17 marzo 1861: l’Unità d’Italia

Una data infausta, una sciagura per la Sardegna 

di FRANCESCO CASULA

(Seconda parte della mia relazione per il Convegno organizzato sabato 3 maggio a Cagliari da “SUD LIBERA SUD” (Lazzaretto, ore 9.39)  

Lo Stato italiano, fin dai primi suoi miagolii, considerò la Sardegna come una provincia d’oltremare e una sua appendice molto incerta: una colonia insomma. Addirittura  per lungo tempo fu ipotizzata  la cessione alla Francia, quella a favore degli inglesi con minore convinzione.Ma ecco cosa scrive un grande romanziere e intellettuale sardo, Giuseppe Dessì, a proposito dell’Unità d’Italia:”“Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo…la vera faccia dell’Italia non era quella che aveva sognato con tanti altri giovani, ma quella che sentiva urlare nella bettola, divisa come prima e più di prima, giacché l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati. Persino l’idea della libertà, quale l’aveva espressa la rivoluzione francese, contrastava con l’unità italiana quale era uscita dalle mani di Mazzini e di Garibaldi che, entrambi in modo diverso, avevano finito per tradire la causa per la quale avevano chiesto il sacrificio di tanti giovani vite” .(Paese d’ombre, Giuseppe Dessì).Mentre l’ideologo del moderno indipendentismo sardo, Antonio Simon Mossa scrive:” L’oppressione coloniale si è intensificata con lo Stato Italiano… l’emigrazione, la distruzione dell’economia locale, l’imposizione di modelli di sviluppo forestieri comportano effetti devastanti contro la struttura sociale del popolo sardo” (9).Attacca poi duramente “l’albagia dei colonialisti romani”(10) che si permette di considerarci “straccioni, infingardi, banditi, mantenuti e queruli mendicanti”(11). Altrettanto duro è con i Partiti italiani che “rappresentavano e servivano esclusivamente gli interessi della potenza coloniale che sfruttava la Sardegna” (12). E ancora “La partitocrazia di importazione, aspetto non secondario del fenomeno di colonizzazione e di snazionalizzazione adottato dall’Italia, nella sua funzione di potenza occupante, costituisce nella nostra terra un’etichetta esteriore, uno strumento per assicurarsi il potere a tempo indefinito della madrepatria sulla colonia” (13).Riprendendo poi un articolo di Michelangelo Pira, apparso sulla Nuova Sardegna nell’Agosto del 1967 e condividendolo, lo cita testualmente:” La Sardegna ha sperimentato non solo la politica coloniale ma anche quella di colonizzazione in senso stretto. Ieri le migliori località della costa sarda erano occupati dai miliardari, oggi dal capitale forestiero industriale turistico. Ieri Arborea, oggi i poli industriali. La politica italiana è sempre stata politica colonialista, sia quando si è rivolta all’esterno con le avventure africane, sia quando si è rivolta all’interno. Sono cambiati i miti di questa politica ma la sostanza è rimasta. Che oggi siano i tecnocrati di Roma o di Bruxelles a dire quel che è bene fare o non fare in Baronia e dintorni anziché i ministri piemontesi, non cambia molto, cioè non rovescia la tendenza. Mutano le forme del colonialismo ma la sostanza politica di sfruttamento delle zone coloniali, resta” (14). In sintonia con i “Nuovi meridionalisti”, – penso in modo particolare a Nicola Zitara a Edmondo Maria Capecelatro e Antonio Carlo , quest’ultimo fra l’altro per molti anni docente incaricato di diritto del lavoro all’Università di Cagliari – Mossa ritiene che la Sardegna sia una “colonia interna” dello Stato italiano e che dunque la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata soprattutto nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.Mossa è ugualmente in sintonia con studiosi terzomondisti come V. Baran  e Gunter Frank  che in una serie di studi sullo sviluppo del capitalismo tendono a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa. 

1-La forme di colonialismo economico

Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, censurato e scoperto tra Carte d’archivio decenni dopo e fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, scrive che “I signori di Torino e la classe borghese torinese ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia, ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia per emigrare nell’Argentina e nel Brasile”.Infatti soprattutto in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico Carta-Raspi –  erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – annota Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri” . 

Colonialismo e gli  spogliatori di cadaveri 

1° categoria: gli industriali caseari.

“I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale”.Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari – i feudatari del latte li definirà Antonio Sinmon Mossa,  – e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze e prodotti del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri.

2° categoria:gli industriali del carbone

Gli industriali del carbone scendono dalla Toscana. Stavolta il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi. “A un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza”, scrive Gramsci.Così – continua l’intellettuale di Ales –“L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci allivionanti, l’abbiamo ereditata allora.Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri  spogliatori di cadaveri.

3° categoria: i gestori delle miniere.

Arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo (che il 9 settembre del 1848, ad appena otto mesi dalla Fusione perfetta, fu esteso alla Sardegna un Editto, già operante nella terraferma, che assegnava la proprietà delle miniere  –  e tutte le risorse del sottosuolo – allo Stato). Questo, per quattro soldi le darà in concessione a pochi “briganti” in genere stranieri ma anche italiani.“Essi si limiteranno – scrive Gramsci –  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”Certo, gli occupati nelle industrie estrattive passeranno da 5 mila (1880) a 10 mila (1890) ma in condizioni inumane di lavoro (11 ore consecutive) e di vita: La Commissione parlamentare istituita dopo i moti del 1906 scriverà”Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale.Sempre nella relazione della Commissione parlamentare si scrive testualmente:”S’attraversano ancora oggi nel Sulcis Iglesiente villaggi nati allora, lascito della borghesia mineraria con intonaci scomparsi, pavimenti trascurati, filtrazioni di umidità, insetti immondi, annidati dappertutto”.Ad essere date in concessione non erano solo le miniere di carbone ma anche quelle di piombo, argento, zinco, rame.

2- Le forme del colonialismo culturale e linguistico

Oltre che colonia interna, la Sardegna è una “nazione oppressa”: con una sua specifica e peculiare identità etno-storica, culturale e linguistica. Una nazione “proibita”, “non riconosciuta” dallo Stato Italiano, emarginata dalla storia, insieme a tutte le altre minoranze etniche del mondo. In Europa al pari dei Baschi, Catalani, Bretoni, Occitani, Irlandesi etc. Contro cui è in atto da tempo un pericolosissimo processo di “genocidio” soprattutto culturale ma anche politico e sociale. Si tratta di “minoranze” che “l’imperiale geometria delle capitali europee vorrebbe ammutolire” (15). Per quanto riguarda la Sardegna il processo e tentativo di “snazionalizzazione” è da ricondurre in modo particolare allo stato sabaudo prima e a quello italiano dopo.Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale -della cultura, del Governo,dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il casigliano,  la lingua del popolo in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la Lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici.  Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della Lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo, Pensano allora di elaborare “Il progetto di introdurre la Lingua italiana nella scuola“ affidandone lo studio e la gestione ai Gesuiti. Nella prima fase il progetto coinvolgerà comunque pochi giovani: appartenenti ai ceti privilegiati. Il problema diventa molto più ampio ai primi dell’Ottocento, quando il Governo inizia a interessarsi dell’Istruzione del popolo. I bambini “poverelli” ricevono gratuitamente due libri in lingua italiana: Il Catechismo del Bellarmino e il Catechismo agrario, “giacché l’agricoltura è precipuo sostegno di ogni stato e in particolare della Sardegna“.Ciononostante il popolo continuerà a parlare diffusamente come sotto la dominazione spagnola, la lingua sarda, affermando con essa la sua Identità, la sua cultura, la sua concezione del mondo.Per quanto attiene all’insegnamento della storia la situazione è analoga: a Pietro Martini –  uno dei padri della storiografia sarda, e siamo in pieno ‘800! – intenzionato a introdurre fra gli studenti dell’Isola l’insegnamento della Storia sarda, capitò di sentirsi rispondere seccamente dalle autorità governative piemontesi che “nelle scuole dello Stato debbasi insegnare la storia antica e moderna, non di una provincia ma di tutta la nazione e specialmente d’Italia”.Tale concezione, da ricondurre a un progetto di omogeneizzazione culturale, la ritroviamo pari pari nelle Leggi sull’istruzione elementare obbligatoria nell’Italia pre e post unitaria: del Ministro Gabrio Casati (1859), Cesare Correnti (1867) e Michele Coppino (1877).I programmi scolastici, impostati secondo una logica rigidamente nazional- statale o statalista che di si voglia – e italocentrica, sono finalizzati a creare una coscienza “unitaria“, uno spirito “nazionale“, capace di superare i limiti – così si pensava – di una realtà politico-sociale estremamente composita sul piano  storico, linguistico e culturale. Questo paradigma fu enfatizzato nel periodo fascista, con l’operazione della “nazionalizzazione” dell’intera storia italiana.A onor del vero, proprio nel periodo fascista non mancò chi, come Giuseppe Lombardo Radice, estensore dei Programmi della Scuola elementare, sostenne la necessità di valorizzare il locale e il dialetto e di partire proprio dalla lingua viva per facilitare l’apprendimento e lo sviluppo intellettuale degli scolari.( G. L. Radice, Lezioni di didattica). Sempre nello stesso periodo, fu lo stesso Gentile a voler introdurre la Lingua sarda nelle scuole isolane, con altre lingue minori in altre Regioni italiane: subito dopo estromesse dal regime perché avrebbe messo in pericolo “ l’Italianità” della Sardegna!L’idiosincrasia – uso volutamente un termine eufemistico – nei confronti di tutto ciò che è Sardo, e in modo particolare della Lingua, continuerà comunque anche nel  dopoguerra. Nel 1955, nei programmi elementari elaborati dalla Commissione Medici si introduce l’esplicito divieto per i maestri di rivolgersi agli scolari in dialetto. E in tempi a noi più vicini, con una nota riservata del Ministero – regnante Malfatti – del 13-2-1976 si sollecitano Presidi e Direttori Didattici a “controllare eventuali attività didattiche-culturali riguardanti l’introduzione della Lingua sarda nelle scuole”. Una precedente nota riservata dello stesso anno del 23-1 della Presidenza del Consiglio dei Ministri aveva addirittura invitato i capi d’Istituto a “schedare“ gli insegnanti.E non si tratta di “ pregiudizi “ presenti solo negli apparati statali e ministeriali romani: il segretario provinciale sardo di un Partito politico, allora ferocemente centralistico, sia pure di un “centralismo democratico“ nel 1978 invitava, con una circolare spedita a tutte le sezioni, di non  aderire, anzi di boicottare la raccolta di firme per la Proposta di legge di iniziativa  popolare sul Bilinguismo perchè  “separatista“ e attentatrice all’Unità della Nazione!

Note bibliografiche

9. Relazione in ciclostilato nella Riunione di Ollolai (10 Giugno 1967) nei monti del Santuario di Santu Basili, ora in “Antonio Simon Mossa: Le ragioni dell’indipendentismo” Ed. S’Iscola Sarda. Sassari 1984 a cura di Cambule-Giagheddu-Marras e in “Sardisti” vol.II di Salvatore Cubeddu, Ed. EDES, Sassari 1995, pagg.476-477.

10.1La Nuova Sardegna 4 Agosto 1967:”No ai Sardi straccioni” di Fidel.( Lo pseudonimo con cui Antonio Simon Mossa firmava, per la gran parte, i suoi articoli: Altri pseudonimi cui ricorse furono: “Giamburrasca”, “Il Moro”, “Cecil”.

1I . Ibidem.

12. Tesi di F. Riggio, Etnia e Federalismo in Antonio Mossa, relatore il Prof. Giancarlo Sorgia, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Cagliari, A.A. 1975-76.

13. Ibidem.

14. La Nuova Sardegna, Agosto 1967, Intervento di Michelangelo Pira.

15. La Nuova Sardegna, 28 Ottobre 1972, Intervento di Eliseo Spiga.

 

ultima modifica: 2014-05-02T12:43:10+02:00da zicu1
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