QUELL’ORRENDO E FUNESTO INNO, IERI SUONATO PRIMA DELLA PARTITA DEL CAGLIARI.

 
Francesco Casula
QUELL’ORRENDO E FUNESTO INNO, IERI SUONATO PRIMA DELLA PARTITA DEL CAGLIARI.
di Francesco Casula
Ieri la “Brigata Sassari,” prima della partita del Cagliari ha suonato l’Inno italico “Fratelli d’Italia”. Giustamente fischiato dal pubblico presente. Non aveva alcuna attinenza. Era fuori luogo. Per me, comunque, suonarlo e cantarlo in Sardegna è sempre fuori luogo. Per mille motivi. E’ l’Inno di uno Stato storicamente ostile e nemico dei Sardi: lo Stato occupante. Lo stato coloniale. Ma vi sono anche altre ragioni: ugualmente giuste e nobili: è un Inno brutto, ultraretorico bellicista e guarrafondaio, militarista e militaresco. E’ un Inno in perfetta continutà con la monarchia dei tiranni sabaudi, con abbondanti elementi fascisti, in relazione soprattutto alla cosiddetta “romanità” Che riassume una “storia” falsa e falsificata: “Dall’Alpe a Sicilia dovunque è Legnano;/ogn’uom di Ferruccio ha il core e la mano; I bimbi d’Italia si chiaman Balilla/il suon d’ogni squilla i Vespri suonò”: Di grazia, che c’entrano i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze, Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci, con l’Italia, il suo “Risorgimento”, la sua Unità? E’ stata questa la versione distorta e falsificata della storia italica offerta e propinata dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento, di cui un secolo di ricerca storica ha preso a roncolate mostrando l’infondatezza di tale pretesa. Anche perché non la puoi dare a bere a nessuno l’idea che questi «italiani» fossero buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli. Ma quello che maggiormente disturba – dicevo – è la vomitevole “romanità” di cui è impastato: “Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta; dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”. Romanità, non a caso, sposata e celebrata dal Fascismo, dal cui mito fu animato fin dalla primavera del 1921 quando Mussolini lanciò l’iniziativa di celebrare il Natale di Roma il 21 aprile di ogni anno e nel novembre di quell’anno, nello statuto del neonato Pnf, i fascisti definirono il partito come una milizia al servizio della nazione. Mutuando da Roma le insegne, come i gagliardetti con il fascio e le aquile, e il gesto di saluto con il braccio teso. Scrive Mussolini: ”Celebrare il Natale di Roma significa celebrare il nostro tipo di civiltà, significa esaltare la nostra storia, e la nostra razza, significa poggiare fermamente sul passato per meglio slanciarsi verso l’avvenire. Roma e Italia sono due termini inscindibili. […] Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento, il nostro simbolo, o se si vuole, il nostro mito. […] Molto di quel che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo : romano è il Littorio, romana è la nostra organizzazione di combattimento, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio : Civis romanus sum” !* Ma il nucleo più forte che il fascismo mutuò dalla “romanità” fu il mito dell’impero che sembrò realizzarsi con la conquista dell’Etiopia il 9 maggio 1936, tanto che Mussolini dichiarò dal balcone di palazzo Venezia che l’Impero era tornato sui « colli fatali » di Roma, con il ritorno in Italia delle immagini della romanità e della missione gloriosa di del caput mundi. Con il Duce celebrato come « il novello Augusto della risorta Italia imperiale », « un genuino discendente di sangue degli antichi romani ». Lo testimoniava, -secondo l’archeologo Giulio Quirino Giglioli – l’origine romagnola di Mussolini il quale «era degno emulo di Cesare e di Augusto perché artefice di una nuova era della romanità nell’epoca moderna» Altri noti studiosi si impegnarono nel sostenere l’identità fra il duce del fascismo e gli imperatori romani, o anche a dimostrare la superiorità di Mussolini su Cesare o su Costantino. Amen! * Benito Mussolini, « Passato e avvenire », Il Popolo d’Italia, 21 aprile 1922, p. 1.
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