CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Efisio Vincenzo Melis

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Efisio Vincenzo Melis

di Francesco Casula

Efisio Vincenzo Melis nasce a Guamaggiore (Ca) il 6 gennaio 1889. Figlio di Giovanni Melis che anche sindaco di Guamaggiore per molti anni anche sindaco di Guamaggiore per molti anni – e di Anna Sirigu.
Di famiglia benestante – scrive Bruno Michele Aresu, uno dei più importanti studiosi del commediografo – proprietaria di un’azienda agricola. Una delle famiglie più benestanti del paese, una famiglia di messaius mannus o quanto meno di proprietarius pmattuccus, precisa Giulio Angioni, altro grande studioso di Melis.
Abilitatosi in Matematica, insegnerà prima a Cagliari, nell’Istituto tecnico-industriale e poi, per un breve tempo, in Veneto, in un Istituto superiore Per poi ritornare ad insegnare a Cagliari. Coltivando la sua passione per il teatro e scrivendo numerose opere teatrali, in sardo-trexentese.
Affetto da tubercolosi, a soli 33 anni morì il 16 maggio del 1922 a Cagliari.
Le sue opere più importanti sono: “Ziu Paddori” (1919), “Su Bandidori” del 1920 e L’Onorevole a Campodaliga del 1921, quest’ultima non conclusa a causa della sua precoce morte.
La più nota delle sue tre opere è Ziu Paddori, comunemente detta Sa cummedia de Paddori, in tre atti, rappresentata a Cagliari la prima volta nel 1912. Il locale allestito per la rappresentazione – ricorda Aresu – era un grande magazzino adibito a rivendita di ferro per fabbri, in Via Sassari. Melis si avvalse della Compagnia da lui fondata a Guamaggiore, i cui attori “storici” erano Vincenzo Naitza nella parte di Tziu paddori ed Efisia Fais in quella di Antioga, sua moglie.
Nel 1919 invece fu messa in scena al Politeama Regina Margherita di Cagliari. Protagonisti l’autore stesso e Rachele Piras Medas, capostipite della famiglia d’arte dei Fratelli Medas, che hanno rappresentato fino a oggi come parte importante del loro repertorio anche le altre due commedie del Melis: Su Bandidori, e L’onorevole a Campodaliga.
Nelle sue opere si mette in scena in particolare il contrasto (anche linguistico) tra città e campagna e tra isola e continente, con ironia e comicità che hanno fatto del personaggio di Ziu Paddori, come scrive Giulio Angioni, una sorta di maschera popolare del pastore sardo alle prese con l’irrompere della modernità, e poi del coinvolgimento dei contadini e dei pastori sardi nella tragedia della guerra del ’15-’18 (Su Bandidori). Questa scritta
La vicenda di questa commedia – scrive Sergio Bullegas, altro grande studioso del Melis e curatore di una bella edizione di Su Bandidori – “dovrebbe essere imperniata intorno alla figura del protagonista, su bandidori, ma è bene dire subito che una trama vera e propria non esiste: il sottotitolo di Commedia in tre atti, rimane un pretesto puramente formale. La commedia infatti, si regge sulla convivenza scenica di due mondi linguistici – quello sardo-campidanese e quello italiano – il cui scontro dà origine a una comicità tutta intessuta di gags, di qui pro quo, di equivoci verbali. In quest’ambito la figura del protagonista ha solo la funzione di innescare, con la sua lingua colorita, con il suo atteggiamento goffo e ingenuo d un tempo, la risata del pubblico”.
Mentre in L’onorevole a Campodaliga (campo di aliga: deposito di immondezza), l’ultima delle commedie, per la quale ha tratto sicuramente spunto dall’esperienza di suo padre sindaco, in qualche modo, a parere di Angioni, “è linguisticamente codificato il suo distacco di intellettuale diverso rispetto al «natio borgo selvaggio», che egli porta sulle scene, si può ben dire, solo come occasione di riso e divertimento”.

Presentazione del testo [Le due scene sono tratte dal Primo Atto della Commedia Ziu Paddori,, in tre Atti, a cura di Giulio Angioni, Edes, Cagliari, 1977, pagine 12-15].

Ziu Paddori è senza ombra di dubbio la farsa più nota e comunque più popolare fra tutte le commedie in lingua sarda: grazie anche al fatto che da un secolo circa oramai non solo è stata (ed ancora) rappresentata da attori professionisti e dilettanti ma anche trasmessa più volte in Radio e Televisione.
Durante tutto il Novecento ha dedicato molto a questa commedia e al personaggio di Ziu Paddori soprattutto la famiglia di attori “Figli d’arte Medas”. I Paddoris più noti sono infatti Antonino Medas, Mario Medas e suo figlio Gianluca Medas (di Guasila, dove è attivo un Teatro Fratelli Medas), la cui madre e nonna, Rachele, recitò con successo il personaggio di Antioga, moglie di Paddori, nelle prime rappresentazioni cagliaritane del 1919 al teatro Politeama.
La prima scena della commedia, che ha luogo in una stazione delle ferrovie secondarie sarde, a Suelli, si apre con Gervasio, un ricco commerciante torinese, snob, tronfio e spocchioso, che parla un linguaggio magniloquente e inamidato e che si lamenta perché in questa benedetta Sardegna an¬che i treni sono lenti e i suoi abitanti sono ignoranti che non si capiscono, gente rozza, supersti¬ziosa che parla un dialetto buffo ed incom¬prensibile.
Ma è nella seconda scena che si entra nel vivo della commedia: nella sala d’attesa della stazione ferroviaria Gervasio incontra Ziu Paddori, pastore di Guamaggiore, piccolo centro della Trexenta (il paese natale di Melis).
Iniziano un dialogo esilarante, caratterizzato da giochi linguistici e fraintendimenti: così i’ bil¬lettusu (biglietti) di Ziu Paddori diventano belletti ovvero quella sostanza che serve per abbellire il volto alle signore per Gervasio.
E quando Gervasio indica una specie di finestra dove poter fare i biglietti, Ziu Paddori capisce minestra.
Ma i fraintendimenti e i qui pro quo linguistici non riguardano solo Ziu Paddori e Gervasio ma anche Ziu Paddori e il figlio Arrafiebi, il soldato sardo espropriato della lingua materna e parlante un linguaggio mistilingue e ridicolo. Nella Commedia del Melis, il soldato Arrafiebi, figlio di Ziu paddori, rientra in paese in congedo. Alla stazione c’è ad aspettarlo il padre. Il miles gloriosus sardo, appena sceso dal treno si rivolge al padre e declama”Parde mio, io sono come Garibaldi l’eroe dei due mondi, ademputo il sacro dovere della patria, torro solitario ed errante nella mia casa”. Il padre che non ha capito nulla, risponde:”Intè Arrafiebi, gei essi torrai alliterau, fuedda fuedda fillu meu bellu”.

DEMISTIFICARE I SAVOIA: Vittorio Emanuele II, re galantuomo o rozzo beccaio?

 
Francesco Casula
di Francesco Casula
La storia sarda, (ma anche quella italiana) così come viene raccontata dai testi scolastici come dai Media in genere, quando non è falsa e falsificata, è una storia agiografica e mistificata. Segnatamente quella riguardante il cosiddetto Risorgimento e l’Unità d’Italia: con i “protagonisti” idolatrati e, cortigianescamente, esaltati. Non a caso, a loro (come ai loro pretoriani e amici) continuano ad essere dedicate, ubiquitariamente, Piazze, Vie, Monumenti, Scuole, Edifici pubblici, di qualsivoglia genere. A loro vengono affibiati epiteti vezzeggiativi: così Carlo Alberto,è re liberale; Umberto I, re buono: Vittorio Emanuele II, re galantuomo e Padre della Patria. A proposito di quest’ultimo non sembra essere d’accordo Lorenzo Del Boca*, storico, saggista e per 11 anni Presidente dell’Ordine nazionale dei Giornalisti, piemontese di nascita e di formazione, a dimostrazione che l’onestà intellettuale , rimane tale a qualsisi latitudine e versante geografico venga misurata. Per Del Boca lungi dall’essere galantuomo sarebbe un rozzo beccaio, alludendo evidentemente al fatto che morto da neonato il “vero” Vittorio Emanuele (in seguito a un incendio che avrebbe ucciso con il bambino la stessa governante), la famiglia reale avrebbe sostituito il neonato con il figlio di un certo Tonca, che di mestiere faceva appunto il macellaio. A mio parere comunque, non è questo il problema: la critica all’osannato re galantuomo, che la storiografia ufficiale ha usato come un santino esemplare di un processo risorgimentale, deve essere condotta su altri versanti che conduce a un verdetto impietoso: il suo lascito è, per tutta l’Italia e non solo per la Sardegna, radicalmente negativo e, scrive Del Boca, “foriero di mali divenuti endemici”. Scrive ancora Del Boca:“Vittorio Emanuele II diventò re d’Italia quasi per caso e, certo, senza che lui lo desiderasse davvero. Altri erano i suoi interessi e le sue ambizioni. Gli eroismi – di cui si disse – fu protagonista, furono operazioni di maquillage e di millantato credito costruiti a posteriori, inventati di sana pianta o aggiustati in modo da sembrare onorevoli”. E prosegue:”Il suo principale impegno si riassumeva nel preoccuparsi dei propri affari disinteressandosi di quelli del governo. I sudditi naturalmente avevano la libertà di pagare le tasse che le ricorrenti “finanziarie” dell’epoca imponevano loro, in modo che lui avesse qualche occasione in più per rovistare nell’erario e prelevare quanto gli seviva. La lista civile a sua disposizione – cioè l’insieme dei beni economici – era la più alta fra i paesi del mondo conosciuto e, facendo un rapporto con il potere d’acquisto, mai eguaglita in nessun tempo. Gli zar costavano meno, costa meno la regina d’Inghilterra e le spese della Casa Bianca sono più modeste. Nel 1867 il suo appannaggio raggiunse la cifra di 16 milioni, pari al 2% del bilancio complessivo dello Stato. Aveva mantenuto tutti i palazzi di casa savoia, ma rastrellando regioni e cacciando i sovrani che le governavano, acquisì le proprietà di quelle dinastie e le tenne tutte per sé…Calcoli attendibili indicano che i suoi immobili, comprese le tenute di caccia, fossero 343”. Insomma uno famelico. Come e più dei suoi predecessori: penso in modo particolare a Carlo ferotze. Ma qui mi fermo. Ci saranno altre puntate, per raccontare – fra l’altro – la corruzione che regnava sovrana nel suo Palazzo: altro che re galantuomo! *Lorenzo Del Boca, SAVOIA BOIA,Piemme, Milano 2018