2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

2° CONVEGNO SARDISTA A BOSA 29 ottobre 1967

Cari amici,
ci riuniamo a Bosa, nelle accoglienti sale del Centro di Cultura Popolare dopo quattro mesi dal primo nostro mee­ting del 2 luglio per discutere la situazione politica sarda, per valutare le scelte operate dal nostro Partito sia dopo la crisi di febbraio, sia dopo il fallimento del­la cosiddetta politica contestativa.
Voi sapete benissimo come la contestazione di Del Rio, la rivoluzione di luglio e gli avvenimenti suc­cessivi, soprattutto per la grinta dura mostrata dai padroni di Roma dei partiti metropolitani, siano approdati al porto della più grande beffa che il popolo sardo, in tutta la sua storia,abbia mai subito.
Il linguaggio aggressivo del Presidente Del Rio non corrispondeva e non corrisponde oggi a una pre­cisa volontà, sua e della Giunta di G0verno, di conqui­stare gli obiettivi che il famoso ordine del giorno-voto del Consiglio Regionale al Parlamento Italiano configu­rava. Il Governo italiano ha respinto tutte le richie­ste del popolo sardo, ha irriso con sprezzante paternalismo le istanze dei nostri legittimi rappresentanti, ha impedito al Presidente Del Rio, rappresentante elet­to del popolo sardo, di parlare alla sua gente per mezzo dello strumento più efficace: la radio.
E si è risolto tutto in un bagaglio inconsistente di promesse:
le solite promesse che da due secoli e mezzo piemontesi e italiani hanno fatto inalla in Sardegna, a questa vera e propria colonia, terra senza speranza di riscatto. Ed è per è per questo che oggi più che mai dobbiamo opporci al regime coloniale che che perdura, nonostante la concessione di una falsa autonomia.

 Oggi il banditismo, la cui importanza è stata amplificata in Italia e nel resto d’Europa con sadica insistenza dalla stampa di ogni colore, coadiuvata questa dalla compiaciuta complicità della radio e della televisione del monopolio italiano, è assurto a problema nazio­nale. Ma cosa vuol dire oggi in Sardegna, in questa 

terra di conquista e di sfruttamento, questione di importanza nazionale?

Significa soltanto che gli organi dello Stato, valicando i limiti delle competenze costituzionali, calpestando anche i brandelli formali dello Statuto Speciale di Autonomia della Sardegna, si sentono in dovere di intervenire. E viene accusato, ormai indi­scriminatamente, il popolo sardo e la sua classe politica; la sua classe dirigente, le migliaia e migliaia di lavoratori: i morti di fame di villaggi e delle borgate lontane, coloro che vivono cioè di sussidi e di rimesse degli emigranti. 

Ecco che un governo debole e inetto, come quel­lo italiano di oggi, ricerca un alibi storico con una inchiesta parlamentare. Ma voi sapete tutti che fine han­no fatto le precedenti inchieste parlamentari. La Sarde­gna è rimasta quella di prima. Sempre più povera e abban­donata. Non a caso, cari amici, accuso formalmente il pre­potere italiano di genocidio delle genti sarde. Perché quando ai sardi si nega il diritto alla vita, non si in­terviene con i finanziamenti stabiliti dalla legge, ma si invia un corpo militare di polizia e di carabinieri per distruggere la piaga del banditismo, con il semplice ri­sultato di sottoporre le popolazioni ad angherie, a so­prusi, a minacce di ogni genere, ebbene, allora si agisce secondo i più brutali e odiosi sistemi coloniali. Si ripe­te l’errore della Francia in Algeria. E le province dell’Algeria settentrionale per chi non lo rammentasse, erano considerate territorio metropolitano con uno Statuto speciale di autonomia. E gli al­gerini, nonostante questa concessione suprema della Repub­blica francese,si sono ribellati, sino a cacciare i francesi dal loro territorio e conquistare così, col sacrifi­cio e col sangue, la piena libertà e l’indipendenza. Ma gli algerini erano fiancheggiati dagli altri popoli arabi, dai marocchini, dai tunisini, dai libici e dalla Lega Araba. La loro guerriglia era sorretta dalla simpatia dell’opinione pubblica mondiale e, nella stessa Francia, paese civile, larga parte della popolazione me­tropolitana, gli intellettuali e i potenti, parteggiava per la liberazione dell’antica colonia. Noi, che siamo nelle stesse condizioni dell’Algeria di allora, non abbiamo nessuno, né stati amici né lega araba né popoli che parlino la nostra lingua che ci appoggino, ci sostengano, e sposino la nostra causa. Noi siamo soli, terribilmente soli, alla mercé della prepotenza italiana, della polizia italiana, dei prefetti-governatori italiani. E in mezzo a noi fioriscono come le rose di maggio i traditori, l prezzolati, i venduti, i servitori del padrone d’oltremare. Tutto ciò dovrebbe consigliarci a desistere dal­la lotta. A lasciar cadere le istanze, condendole soltanto di qualche protesta lecita, civile, ma del tutto inutile e vana. Ma noi difendiamo il diritto del nostro popolo. Noi vogliamo liberare il nostro popolo dalle pastoie colonialiste, vogliamo soprattutto informare il nostro popolo e indicargli la via da percorrere per la sua effettiva resurrezione.

 Non siamo degli illusi, cari amici, e abbiamo le nostre buone ragioni per parlarvi con questa schiettezza e durezza di linguaggio. Noi, proprio perché siamo sardi, e ci vantiamo di esserlo, siamo alieni da qualunque trasformismo, di tipo siculo-meridionale. Noi abbiamo sempre seguito questa linea politica. E questa è la linea di Bellieni, di Luigi Battista Puggioni, e di qualcuno che è qui presente e che ha sempre dato al Sardismo.

Noi dobbiamo diffondere queste nostre idee. Dobbiamo lottare perché anche nei centri più lontani si conosca questa che è una corrente di pensiero ben definita, chiara, responsabile. E’ la linea autentica, dura forse, ma l’unica che oggi possiamo seguire. Senza compromessi con nessuno. Sia ben chiaro.
Se non ci opponiamo a questa situazione coloniale, nella quale l’Italia ci ha lasciato, il nostro compito diventa inutile, vuoto, improduttivo, ridicolo.
Ci chiamano separatisti. Con disprezzo e con malcelata ironia. Ebbene, se separatisti ci chiamano, noi possiamo fare di questo termine una bandiera e non soltanto uno spaventa-passeri per i nostri avversari politici.
La via dell’indipendenza è lunga, difficile, costellata di trabocchetti, di sofferenze, di rinunce, di amare delusioni, e – soprattutto – di sconfitte. Ma noi crediamo, dobbiamo credere, dobbiamo far credere anche i nostri fratelli. Illuminarli e cancellare le loro illusioni integrazioniste, spazzare il servilismo di sempre. Noi abbiamo il dovere di seguire questa linea, perché soltanto così non tradiremo il Sardismo, ma soprattutto serviremo il popolo sardo, questo piccolo grande popolo che ha paura di essere salvato da un avvenire pieno di caligine e di miseria. Questo popolo che vuole essere distrutto.
Noi lottiamo e lotteremo per la libertà della Sardegna. Con tutti i mezzi, con tutte le nostre forze. Non rinunciamo alla dignità di uomini liberi.
Viva la Sardegna. Viva la libertà.
Antonio Simon Mossa

LITERADURA SARDA IN CAMPIDOLLlU

LITERADURA SARDA IN CAMPIDOLLlU

(De Frantziscu Casula, Roma 13/06/2014)

 

Sa die treighi ‘e lampadas ocannu

in Campidolliu, a Roma, a cambarada

semus andaos pro sa presentada

de sa “Literadura … ” a importu mannu.

‘Literadura e tzivilidade … “, .

de Frantziscu Casula s’iscritore,

a sa Sardinna at torrau s’onore,

de sa cultura sarda, identidade.

 

Cun parentes, amigos, disterrados

e romanos in paghe e alligria,

s’anima sarda a fora nd’est bessìa

cun romanzos e versos pinturados.

In Campidolliu sa “Literadura … “

de Frantziscu at mostrau su presente

e su colau de sa sarda zente

a campu abertu, fora ‘e seportura.

 

E, pro la narrer che a s’iscritore:

su caddu dae tempus trobeìu …

comente mai non si fit fuiu? ….

Ca fit presu a cadena e cun dolore.

Su caddu non podiat camminare

e su mere, mischinu, a chistionu

chene limba, ascurtande su padronu,

chene mamma e nen fizu a si chessare.

Totu teniant in podere issoro

sos balentes chi nos ant cumandau,

però su libru at iscoviau

torrande dinnidade, limba e coro.

 

S’annu batordighi cun bellu ammentu,

zoiosu Frantziscu nd’est ghirau

dae Campidolliu bene acumpanzau,

cun battimanos in afestamentu,

a sa Sardinna, terra isulana

chi nos at zenerau, mamma galana.

 

 

A Frantziscu cun afetu Madalena Frau

In ocasione de su compleannu 7-6-2015

 

 

 

.

 

 

 

 

Lezioni di lingua e letteratura Sarda

 

 

Irene Carta  dell’Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena su

       

Notiziario dei soci dell’Universita della Terza Eta di Quartu Sant’Elena Maggio 2015

 

Scrive

      Lezioni di lingua e letteratura Sarda

Il prof. Francesco Casula non ha bisogno di presentazioni. La sua conoscenza della lingua e della letteratura Sarda sono una fonte di sapere, soprattutto per persone come me che sono state “private” del piacere di parlare il Sardo, in un momento storico nel quale era considerato disdicevole per le ragazze di buona famiglia, esprimersi, appunto, in sardo. La consapevolezza dei danni che cio ha determinato, l’avevo già avvertita da tempo, non fosse altro che pur sforzandomi, non riuscivo a leggere e, quindi, a capire i testi scritti in lingua sarda. E ciò mi precludeva la conoscenza di buona parte della stessa Storia della Sardegna.

Poi, pero, mi sono fidanzata, e poi sposata, con un ragazzo di Meana Sardo. Nella sua famiglia si parlava il sardo e, cosi, ho imparato ad ascoltarlo e a capirlo. Tuttavia, la

prima persona che mi ha fatto apprezzare le composizioni in lingua sarda, fu mio  suocero. Lui, amante delle “MODE”, ne aveva una raccolta e la domenica, dopo pranzo, era solito accendere il giradischi e farmi sentire le “cantate” di Zizi, Pazzola e altri. Ricordo alcuni  versi di una cantata ispirata ad una rondine e che diceva cosi: “rundinella, d’ogni annu a primueranu in cussos nidos chi tant’ospitadu intonas una arcanica cantone…”, oppure quella dedicata alla mamma che diceva: (sa mamma) finzas cecca e centenaria est sempere a su fizzu necessaria …

Erano poesie bellissime e da allora ho incominciato ad apprezzare la mia lingua. Ovviamente sono stata felicissima di sapere che nell’Universita della Terza Eta di Quartu, il Prof. Casula teneva le sue lezioni. Mi sono resa conto di quanto fosse sentito il desiderio, ma direi il bisogno, di conoscere la lingua e la letteratura Sarda, e non solo da me, quando ho visto il numero delle persone che frequentano il corso e che  vorrebbero stare tutti in prima fila.

La passione che il Professore manifesta nell’esposizione degli argomenti fa in modo  che, pur in un’aula affollatissima, ci sia sempre grande attenzione e partecipazione.

Grazie, quindi al Prof. Casula per la sua preziosa opera di diffusione della cultura sarda

e grazie anche all’Università di Quartu che si avvale di docenti di cosi alto livello.

Irene Carta

Ospitone:chi era costui?

Ospitone:chi era costui?

di Francesco Casula

Premessa.

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani?

Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato.

Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)

Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.

Cristianizzazione delle Barbagia   

Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti  e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo” (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.

E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero.

A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle otto sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopus Barbariae, proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.

Occorre però sottolineare che nelle stesse popolazioni dell’Altra Sardegna, più vicine alle coste e ai maggiori centri, il Cristianesimo era poco diffuso. Nonostante gli esili e le deportazioni dei cristiani nel basso impero romano (con la loro condanna ad metalla); i primi martiri condannati a morte tra il III e IV secolo d.C sotto Diocleziano.
 (Simplicio,  Lussorio e Saturno, Gavino, Prothu et Januariu, celebrati questi ultimi tre da Antonio Canu e Girolamo Araolla, i primi grandi scrittori di poemi in lingua sarda); i vescovadi e i papi sardi, (fra il 315 ed il 371 d.C., due vescovi sardi furono particolarmente attivi nella predicazione del Cristianesimo, Eusebio e Lucifero, mentre nel secolo successivo altri due sardi, Simmaco e Ilario, divennero Papi); la temporanea presenza dei vescovi africani. A dare un impulso decisivo per la conversione dei Sardi sarà proprio Gregorio Magno, con una instancabile opera di evangelizzazione e con l’istituzione di numerosi monasteri:inizialmente nelle case private. O con l’arrivo dall’Oriente dei monaci basiliani, che non solo diffusero il vangelo tra i Barbaricini ma introdussero la coltura d’alberi (melo, fico, ulivo) dei cui frutti si cibavano nei periodi d’astinenza e di digiuno.

Introdussero pure alcuni vitigni per la produzione di vini dolci per la messa (moscato e malvasia), praticavano i riti della Chiesa orientale, avevano la barba fluente e dedicarono le chiese ai santi del calendario greco. Opera, quella di Gregorio Magno e della Chiesa, accompagnata – occorre ricordarlo sempre – anche da propositi più corposamente politici e materiali, nella difesa (e aumento) dei propri possedimenti terrieri e dei proventi derivanti da gravami fiscali che volle sempre maggiori.

Nell’opera di evangelizzazione “i missionari – lo ricorda opportunamente don Salvatore Bussu, nel suo bel libro Ollolai cuore della Sardegna, pagina 57seguivano una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva già dato agli evangelizzatori dell’Inghilterra di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiano e conciliare le esigenze della nuova fede con le vecchie tradizioni a sfondo religioso cui gli indigeni erano ancora legati. Si ebbe così una specie di commistione del vecchio e del nuovo, il quale si affermerà più chiaramente solo col passare dei secoli, pur non riuscendo a spegnere ma solo a trasformare, certi valori tradizionali”.

Ciò è tanto più vero se si pensa a quanto scrive Sigismondo Arquer  nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio, –e siamo già nel 1549! – “Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano – uomini e donne – dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa”.

 

 

 

 

LETTERATURA SARDA

LETTERATURA SARDA

 

 

 

Tramas de seda. Trame di s …

Maddalena Frau

 

 

Letteratura e civiltà del …

Francesco Casula

 

 

Antoni Gramsci - Francesco Casula, Matteo Porru, Alfa Editrice (2006)

 

LA PRIMA SARDISTA: MARIANNA BUSSALAI TRA POESIA, IRONIA E FEMMINISMO

   La Donna Sarda

 
 
 

 
di: Virginia Saba
CHI SIAMO
tempo di lettura:5 minuti

LA PRIMA SARDISTA: MARIANNA BUSSALAI TRA POESIA, IRONIA E FEMMINISMO

 

Orani, 1904. Nel piccolo paese, ai piedi del Monte Gonare nel cuore della Barbagia, una bambina fiera e dal cuore tiepido avrebbe presto innalzato i destini delle donne sarde. Fiera, perché divenne guida dell’uomo in tempi nei quali la figura femminile era relegata al fuso. Il suo battito lento, invece, fu l’esito di una malattia che la tenne chiusa nella sua piccola casa fino ai 43 anni (quando il suo cuore smise di battere), circondata dai profumi antichi e dalle pareti strette, così strette da far trasbordare il pathos dei suoi pensieri.Da quella casa nacque una coraggiosa e ambiziosa battaglia, quella per un’Isola autonoma.

Marianna Bussalai Casa

Marianna Bussalai, orfana di madre, intrappolata da una deformazione della colonna vertebrale, che ha vincolato la sua vita a un letto, è diventata un’attivista storica: la prima donna sardista, la prima delPartito Sardo d’Azione, la prima a partecipare da protagonista al congresso provinciale del suo partito. 
Ha portato l’emancipazione, ha difeso la libertà, ha tessuto parole poetiche facendosi cullare dai suoni della lingua sarda. E ancora, ha letto Marx e detestato la ricchezza materiale, ha rinunciato alla mondanità ed esaltato lo spirito, ha offerto con coraggio un rifugio a Emilio Lussu (“ho bisogno di seguirlo devotamente”, scriveva), nella sua botola blu. La sua casa è diventata un mondo di parole e riflessioni, un covo nato per contrastare il fascismo e riportare la repubblica. 
Ha contribuito al percorso di un popolo, soprattutto quello femminile. Dalla ricerca dell’identità all’alfabetizzazione, alla libertà della donna. E forse, proprio la sua condizione di donna ha fatto sì che, nonostante sia stata un punto di riferimento per la Sardegna, sia a stento accennata sui libri di storia.

Una testimonianza preziosa è quella che ha regalato Marta Brundu, compaesana dell’intellettuale di Orani, che ha voluto dedicarle una tesi (www.mariannabussalai.org). Testimonianze, foto e documenti che riportano in luce uno dei personaggi più interessanti della storia sarda.


«Ringrazio Marianna per avermi trasmesso l’orgoglio di essere donna e di essere sarda – racconta Brundu – , la passione per la cultura, la forza di affrontare le avversità, il coraggio di sopportare la malattia; ammiro la suacaparbietà nel vincere l’isolamento, la capacità di non piegarsi alla cultura dominante, la lucidità nel giudicare gli eventi mentre accadono». 
Sua nonna era vicina di casa, intima amica e confidente di Marianna e di sua sorella Ignazia. «Ricordo quando fin da piccolissima mi recavo a casa di Ignazia per farmi raccontare, come fosse un cantastorie, la vita di Marianna a episodi». Ciò che ne è derivato è tesoro. Poesie e traduzioni sublimi, amicizie che sostituivano la bellezza esterna che mancava alla sua vita.

Francesco CasulaRaccontare Marianna Bussalai è stata anche la missione di Francesco Casula, professore di storia e filosofia esperto di lingua sarda e storia dell’Isola. Il suo libro Marianna Bussalai (Alfa Editrice), pubblicato lo scorso luglio, è scritto in lingua sarda anche per lei, “signorina Mariannedda”, che della nostra lingua amava la musica, la riteneva patrimonio prezioso, identità da proteggere.

«Perché ho voluto dedicarle un libro? Perché è una donna – racconta Casula – e le donne in Sardegna hanno sempre esercitato un ruolo essenziale non solo a livello familiare e sociale ma anche a livello economico e culturale. Ma di loro i libri non parlano mai. Ad iniziare dai libri di storia».  
Una donna de gabale, spiega. «Valente, di valore. Una ragazzina che con la quarta elementare, malaticcia, in un paese chiuso com’era Orani agli inizi del Novecento, da autodidatta si fa una cultura, non solo letteraria ma anche filosofica e politica (legge fra gli altri Marx), diventa scrittrice e poetessa e insieme leader politica. I suoi amici – con cui ha una fitta corrispondenza epistolare – sono Montanaru e i grandi dirigenti sardisti: da Luigi Oggianu a Pietro Mastinu, dai fratelli Melis (compreso il futuro presidente della Regione sarda, Mario Melis) a Emilio Lussu e Dino Giacobbe. E Sebastiano Satta, il principe del foro nuorese, il cantore della sardità, che andava spesso a trovarla ad Orani».

Quale il bene più prezioso che ha lasciato al popolo sardo Marianna Bussalai?
La testimonianza di una vita esemplare. Marianna Bussalai, “Signorina Mariannedda de sos Battor Moros”, così veniva chiamata dagli oranesi, è infatti una straordinaria figura di femminista, di sardista e di antifascista. Una poetessa, traduttrice e intellettuale di valore, morta nel 1947, a soli 43 anni.  Frequenta solo fino alla quarta elementare, poi abbandona a causa di una malattia che non le permette di potersi recare a Nuoro per proseguire gli studi. Autodidatta – legge gli autori sardi (Sebastiano Satta, Montanaru, – con cui ha un fitto carteggio epistolare – e Giovanni Maria Angioy, di cui vanta una remota ascendenza), gli italiani (Dante, Manzoni, Monti, Pindemonte) ma anche i russi. Di Montanaru traduce le poesie in italiano. Di Dante avrebbe voluto tradurre la Divina Commedia in Limba per poter dare al popolo sardo – scriveva – la possibilità di leggere e comprendere l’opera.

Marianna Bussalai copertina libro Francesco Casula

Poesie in Italiano e in Sardo: soprattuttomutettos e terzine. 
Famose sono rimaste quelle che mettono alla berlina i fascisti, ad iniziare dai ras locali. Il sardismo e l’antifascismo, cui dedicò tutta la sua vita, – ovvero l’amore smisurato per l’Autonomia e per la libertà – li vedeva incarnati meravigliosamente in Lussu, verso cui nutriva ammirazione e persino devozione. Marianna Bussalai infatti durante tutto il ventennio fascista diventa a Orani – ma non solo – punto di riferimento dell’antifascismo, la sua casa è il circolo antifascista, composto di ragazzi e ragazze, di uomini e donne.
È altresì punto di riferimento dei Sardisti: ai Congressi del PSd’Az viene sempre delegata per portare le istanze dei minatori di Orani, dei pastori e del mondo delle campagne.

Come si distingueva il suo pensiero politico, il suo essere sardista? Come si distinguerebbe in particolare oggi?
II mio sardismo – scriverà in una lettera all’avvocato Luigi Oggiano – nato da prima che il Partito sardo sorgesse, cioè da quando, sui banchi delle scuole elementari, mi chiedevo umiliata perché nella storia d’Italia non si parlasse mai della Sardegna. Giunsi alla conclusione che la Sardegna non era Italia e doveva avere una storia a parte”.
Quello della Bussalai è dunque un Sardismo ante litteram, nasce inizialmente come sentimento o, più precisamente, come ri-sentimento contro uno Stato patrigno. Di qui la sua militanza nel Partito sardo d’azione e la sua “devozione” nei confronti di Lussu, che periodicamente le scriveva dall’esilio a Parigi.
“Ho bisogno di seguirlo devotamente in qualunque modificazione, in qualunque innovamento dal più ampio e moderno respiro – scriverà in una lettera all’amica Mariangela Maccioni –  ma ad una condizione: purché sia nel Partito nostro, nel Partito sardo, come «sardisti» non in un Partito italiano «nazionale», dove saremmo forse ancora «autonomisti» ma non saremmo più «sardisti». Perché militare in un Partito «sardo» significava che v’era (oltre alla necessità di riforme autonomiste dell’intero stato italiano) anche una «questione sarda», di fronte alla Penisola; una passione Sarda, una coscienza Sarda da formare, sia pure per un lontano futuro.
E a chi obiettava che rinchiudersi nella Sardegna e in un Partito come il PSd’Az sarebbe provinciale e limitativo, in una lettera all’amica Graziella Sechi Giacobbe scrive: “Mi spieghi perché ci voglia un cuore più capace per militare nel Partito italiano d’azione e un cuore più limitato per militare nel Partito sardo d’Azione. Indubbiamente l’Italia ha una superficie maggiore della Sardegna; ma la vastità e la grettezza dello spirito non si misurano a metri o a chilometri quadrati”.

E allora cosa possono dare in più e di diverso le donne in politica?
Riferendomi alla esperienza specifica di Marianna Bussalai, posso dire che per lei la “politica” era la politica bella, fatta di  teoria e prassi, partecipazione diretta e coinvolgimento, soprattutto dei giovani, impegno e passione. Disinteresse assoluto. Fede quasi. 
Ai Congressi del suo Partito andava per rappresentare i bisogni e i problemi della gente oranese, ma soprattutto dei lavoratori e non per cercare qualche posto in lista per le elezioni.
Non politica politicante, come diremmo oggi, dunque. Che Bussalai rimproverava persino al viceparroco, che utilizzava la religione per fini politici, “temporali”, si diceva allora, impelagato com’era nel regime fascista.Rivolta femminista

In cosa consisteva il suo femminismo?
Siamo agli inizi del Novecento, in un paese del Nuorese dove le differenze di genere più che mai segnavano il divario fra i ruoli nella società. A ciò occorre aggiungere i disagi legati alla sua menomazione fisica. Ebbene, Marianna Bussalai, pur in questo contesto e in queste condizioni, legge, studia, scrive, organizza l’opposizione antifascista, è politicamente attiva, coinvolge, da vera leader, i giovani nella sua attività, partecipa ai Congressi del suo Partito i cui massimi dirigenti, quando vanno a trovarla, diventano insolitamente taciturni. “Quando vado a Orani – dirà Titino Melis – vado per ascoltare Marianna”. Tanta era la sua autorevolezza di donna prima ancora che di leader politica.

Come era vista dagli uomini del suo tempo?
Aveva due grandi amiche e compagne di lotta: Mariangela Maccioni e Graziella Sechi-Giacobbe, che considera “dolci ed eroiche amiche”. La prima è maestra elementare e moglie di Raffaello Marchi (verrà sospesa dall’insegnamento perché ostile al Fascismo), la seconda ugualmente antifascista è moglie di Dino Giacobbe, il mitico combattente e comandante nella Guerra civile in Spagna contro Franco. Formano la cosiddetta triade sardista e antifascista

E aveva soprattutto molti amici
Lussu, Giacobbe, i fratelli Melis, Oggiano, Mastino, Sebastiano Satta, Montanaru. Ma aveva amici, in modo particolare fra i giovani: per cui era un punto di riferimento intellettuale e culturale oltre che politico.
Così la ricorda con affetto e ammirazione Gonario Usala, uno dei suoi “allievi” più cari e fedeli: “Era enciclopedica nella sua formazione culturale nonostante si fosse formata da perfetta autodidatta. Su tutto dava risposte appropriate. Nel suo cuore aveva tuttavia la Sardegna e proprio ai libri sardi, ne possedeva tantissimi, riservava un’attenzione particolare”.

Cosa potrebbe insegnare questa figura di donna alle donne sarde d’oggi?
Nonostante la sua fragilità fisica e la sua malattia, era una donna libera e ribelle, coraggiosa e anticonformista, attiva e impegnata, colta e poetica. E innamorata della sua gente e della sua terra. Ecco il suo insegnamento.

Quaderno Marianna Bussalai

Quali sono i suoi versi più belli?
Molti  critici ritengono che la sua poesia più bella sia stata la traduzione in italiano di una poesia di Montanaru (A Giagia mia: A Mia nonna). A tal punto da considerarla superiore all’originale in lingua sarda. Da parte mia ritengo che gli scritti più validi e, ancora oggi più che mai attuali, siano i suoi Mutos eMutetus, in lingua sarda. Soprattutto quelli ironici e satirici con cui ridicolizzava i gerarchi e gli scherani del fascismo e Mussolini stesso (nel cui nome allungava il mussi-mussi, l’appellativo con cui si chiamano in Sardo i gatti e la cui espressione deriva dal latino mus (topo) e dunque a fronte di mussi-mussi il (gatto si avvicina).

Eccone alcuni: 
“Farinacci est bragosu/ca l’ana saludau/sos fascistas de Orane/tene’ pius valentia/de su ras de Cremona/su Farinacci nostru.
Ite bella Nugòro / tottu mudada a frores / in colore ‘e fiama. / Ite bella Nugòro / solu a tie est s’amore / ca ses sa sola mama / Sardigna de su coro/ Saludan’ sos sardistas / chin sa manu in su coro / de sas iras fascistas / si nde ride’ Nugòro.

La sua produzione letteraria è fatta di grande pathos e ideali. Sempre attuale o nostalgicamente anacronistica nel mondo di oggi? 
Attuale, perché noi oggi avremmo urgente bisogno di nuovi e rinnovati Mutos e Mutetos contro i nuovi Cesari. I potenti hanno paura della satira, perché niente è più irriverente ed eversivo del sorriso che può frantumare i bastioni della paura, rendendo ridicolo il potente. Il sorriso è infatti capace di scomporre gerarchie sociali e indebolire il sistema che viene sezionato e raccontato con le parole acuminate dell’ironia. Ecco perché il potere non tollera la satira e, quando può, cerca di cancellarla.

SA LIMBA DE GRATZIA DELEDDA

SA LIMBA DE GRATZIA DELEDDA

de Frantziscu Casula

Pro cumprender bene sa limba chi Deledda impreat iscriende tocat de partire dae custa premessa: su sardu non est unu dialetu italianu –comente galu medas bacheos, (macos o tontos?) ma sos prus pro ignorantzia, narant e pessant, puru zente “istudiada”- ma una limba. Nois sardos semus “bilingui” ca allegamus in su matessi tempus duas limbas, su sardu e s’italianu. Puru sa Deledda fiat bilingue. Segundu unu de sos prus mannos linguistas sardos, Massimu Pittau, sa povertade in su lessicu italianu de sa Deledda est determinadu da-e unu fatu psichicu: sa timoria de isballiare. Duncas non impreamus mai sos vocabulos: arena, brocca, chicchera, fontana, padella, pigliare, rammentare, tappo, tornare etc. etc. proite pessamus chi siant ateretantos sardismos, cando imbetzes non lu sunt pro nudda, e impreamus solu sinonimos: sabbia, anfora, tazzina, fonte, pentola prendere, ricordare, turacciolo, restituire etc.etc. Pro curpa de custa timoria – segundu, lu torro a narrer, Pittau – su lessicu de iscritores sardos comente a Gratzia Deledda est impoberidu, mescamente in sos iscritos de sa pitzinnia ca a pustis l’arrichit semper prus. S’atera chistione chi tocat de amentare est chi su prus de sas bortas sa Deledda – ma capitat a medas sardos, peri iscrittores mannos – pessaiat in sardu e traduiat mecanicamente in italianu, mesche “nel parlare dialogico” – est semper Pittau a lu sustenner, ma eo so de accordu cun issu – comente in “Bennidu ses? Accatadu fattu l’as? A Luisi bidu l’as? Cand’es gai, andamus !” Sos iscritos de sa Deledda sunt prenos de custas frasas. Bi sunt in fines medas e medas faeddos propiu sardos e isceti sardos chi Deledda faghet intrare in sas fainas suas cando si tratat de iscrier subra s’ambiente sardu: pessamus a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi); socronza (consuocera), impreada meda meda in Elias Portolu; corbula (cesta); bertula (bisaccia); tasca (tascapane); leppa (coltello a serramanico); leonedda (zufolo); cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi); domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”). Bi sunt a pustis frasas intreas in sardu comente: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente :il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più: è un’imprecazione). Pro no narrer de sos lumenes chi sunt truncados in sa sillaba finale cando est “complemento vocativo”, tipicu modu de narrer sardu ma mescamente nugoresu e barbaritzinu: Antò (o Antonio), Colù (o Colomba), Zosè= Zoseppe (o Giuseppe), Zuamprè=Zuampredu (o Giampietro), pride Defrà= pride Defraia (prete Defraia). Carchi borta Deledda presentat finas frasas italianas istropiadas in sardu e frasas sardas istropiadas in italianu: nois barbaritzinos naramus italianu porcheddinu, un esempru: ”Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…)”; “ Avete compriso?”. Pro cuncruire amento puru chi sa Deledda traduit faeddos sardos o espressiones propiu sardas cando no esistit su currispondente in italianu: Perdonate= perdonae in nugoresu: voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina; botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio); male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro). Toccat però de crarire chi sos sardismos linguisticos de sa Deledda non benint dae s’incapatzidade de impreare bene sa limba italiana ma da-e un’isseberu suo cabosu e cherfidu. S’ifruentza de sa Sardinna e de sa limba sarda in sas operas de sa Deledda non pertocat solu sas formas sintaticas e sos faeddos ma finas – e meda a beru – sos temas, sos costumenes, sas faulas e sas paristorias, sas mazinas, sos proverbios e sos dicios: pro lu narrer in una paraula sola sa tzivilidade sarda intrea.