I ragazzi del Nuraghe: un libro di Maria Antonietta Mula che consiglio vivamente

I ragazzi del Nuraghe: un libro di Maria Antonietta Mula che consiglio vivamente.

di  Francesco Casula

 I ragazzi del Nuraghe

Un’incursione, una sonda infilata nel suo passato e percorso didattico-pedagogico di 30 anni di insegnamento, con “qualche perplessità a parlare di sé e dei suoi ragazzi”, perché poco interessante. L’Autrice del libro testimoniale, reputa infatti che sia preferibile e suo compito precipuo piuttosto ascoltare quanto “avviene nelle sue aule e negli anditi” della scuola nuorese del Nuraghe. Nelle cui “rocce granitiche, che fuoriescono dal terreno come radici avvinghiate alla terra” legge però una smorfia che le fa capire che le sue riluttanze a raccontare la sua storia e quella dei suoi alunni, “nella primavera della vita, fra i 14 e i 19 anni” passeranno.
Così intraprende una sorta di viaggio, si immerge e irrompe, ricomponendo il suo diario di bordo e cercando nell’archivio della sua memoria, in quel mondo della scuola “che ha vissuto due grandi rivoluzioni. La prima, quella che ha cambiato il volto della società è avvenuta nel 1968; l’altra iniziata negli ultimi anni, e ancora in pieno corso, è la rivoluzione informatica”. I cui cambiamenti “si riversano come una cascata in piena, dal rombo assordante nella scuola”: tutto modificando e rivoluzionando. Con l’hardware e il software: il nuovo linguaggio informatico. Con le vecchie lavagne nere di ardesia che cedono il posto “ alla giovane e solare lavagna interattiva multimediale o, più confidenzialmente LIM”
E così racconta. Da par suo. Racconta fatti episodi aneddoti. Ma soprattutto emozioni umori e sensazioni, suoni odori e colori: “i colori brillanti e vivaci dei giubbotti e degli zaini variopinti degli alunni, che sapevano di gioventù, di spensieratezza e d’irrequietezza”.
Racconta, perché l’autrice, Maria Antonietta Mula, orunese, prima e oltre che avveduta docente di matematica, la cui prima regola è ascoltare e osservare, è valente affabulatrice. Ma più che dalla scuola ufficiale e comunitaria (alla macchia la chiamava il bittese Michelangelo Pira) ha imparato dalla nonna, che nelle lunghe “sere d’inverno seduta vicino al grande camino della cucina” le raccontava “sas cantascias”, le favole del paese. Un raccontare “lento e sicuro dalla voce cara, l’odore della legna che scoppietta allegramente e il riverbero che illumina le pareti della stanza rendendole rosate: sono i colori, gli odori legati alla mia infanzia. In quelli antichi racconti non ci sono né fate né orchi, ma ci sono bambini e persone reali, topolini e cavalli”.
E’ la nonna che le “ha fatto assaporare l’arte affabulatoria,l’arte del raccontare lento e ritmato, dove il piccolo mondo del paese si ritrovava improvvisamente a essere centro dell’universo e la mia fantasia di bambina, assetata di conoscere e apprendere, galoppava nell’attraversare villaggi sconosciuti, dove però conoscevo molto del mio villaggio. Ho scalato montagne impervie, molto più alte delle mie colline, ho solcato mari tempestosi, quei mari che pur vivendo in un’isola, a lungo avevo desiderato conoscere. Di storia e fantasia è stata ricca la mia infanzia”.
Racconta, l’Autrice, generazioni di adolescenti irrequiete. E mentre “fuori c’è il sole, c’è la libertà, c’è la giovinezza che li aspetta, dentro l’aula, nonostante le finestre aperte facciano entrare l’aria dell’abbozzato autunno, parrebbe che il clima soffochi gli aneliti e i muri imprigionino i corpi acerbi”. Nella scuola del Nuraghe.
Che fare per interessare questi adolescenti, per la stragrande maggioranza pendolari, che si alzano ogni mattina alle prime luci per prendere i pullman? Che spesso, sono confusi, non sono ambiziosi e considerano la scuola come un parcheggio? Non come “luogo della conoscenza e fucina di apprendimento ma come una piazza dove trascorrere in compagnia la mattinata”? Con studenti viepiù analfabeti, difficili da coinvolgere, irriverenti e soffocati da problemi familiari o sociali, che riversano tutto sul docente?
Che fare per rendere attrattivo il suo insegnare a giovani “con addosso tanta svogliatezza”? Che in pochissimi intraprendono gli studi universitari? Tanto pochi che “spiccano come gigli sulle dune sabbiose mentre volgono il fragile capo verso la pineta che lambisce il mare”?
Che fare a fronte di “ragazzi poco propensi all’ascolto, figli di una società intorno a cui tutto parla di crisi, di mancanza di lavoro, di genitori che non hanno sui figli né autorità né autorevolezza”?
Per intanto: fare dell’insegnamento un’attività creativa, dinamica e mai statica, duttile. Non serve imbottire di contenuti gli studenti, come fossero teste vuote da riempire. Anzi è controproducente offrire la sola lezione, infarcita di nozioni, di teoremi e dimostrazioni.
In altre parole il problema non è fare delle teste piene ma della teste buone, per parafrasare l’apoftegma del filosofo francese (non a caso anche matematico e fisico) e, prima di lui di Montaigne: «Une tête bien faite vaut mieux qu’une tête bien pleine».
Il problema è ricorrere all’arte socratica della maieutica, del dialogo, della partecipazione attiva: “ho sperimentato l’utilità della lezione partecipata, ossia riuscire a creare le condizioni affinché gli alunni partecipino attivamente e non assistano passivamente alla lezione”.
Per imparare, insieme, stando bene in classe. Per questo ci vuole arte, tecnica, fantasia. E dunque, nelle ore di Matematica, si può parlare de I ragazzi della via Paal, anche se apparentemente non c’entrano niente e il docente di Italiano della poesia in lingua sarda.
O ancora: “usare un gioco tradizionale come la morra, per sviluppare le capacità di apprendimento numerico degli alunni” e per il “potenziamento della gnosia digitale e delle abilità numerica e implementazione delle competenze sociali legate al rispetto delle regole del gioco e del vivere in comunità”.
A dimostrazione di come, partendo da un gioco e un bisogno etno-sociale (parecchi ragazzi della scuola erano appassionati di morra) si possano raggiungere una pluralità di obiettivi culturali e interculturali.
A dimostrazione di come, nel fare esempi, ci si può servire, invece “degli abusati nomi ipotetici di Tizio, Caio e Sempronio, dei più familiari Tzia Tatana, Tziu Puddighinu e di Fulanu”, rendendo la lezione più interessante e persino strappando fragorose risate alla classe.
Questa la precipua riflessione didattico-pedagogica dell’Autrice, da praticare prima che da teorizzare. Insieme a tanti altri “meledi”.
Una per sfatare e liquidare i tanti luoghi comuni (idola fori li chiamava il grande filosofo inglese, Francesco Bacone), oggi presenti nella scuola (e nella società) frutto certo dell’ignoranza ma anche della becera mentalità utilitarista (e occidentalista), ad iniziare da quella: “A cosa serve la matematica”.
Un’altra, finale, sullo status e il ruolo della scuola oggi. Ha perso gli ormeggi? E’ alla deriva? Ed è “colpa” del Movimento del ’68? Del troppo permissivismo e della drastica riduzione dei contenuti? Dell’eccessivo coccolamento, da parte di genitori e adulti, dei ragazzi, viepiù “viziati” e abituati al superfluo?
Interrogativi non banali, cui l’Autrice risponde, analizzando le radici profonde della crisi che investe oggi la scuola. Che stanno certo dentro alla scuola stessa ma anche, soprattutto fuori e nei dintorni.
Concludo: un libro prezioso, “I ragazzi del Nuraghe” di Maria Antonietta Mula. Prezioso e utile non solo per i docenti. Per conoscere la realtà della scuola in Sardegna ma segnatamente nel Nuorese.
Un libro che non è una semplice cronaca: ma una riflessione, una testimonia appassionata, una esperienza vissuta in prima persona e profondamente legata alla sua terra, alle sue radici etno-culturali e linguistiche.
Di qui l’irruzione frequente della lingua sarda con espressioni (come Ehi raju, Ses una conca ‘e granitu, dormire a sa ritza comente a unu caddu); con intere frasi (Prrrr…su caddu!!! Curre a bae a inube est Gianluca e picali sos salutos prus fortes, dae sos cumpanzos de sa segunda B); con l’evocazione di una bellissima poesia di Antonio Mura Ena, No ‘ippo torero,(di cui riporta dieci versi).
Insieme alla lingua sarda evoca tratti ed elementi etno-culturali come il gioco della morra o il canto a tenore, un nostro antico canto, dove voci e poesia si uniscono per dare vita a una musica etnica che si colora di arcaico, in cui “alcuni alunni che si cimentano con autentica passione”.
Una scrittura dunque ibridata, contaminata com’è dal vocabolario popolare e dalla lingua sarda; con uno stile narrativo, imbevuto dai ritmi, gli odori e i sapori della Sardegna.

Un racconto articolato in una sintassi inappuntabile e guarnito da un lessico semplice ma sorvegliato e diretto che ci introduce in un mondo per molti sardi ancora oggi familiare.

Per questo è un libro da leggere. Con attenzione. In qualche modo per “abitarlo”. Per poterlo non solo comprendere ma gustare. Assaporare.

I ragazzi del Nuraghe: un libro di Maria Antonietta Mula che consiglio vivamenteultima modifica: 2023-01-12T13:40:19+01:00da zicu1
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