Lingua sarda e Identità: Convegno a Quartu 15-12-2012

1. Valore etico, etnico e antropologico della Lingua sarda.

La Lingua sarda infine, essendo la più forte ed essenziale componente del patrimonio ricchissimo di tradizioni e di memorie popolari, sta a fondamento -per usare l’espressione di Giovanni Lilliu- “dell’Identità della Sardegna e del diritto ad esistere dei Sardi, come nazionalità e come popolo, che affonda le sue radici nel senso profondo della sua storia, atipica e dissonante rispetto alla coeva storia e cultura mediterranea ed europea”.

   Assume cioè un valore etico, etnico-nazionale e antropologico e, se si vuole, anche politico, nel senso di riscatto dell’Isola e del suo diritto-dovere all’Autodeterminazione.

   Il che non significa che la nostra Identità debba tradursi in forme di chiusura autocastrante o di separazione: essa deve invece essere accettata e riconosciuta come la condizione base del nostro modo di situarci nel mondo e di dialogare con gli orizzonti più diversi, “senza cedere alla tentazione –come osserva acutamente il filosofo sardo Placido Cherchi – di usare la nostra differenza come ideologia o di caricarla, a seconda delle fasi, ora di arroganze etnocentriche ora di significati autodepressivi “.

 

 

2. Valore musicale, letterario e poetico della Lingua sarda.

La Lingua sarda con la sua magia evoca e penetra, il mistero dell’anima e riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tot’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti.

Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.

Quella lingua che è ancora libera, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento: e ciò vale anche per tutte le altre lingue ancentrali.

A fronte delle lingue imperiali, vieppiù fredde, commerciali e burocratiche, vieppiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini.

CONFERENZA SU GIOVANNI MARIA ANGIOY di Francesco Casula(Flumini 13-12-2012)

 

La figura e l’opera di GIOVANNI MARIA ANGIOY

1. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice

della Reale Udienza – La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento,

nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che

hanno attraversato la società sarda; la sua vicenda politica ed umana assume infatti

un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi,

vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti

rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto

si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver

studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773

a Cagliari inizia la pratica forense.

Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un

alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.

Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due

membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.

 

2. Angioy e i moti del 1795 – “I moti del 1795 – scrive Federico Francioni – a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi – per esempio fra Thiesi, Bessude, Borutta e Cheremule il 24 novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di non riconoscere più alcun feudatario”

“Lo sbocco di questo ampio movimento – scrivono Lorenzo e Vittoria Del Piano – autenticamente rivoluzionario e sociale perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne fu l’assedio di Sassari” Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a

fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi.

Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto economico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne, si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy.

 

3. Angioy “Alternos” – Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale,

con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli

Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri

civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi

vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire

il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo

lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia

di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe

potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro.

L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le

proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella

abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo:

seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius – “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.

 

4. L’Angioy a Sassari – Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino

i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in

breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò

un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori

di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari

il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due

città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli,

impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare

sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Gavino Muroni, amico e sostenitore

di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti

dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai

baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera

spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che

tra poco intraprenderà, cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei

paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile

più contenere e gestire e assurdo e controproducente era cercare di reprimere.

Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono

durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise

perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro

comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era

ormai inarrestabile” (Natale Sanna). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

 

5. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…

Il 2 giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di

dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico

dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i

preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, fatta

sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese

contro di lui (Lorenzo e Vittoria Del Piano).

Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari,cercarono di

impedirgli il passaggio, sicché egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano.

Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò

gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani

come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere

in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos:

l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche

piatto di lenticchie.

Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso

dalla carica di alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta nazionale sarda, popolare, antipiemontese e antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”.

Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come

risulta dal suo Memoriale non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo

ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in

Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola.

 

Alcune motivazioni per introdurre la Lingua sarda a scuola

Alcuni motivi (didattici, culturali, civili) per introdurre il Sardo nelle scuole9

Sono comunque plurime e di diversa natura le motivazioni – didattiche, culturali, educative, civili – che pongono con urgenza e senza ulteriori rinvii la necessità dell’introduzione del Bilinguismo nella scuola.

   Pedagogisti come linguisti e glottologi, psicologi come psicoanalisti e perfino psichiatri, ritengono infatti che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico si configurino non come un fatto increscioso da correggere  e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono lo sviluppo comunicativo degli studenti perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo. In particolare la lingua materna (quella sarda per noi) serve:

per allargare le loro competenze degli studenti, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi;

per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue;

per prendere coscienza della propria identità  etno-linguistica ed etno–storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, “gergale“.

Inoltre, -premesso che la sollecitazione delle capacità linguistiche deve partire dall’individuazione del retroterra linguistico, culturale, personale, familiare, ambientale dell’allievo e del giovane, non per fissarlo e inchiodarlo a questo retroterra ma, al contrario, per arricchire il suo patrimonio linguistico- l’educazione bilingue svolge delle funzioni che vanno al di là e al di sopra dell’insegnamento della lingua: si pone infatti anche come strumento per iniziare a risolvere i problemi dello svantaggio culturale, dell’insuccesso scolastico e della stessa “dispersione” e mortalità come della precaria alfabetizzazione di gran parte della popolazione, evidente e diffusa a livello di scolarità di base ma anche superiore. Ma lo studio della lingua sarda, va al di là di questi pur importanti obiettivi.

 

9. Studio della Lingua sarda e apprendimento delle altre lingue. Bilinguismo e Biculturalità.

Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere “un impaccio“, “ una sottrazione”, sarà invece un elemento di “addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse, perché il vero bilinguismo è insieme biculturalità, e cioè immersione e partecipazione attiva ai contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture, europee e mondiali. La Lingua sarda infatti in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno-antropologica  e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento  nella propria tradizione e nella propria cultura. Una lingua che non resta però immobile –come del resto l’identità di un popolo– come fosse un fossile  o un bronzetto nuragico, ma si “costruisce”  dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua, non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.