi sunt sos ossos meos,

sos ossos de su corpus ch’istimaist;

fattos in pruer, non pius intreos

coment’ e cand’ a biu l’abbrazzaist.

Non pius agattas sas formas antigas,

ca so pastu de vermes e formigas.

4.

Bae, ma cando ses dormind’ a lettu

una oghe ti dèt benner in su bentu,

su coro t’hat a tremer’ in su pettu

a’ cussa trista boghe de lamentu

chi t’hat a narrar : custo fit s’affettu,

custo fit su solenne jurasnentu?

Inoghe non ti firmas, lestra passas,

e a’ custa trista rughe non t’abbassas.

5.

Cando passas inoghe pass’umìle ;

t’imponzat custa pedra su rispettu,

ca so mortu pro te anima vile,

privu de isperanz’ e de affettu.

Dae custa fritta losa unu gentile

fiore sega e ponedil’ in pettu,

pro c’ammentes comente t’happ’amadu,

già chi tue ti l’has ismentigadu.

 

Traduzione:DA UNA TOMBA DIMENTICATA

1. Non essere ingrata, no, ferma i passi, o giovane che in vita ho amato. Lascia le allegrie e gli spassi e pensa che sono qui sepolto. Vermi schifosi si sono fatti grassi di quegli occhi che tanto hai guardato. Fermati, per un istante, e pensa a questa dimenticata sepoltura.

2. Ti ricordi, quando ero vivo e passavamo ridendo ore intere? Ora ho una triste compagnia di ossa e di teste morte, perfino da morto mi fa paura il tremendo silenzio degli ossari. E tu non ti degni un momento di pensare che qui hai un amante!

3. Vieni a questi ossari, con pene, se non è falso quello che mi giurasti e pensa che ci sono le mie ossa, le ossa del corpo che hai amato; diventati polvere, non più intere come quando da vivo le abbracciavi. Non trovi più le forme antiche, perché son  cibo di vermi e di formiche.

4 Va’, ma quando stai dormendo nel letto una voce ti verrà nel vento, il cuore ti tremerà nel petto a quella voce triste di lamento che ti dirà: «questo era l’affetto, questo era il solenne giuramento?». Qui non ti fermare, passa svelta, e a questa triste croce non ti chinare.

5. Quando passi qui passa umile: ti imponga questa pietra il rispetto, perché sono morto per colpa tua anima vile, privo di speranza e di affetto. Da questa fredda tomba un gentile fiore taglia e mettitelo in petto, perché ricordi come t’ho amata, dal momento che tu l’hai dimenticato. 

*Tratto da “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula, volume 1°, Edizioni Grafica del Parteolla, 2011, Dolianova.