A OLLOLAI UN CONVEGNO SU OSPITONE

Cristianizzazione della Barbagia, Ospitone e Gregorio Magno.

di Francesco Casula

Pastores tenores organizza per il 25 aprile prossimo a Ollolai un Convegno sulla Cristianizzazione della Barbagia, Ospitone e Gregorio Magno.

Premessa.

Conosciamo Ospitone da un unico documento storico: una lettera del papa Gregorio Magno del maggio 594, a lui indirizzata, in cui è definito ”dux Barbaricinorum”. In essa il Pontefice, a lui unico seguace di Cristo in quel popolo di pagani, chiede di cooperare alla conversione delle popolazioni barbaricine che ancora “vivono come animali insensati, non conoscono il vero Dio, adorano legni e pietre”. Non si hanno notizie di un’eventuale risposta di Ospitone né sappiamo se lo stesso si sia impegnato nell’opera di conversione dei suoi sudditi. Una cosa è però certa: la lettera del grande papa serve a illuminare la precedente storia della Sardegna: la presenza nell’Isola alla fine del 500 di un “dux barbaricinorun” mette in discussione infatti numerose categorie storiografiche della storia ufficiale. Ad iniziare dalla visione di una Sardegna conquistata, vinta e dominata, dai Cartaginesi prima e dai Romani e Bizantini poi. In questo luogo comune inciampa persino il grande storico tedesco Theodor Mommsen che in Storia di Roma antica parla di una “Sardegna vinta e dominata per sempre” dopo  la sconfitta di Amsicora nel 215 a. C. da parte del console romano Tito Manlio Torquato. Se così fosse, perché continuano incessanti le rivolte dei Sardi, soprattutto barbaricini, per secoli, con i massicci interventi militari romani? Se fosse stata vinta e dominata per sempre che significato avrebbe nel 594 la presenza e coesistenza in Sardegna di un “dux barbaricinorum”, Ospitone appunto e di un dux bizantino, Zabarda, di stanza a Forum Traiani (Fordongianus), che proprio in quel momento tentava di concludere la pace con i Barbaricini? Evidentemente la parte interna della Sardegna, pur vinta, aveva comunque conservato, fin dal dominio romano, una sua indipendenza o comunque una sua autonomia, politica ma anche economica e sociale e persino culturale, nonostante l’imposizione della lingua latina che prenderà il posto della vecchia lingua nuragica.

E non si tratta di una parte interna circoscritta e limitata alle civitates barbariae intorno al Gennargentu: ma ben più vasta e con precise caratteristiche politiche, sociali ed economiche. Ecco in proposito l’autorevole opinione del più grande storico medievista sardo, Francesco Cesare Casula:”…Dalle parole del pontefice si evince che, al di là del limes fra Roméa e Barbària le popolazioni avevano un proprio sovrano o duca e che quindi erano statualmente conformate almeno in ducato autonomo se non addirittura in regno sovrano. Infine si ricava che malgrado fosse trascorso tanto tempo, le genti montane continuavano ad “adorare” le pietre, cioè i betili, permanendo nell’antica religione della civiltà nuragica. Purtroppo non sappiamo da quando esisteva questo stato indigeno e quanti anni ancora durò dopo Ospitone né dove fosse esattamente collocato. 

Noi personalmente riteniamo che fosse esteso quanto la Barbària romana, segnalato al centro ovest dall’opposto presidio di Fordongianus e dal castello difensivo bizantino di Medusa, presso Samugheo; a sud dal confine religioso fra la cristianissima Suelli, piena di Chiese e di simboli paleocristiani e la pagana Goni, nel basso Flumendosa, con le schiere di suggestive pietre fitte campestri”. (Dizionario storico sardo, Carlo delfino Editore, Sassari, 2003, pagina 1132)

Un territorio immenso, probabilmente metà Sardegna era dunque sotto il governo di Ospitone.

Cristianizzazione delle Barbagia

Nasce dalla consapevolezza del ruolo di Ospitone la Lettera di Gregorio Magno con cui invita ed esorta pressantemente il dux barba ricinorum ad assecondare la missione del Vescovo Felice e dell’abate Ciriaco per la conversione delle popolazioni barbaricine al Cristianesimo. Ruolo, carisma e prestigio, peraltro, riconosciuti  e testimoniati dal fatto che il papa conclude la lettera inviandogli la benedizione di San Pietro che era collegata “a una catena dei Beati Apostoli Pietro e Paolo” (D. Argiolas, Lettere ai sardi, vedi Ollolai cuore della Sardegna di Salvatore Bussu, pagina 53). Benedizione che era riservata, di regola, solo agli Ecclesiastici: a dimostrazione della stima che nutriva per Ospitone.

E’ poco credibile però – come scrive il papa – che solo Ospitone si fosse convertito al Cristianesimo, ad Christi servitium: certo è però che la gran parte delle comunità continuasse nella religione primitiva naturalistica, vivendo – per usare le parole di Gregorio Magno – ut insensata animalia, adorando pietre e tronchi d’albero. A testimoniare ciò basterebbe solo pensare al fatto che delle nove sedi vescovili presenti in quel periodo in Sardegna (Cagliari, Turris, Sulci, Tarros, Usellus, Bosa, Forum Traiani e Fausania-Olbia) nessuna è alloccata nelle civitates barbariae e la nascita della sede vescovile di Suelli con l’episcopus Barbariae, proprio in quel periodo, pare essere dovuta proprio per la conversione delle popolazioni barbaricine.

Occorre però sottolineare che nelle stesse popolazioni dell’Altra Sardegna, più vicine alle coste e ai maggiori centri, il Cristianesimo era poco diffuso. Nonostante gli esili e le deportazioni dei cristiani nel basso impero romano (con la loro condanna ad metalla); i primi martiri condannati a morte tra il III e IV secolo d.C sotto Diocleziano.
(Simplicio,  Lussorio e Saturno, Gavino, Prothu et Januariu, celebrati questi ultimi tre da Antonio Canu e Girolamo Araolla, i primi grandi scrittori di poemi in lingua sarda); i vescovadi e i papi sardi, (fra il 315 ed il 371 d.C., due vescovi sardi furono particolarmente attivi nella predicazione del Cristianesimo, Eusebio e Lucifero, mentre nel secolo successivo altri due sardi, Simmaco e Ilario, divennero Papi); la temporanea presenza dei vescovi africani.

A dare un impulso decisivo per la conversione dei Sardi sarà proprio Gregorio Magno, con una instancabile opera di evangelizzazione e con l’istituzione di numerosi monasteri:inizialmente nelle case private. O con l’arrivo dall’Oriente dei monaci basiliani, che non solo diffusero il vangelo tra i Barbaricini ma introdussero la coltura d’alberi (melo, fico, ulivo) dei cui frutti si cibavano nei periodi d’astinenza e di digiuno. Introdussero pure alcuni vitigni per la produzione di vini dolci per la messa (moscato e malvasia), praticavano i riti della Chiesa orientale, avevano la barba fluente e dedicarono le chiese ai santi del calendario greco.

Opera, quella di Gregorio Magno e della Chiesa, accompagnata – occorre ricordarlo sempre – anche da propositi più corposamente politici e materiali, nella difesa (e aumento) dei propri possedimenti terrieri e dei proventi derivanti da gravami fiscali che volle sempre maggiori.

Nell’opera di evangelizzazione “i missionari – lo ricorda opportunamente don Salvatore Bussu, nel suo bel libro Ollolai cuore della Sardegna, pagina 57seguivano una direttiva molto saggia che papa Gregorio aveva già dato agli evangelizzatori dell’Inghilterra di non distruggere gli edifici sacri pagani, ma trasformarli in luoghi di culto cristiano e conciliare le esigenze della nuova fede con le vecchie tradizioni a sfondo religioso cui gli indigeni erano ancora legati. Si ebbe così una specie di commistione del vecchio e del nuovo, il quale si affermerà più chiaramente solo col passare dei secoli, pur non riuscendo a spegnere ma solo a trasformare, certi valori tradizionali”.

Ciò è tanto più vero se si pensa a quanto scrive Sigismondo Arquer  nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio, –e siamo già nel 1549! – “Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano – uomini e donne – dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa”.

 

 

 

SIGISMONDO ARQUER di Francesco Casula

Università della Terza Età di Quartu Sant’Elena 14° Lezione 16-4-2014

SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione.

La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell’opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

“[…] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio.

Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se

vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris”.

 

Nota

1.Sull’Inquisizione in Sardegna, Raffa Garzia –in Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico italiano, Bologna 1914, pag.24-25- scrive : “Non è da dubitare della parola dello storico cagliaritano; eppoi sappiamo effettivamente di atti di tortura e di autos da fè in Sassari…ma merita attenzione il fatto che cioè non ci sia giunto notizia di efferatezze; abbiamo pur saputo dall’Arquer: perché non d’altri? E si badi: che il rogo per questi fu acceso a Toledo: pare che egli sia stato tratto in Ispagna con inganno, nonostante che le accuse venissero fatte nell’Isola e che qui si compisse anche l’istruttoria; ciò mi fa credere che gli Spagnuoli si astenessero prudentemente nell’isola da quelli atti di feroce fanatismo che han reso tristamente celebri i nomi del Torquemada, dello Ximenes Cisneros, del Valdès e di tanti altri”.

 

Traduzione

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGIONE

[…] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae1, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri.

Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 

Nota

1. Con bolla della crociata, ottenuta dalla Spagna ed estesa alla Sardegna. Si trattava di un funzionario che si occupava della raccolta dei fondi per la lotta contro gli infedeli, che venivano però adibiti anche ad altri usi.

 

 

Giudizi critici

Scrive Pietro Martini a proposito dell’opera Sardiniae brevis historiae dell’Arquer, denominato storico, letterato e uomo illustre: “Egli è vero che questa scrittura è molto leggiera e si limita a poche pagine: pure è degna di ricordo per la ragione specialmente che è il più antico lavoro sulle cose di Sardegna di cui si abbia memoria”.

[Biografia sarda di Pietro Martini, Ed. Reale stamperia, Cagliari 1837, pag.69].

Mentre per un altro storico sardo, Pasquale Tola, “L’Arquer è esattissimo nella descrizione delle produzioni naturali della Sardegna: ma in tutto il libro fa un ritratto così misero dei costumi sardi, che sembra il censore anziché il narratore delle cose della sua patria”.

[Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna di Pasquale Tola, Ed. Chirio e Mina, Torino 1836738, pag. 92].

 

ANALIZZARE

Nel passo che si riporta, particolarmente inquisite furono le parole rivolte al clero sardo, parole che le indagini storiografiche moderne hanno confermato essere veritiere non solo per il clero isolano, ovvero che  “Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concunbinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris » (I Sacerdoti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne fra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e di danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura).

Ma sono altrettanto dure le parole con cui denuncia gli inquisitori che “tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli”.

Nello stigmatizzare il clero ignorante e lascivo come nel denunciare, con atteggiamento critico, la violenza inquisitrice, l’Arquer fa sua la critica tardo medievale alla condizione ecclesiastica ed è partecipe del patrimonio ideale della nuova fede, forse acquisito nell’ambiente pisano ove, durante l’Università, il giovane studioso si era intellettualmente formato.

Proprio negli anni universitari (1544-1547) Sigismondo frequentando ambienti religiosi eterodossi entrò in contatto con quella cultura tutta italiana, che dopo aver subito il fascino del luteranesimo elaborò una sensibilità e una dottrina religiosa fondata sulla profonda interiorizzazione  e sulla libera interpretazione delle sacre Scritture, secondo una “sapientia” che non tollerava pregiudizi né dogmi nel suo procedere verso una “pietas” intesa come perfezione spirituale: Savonarola, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Calvino, Valdés influenzarono grandemente lo “spiritualismo italiano” di quel periodo e lo stesso Arquer.

Il compendio è scritto in latino, la lingua scritta che gli era più congeniale. E la prosa risulta, nella sua classicità, sintetica, nuda,  robusta ed essenziale.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

Arquer plurilinguista

L’Arquer usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, conciso, semplice ed elegante: tacitiano insomma. Conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue Lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, (Strofe a immagine di Cristo, contenute nella Passione), composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

Arquer scrive però solo in latino, in italiano e in castigliano, non ci sono pervenute invece testimonianze scritte nelle sue due lingue madri ovvero in catalano e in sardo, (tranne, in quest’ultima lingua, che il  Babbu nostru “Padre nostro” contenuto nella Descriptio Sardiniae). Tuttavia dichiara che tutti i processi era solito redigerli in catalano “la lingua de mi tierra” (la lingua della mia terra).

La lingua scritta che gli era più congeniale era però certamente il latino, il compendio Sardiniae brevis historiae infatti è sempre stato ammirato per la classicità della sua prosa, che risulta –come abbiamo già detto- sintetica, nuda robusta ed essenziale.

Sulla lingua sarda scrive che: corrupta fuit multum lingua eorum, relictis (ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli) etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant ( ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene).

Aggiunge specificando che nell’Isola due sono le lingue principali che si parlano: una è quella usata nelle città, l’altra è quella usata fuori di essa. Infatti nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando, gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

I catalanismi e gli ispanismi presenti nel sardo sono numerosi e riguardano la vita sociale, l’amministrazione dello stato, i cerimoniali religiosi, le arti e i mestieri, la vita quotidiana, l’abbigliamento, la gastronomia, l’oggettistica, la nomenclatura delle piante, la medicina e più in generale i modi di dire e quindi, almeno in certa misura, i modi di pensare. Si può conclusivamente affermare con Wagner che l’elemento catalano spagnolo è, naturalmente dopo il latino, di gran lunga il più importante del sardo.

 

– Il multilinguismo nella Sardegna del ‘500/’600

Sigismondo Arquer rappresenta emblematicamente ed esprime il multilinguismo presente in Sardegna nel ‘500/’600: occorre infatti ricordare che insieme all’Arquer nel Cinquecento in Sardegna scrittori come Antonio Lo Frasso, Girolamo Araolla, Pietro Delitala, utilizzano con intenti letterari una o più lingue delle almeno quattro comunemente usate. “I destinatari– scrive Nicola Tanda sono evidentemente diversi. Scrive in sardo chi intende comunicare con un lettore intermediario che lo possa mettere in comunicazione con un pubblico di parlanti sardo, di solito il clero che ha saputo stabilire un’immedesimazione con le popolazioni parlandone la lingua. Lo spagnolo e l’italiano mettono in comunicazione con ambiti di cultura più allargati e consentono un colloquio più stretto e privilegiato con le istituzioni e con il potere”.

Arquer conosce il sardo e il catalano –che apprende in famiglia, da ricordare che l’Arquer era di origine spagnola- l’italiano che apprende e approfondisce a Pisa, il castigliano che impara in seguito, durante la lunga permanenza a corte in Spagna. Essa è la lingua ufficiale scritta, insieme al Latino, quest’ultima  specie all’interno della Chiesa.

Ha dunque due lingue madri: il catalano e il sardo, appartenenti alla sfera dell’oralità, mentre il latino, italiano e castigliano vengono impiegati nella scrittura, con una diversità di funzioni: il castigliano che utilizzerà per scrivere “Passione” e altre brevi preghiere, finirà col diventare “la lingua para hablar con Dios” (la lingua per parlare con Dio), come diceva Carlo V; mentre il latino, che utilizzerà nell’Historia, sarà la lingua scritta che gli è più congeniale.

 

Letture

1. De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

“Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium

habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam, Eu habes utrìusque linguae discrimen in domenica oratione”.

 

Traduzione

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. Ecco, dunque, un esempio dell’una e dell’altra lingua, in una preghiera rivolta al Signo­re.

 

2. Il Padre nostro trilingue: in latino, catalano e sardo [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 41]

 

Pater noster qui es in coelis sanc­tificetur nomen tuum. Adveniat

Pare nostre che ses en los cels sia santificat lo nom teu. Venga

Babu nostru sughale ses in sos che­ius santu siada su nomine tuo. Ben­giad

 

regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra:

lo regne teu, fasase la voluntat tua axicom en lo cel i en la terra:

su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua comenti in chelo et in sa terra:

 

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis

lo pa nostre cotidià dona a nosaltres hui, i dexia a nosaltres

su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros

 

 

debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne

los deutes nostres, axicom i nosal­tres dexiàm als deutors nostres, i no

is debitus nostrus, comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus, e no

 

inducas in tentationem, sed libera nos a malo, quia tuum est

nos induescas en la tentatio, mas livra nos del mal perché teu es

nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteu tuo esti

 

regnum, gloria et imperium, in secula seculorum amen.

lo regne, la gloria i lo imperii en los sigles de les sigles, amen.

Su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos, amen.

 

 

COMPRENDERE E VALUTARE

Altre attività didattiche per lo studente

Approfondimenti

-Il problema della “tortura” da parte della Inquisizione ecclesiastica: approfondisci, illustra e motiva le tue opinioni.

-Precisa, illustra e approfondisci il tuo pensiero in merito al giudizio che esprime l’Arquer sulla cultura e la moralità dei preti.

-Inquadra il testo riportato nel periodo storico in cui è stato scritto accennando in particolare al tema dell’Inquisizione.

 

Confronti

-La condanna al rogo di Arquer (1571) e la condanna al rogo di Giordano Bruno (1598): individua e illustra possibili analogie e differenze.

 

Ricerche (anche a mezzo Internet)

-Servendoti anche di Internet, registra le opere ispirate dalla vicenda tragica dell’Arquer, sia nel campo letterario che teatrale in Sardegna.

 

Spunti vari

-Riassumi i costumi e la natura dei sardi, così come emergono dal testo.

 

Bibliografia essenziale

Opere dell’Autore

Sardiniae brevis historia et descriptio, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Trois,Cagliari 1987.

Lettere, in Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafè, Marcello Maria Cocco, Ed. Castello, Cagliari 1986.

Passione, in Sigismondo Arquer e la “Passione”, a cura di Marisa Cocco Angioy, Tip. Operai, Cagliari 1986.

 

Opere sull’Autore:

– Sergio Bullegas, Il teatro in Sardegna fra Cinque e Settecento,da Sigismondo Arquer ad Antioco del’Arca, Ed. Edes, Cagliari 1976.

–   Marcello Maria Cocco, Sigismondo Arquer, dagli studi giovanili all’autodafè, Ed. Castello, Cagliari 1986.

–   Salvatore Loi, Sigismondo Arquer, un innocente sul rogo dell’Inquisizione, AM&D ed. Cagliari 2003.

– Frantziscu Casula-Marco Sitzia, Sigismondo Arquer, Alfa editrice, Quartu, 2008.

(Tratto da Francesco Casula,Letteratura e civiltà della Sardegna, vol.I, Grafica del Parteolla Editore, Dolianova, 2011, pagg. 42-51)

 

Il 13 giugno al Campidoglio a Roma, presentazione della “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula

Il 13 giugno al Campidoglio presentazione della “Letteratura e civiltà della Sardegna”

UNA PICCOLA NEMESI STORICA

di Francesco Casula

I giudizi e le valutazioni degli scrittori classici latini nei confronti della Sardegna e dei Sardi non sono benevoli: sia quelli di Orazio che di Livio. Quelli di Cicerone sono anzi infamanti e insultanti.

Orazio (65-8 a.c.), il poeta latino famoso soprattutto per le Satire, parlando di Tigellio – musico e cantore sardo, amico di Cesare e di Ottaviano  – nella Satira 1.3 scrive che tutti i cantanti hanno questo difetto: che se sono pregati non cantano ma quando cominciano spontaneamente non la smettono più. E questo è il difetto che aveva il sardo Tigellio che non riusciva a far cantare neppure Cesare….

In un’altra satira 1.2 dice che per la morte di Tigellio Le suonatrici di flauto, i ciarlatani che vendono rimedi, i mendicanti, le ballerine e i buffoni, tutta questa gente è mesta e addolorata per la morte del cantante Tigellio; e ciò è naturale poiché egli fu generoso.

A significare che il musico sardo era esagerato e stravagante.

Livio (59 a.c.-17 d. c.) autore della monumentale Storia di Roma Ab urbe condita libri parlando dei sardi sostiene che erano facile vinci (avvezzi ad essere battuti  facilmente). Un giudizio senza alcun fondamento storico e anzi contraddetto dallo stesso Livio, in un altro passo della sua storia, in cui parla di gente ne nunc quidem omni parte pacata  (popolazione non ancora del tutto pacificata). E siamo alla fine del 1° secolo a. c.! Dopo l’arrivo infatti delle legioni romane in Sardegna nel 237 a.c. la resistenza alla dominazione romana sarà lunghissima e dura. E’ lo stesso Livio – insieme ad altri storici – a scandire decine e decine di guerre contro la popolazione sarda da parte dei consoli romani: fin dal 236 un anno dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Per continuare nel 235, quando i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue  da Manlio Torquato, lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora e che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini. Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233. Nel 232 sarà il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfo celebrandolo il 15 Marzo. Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone – la testimonianza è sempre dello storico Zonara – chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.

Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea lo storico sardo PietroMeloni (in La Sardegna romana ,Chiarelli editore) Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.

Ci saranno infatti rivolte ancora nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma e i Romani non potevano opporre resistenza perché le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.

Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 – due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.

Commenta (in Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna)) lo storico sardo Salvatore Merche: La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere. Altro che Sardi facile vinci!

Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“  il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio Sardi venales : da vendere a basso prezzo. 

Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo informazioni – perché andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo ex Sardinia di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.

Ma è Cicerone lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, di cui parla soprattutto in  Pro M. Aemilio Scauro oratio.

L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. Questi è accusato di tre “crimini”: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto che essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: i due reati (veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo, – sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi (in Storia della Sardegna, Mursia editore) –  non erano tali da preoccupare un avvocato dell’abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo. Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni – laudatores – a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato.

Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro.

Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento, non ci sia pervenuta.

Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes).

Ma c’è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l’accusa più grave e insultante, oggi diremmo “razzistica”: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gentenemmeno all’o­rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?)

Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere.

A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d’accordo con il suo “compare” Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Ma si tratta – si chiede lo storico Carta-Raspi nell’opera già citata – di artificio oratorio o ignoranza?

Probabilmente dell’uno e della’altra insieme.

Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua “origine”.

Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e  Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i giudici che lo mandarono assolto.

Ma uno degli accusatori, Publio ValerioTriario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone,

E pochi anni dopo, come ricorda nella tragedia Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda, (Editziones de Sardigna) il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, Cicerone viene decapitato dal centurione di Marc’Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato, ipse dixit.

Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: “Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d’ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri”.

Difficile dare torto a Vivanet.

Perché tutta questa lunga premessa e dissertazione?

Perché il 13 giugno prossimo al Campidoglio a Roma verrà presentata la mia “Letteratura e civiltà della Sardegna” (2 volumi, Edizioni Grafica del Parteolla).

Ebbene è nel Campidoglio che si svolgevano le cerimonie più importanti dei Romani, ad iniziare dai trionfi che venivano “concessi” dal Senato al console o al generale che avesse ucciso un numero di nemici “giudicato adeguato” (pare 5.000). Ebbene i Romani contro i Sardi ne celebrarono ben otto.

Ebbene, in quello stesso “tempio” dei trionfi Romani (ovvero degli eccidi) contro i Sardi, il 13 giugno prossimo, per una sorta di piccola nemesi storica, si celebreranno i Sardi, quelli stessi che i vari Livio e Cicerone, avevano riempito di contumelie e insulti: Sardi venales (Sardi da vendere a basso prezzo); Sardi facile vinci (Sardi facilmente battibili in guerra, ovvero poco eroici e coraggiosi); Sardi mastrucati latrunculi (Sardi ladruncoli, vesti con pelli di montoni); Sardus afer (Sardo africano):siamo al razzismo ante litteram!

Si celebreranno i Sardi, la loro civiltà, la loro letteratura e la loro lingua. E la loro “creatività” di cui Nereide Rudas in L’isola dei coralli scrive:”La creatività dei Sardi, così evidente e così insolita… perché? Da cosa ha origine? Sono stata sempre affascinata da questa creatività: una creatività inso­lita, per certi versi nattesa, quasi misteriosa. Mi sono domandata come mai un gruppo umano così poco numero­so, così isolato e così disperso sul proprio territorio, avesse potuto espri­mere tanti talenti creativi nei diversi campi del pensiero e dell’ arte”.  

 

 

Introduzione a “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula

INTRODUZIONE alla Letteratura e civiltà della Sardegna, di Francesco Casula

E’ esistita una Letteratura e una Civiltà sarda? C’è chi lo nega. Alcuni dubitano perfino che la Sardegna abbia avuto una storia tout court. Emilio Lussu ha scritto che noi non abbiamo avuto una storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona ecc. Lo storico francese Le Roy Ladurie ha sostenuto che la Sardegna giace in un angolo morto della storia. Francesco Masala, il nostro più grande poeta etnico, parla di storia dei vinti perché i vinti non hanno storia. Fernand Braudel, il grande storico francese, direttore della rivista “Annales” che rivoluzionerà la storiografia contemporanea, alludendo ad alcuni popoli mediterranei, fors’anche all’Isola, ammette che la loro storia sta nel non averne e non si discosta molto da questa linea raccontando che viaggiare nel mediterraneo significa incontrare il mondo romano nel Libano e la preistoria in Sardegna.

Il mestiere dello storico di cose sarde, diventa difficile senza dubbio. Ad accrescere le difficoltà interviene il veto contro la preistoria. I Comportamenti preistorici, su cui la civiltà ha posto un veto, hanno condotto un’esistenza sotterranea, osservano i filosofi tedeschi Max Horkheimer e Theodor Adorno, che aggiungono: il ricordo vivo della preistoria è stato estirpato dalla coscienza degli uomini, in tutti i millenni con le pene più tremende.

La Biblioteca del Quotidiano Repubblica, nel 2005 ha pubblicato e diffuso a migliaia di copie un volume di 800 pagine sulla preistoria nel quale nuraghi e Sardegna non vengono citati, neppure per errore. Un’occasione mancata per la cultura italiana che pur pretende, – e con quale spocchia- di dominare sull’Isola. Per contro, uno dei redattori più influenti del quotidiano romano, Sergio Frau, da tempo sostiene, producendo una grande messe di indizi e di prove, che al tempo dei nuraghi la Sardegna altro non era se non Atlantide. La tesi, se verificata fino in fondo, sconvolgerebbe la storia del Mediterraneo così come la conosciamo; anche per questo è avversata con veemenza da accademici, sovrintendenti, geologi e antropologi (soprattutto sardi), poco disposti a mettere in discussione se stessi e le certezze su cui hanno fondato carriere e fortune. E’ la stessa veemenza usata nel passato contro il dilettante scopritore di Troia, anch’essa come Atlantide considerata un semplice “mito”.

Se il Quotidiano “La Repubblica” ha compiuto un semplice peccato di omissione, qualcuno ha fatto di peggio: certo Gustavo Jourdan, uomo d‘affari francese, deluso per non essere riuscito dopo un anno di soggiorno in Sardegna, a coltivare gli asfodeli per ottenerne alcool, in “l’Ile de Sardaigne” (1861) parla della Sardegna rimasta ribelle alla legge del progresso, terra di barbarie in seno alla civiltà che non ha assimilato dai suoi dominatori altro che i loro vizi.

L’inglese Donald Harden, archeologo, filologo e storiografo di fama, dopo aver visitato molte contrade della Sardegna, agli inizi del Novecento, tra gli anni ’20 e ‘30, espresse giudizi poco lusinghieri sulla tradizionale cultura del popolo sardo che lo aveva ospitato e in una sua opera “The Fhoenician” parlerà della Sardegna come regione sempre retrograda.

Ma tant’è: accecati dall’eurocentrismo, evidentemente costoro dimenticano che quella nuragica è stata la più grande civiltà della storia di tutto il mediterraneo centro-occidentale del secondo millennio avanti Cristo. Con migliaia di nuraghi (8.000 secondo le fonti ufficiali: l’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali) costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto, innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. Ma anche la musica delle launeddas

Quella Sardegna, (per Omero la Scherìa, la terra dei Feaci, abitanti di un’Isola su tutte felice), posta a Occidente nel mezzo del Mediterraneo, aperta al mondo, che combatte, alleata con i Popoli del mare contro i potenti eserciti dei Faraoni e dei re di Atti che tiranneggiano e opprimono i popoli.

La Sardegna, l’Isola sacra in fondo al mare di Esiodo, l’Isola dalle vene d’argento (Argyròflebs) di Platone poi Ichnusa Sandalia ecc. oltre che Isola “felice” è infatti Isola libera, indipendente e senza stato. Organizzata in una confederazione di comunità nuragiche mentre altrove dominano monarchi e faraoni, tiranni e oligarchi. E dunque schiavitù. Non a caso le comunità nuragiche costruiscono nuraghi, monumenti alla libertà, all’egualitarismo e all’autonomia; mentre centinaia di migliaia di schiavi, sotto il controllo e la frusta delle guardie, sono costretti a erigere decine di piramidi, vere e proprie tombe di cadaveri di faraoni divinizzati.

Per sfuggire alle carestie, alla fame e alla miseria ma anche alle tirannidi e alla schiavitù molti si rifugeranno nell’Isola, che accoglierà esuli e fuggitivi. Venti mila –secondo il linguista sardo Massimo Pittau- scampati alla distruzione della città-stato di Sardeis in Anatolia, da parte degli invasori Hittiti. Altri arriveranno dalla stessa Troia.

Finchè i Cartaginesi non invasero la Sardegna, per fare bardana, depredare e dominare l’Isola.

Scrive a questo proposito in “La civiltà dei Sardi” Giovanni Lilliu, il più eminente archeologo sardo e membro della ‘Accademia dei Lincei : “Gli antichi pastori e agricoltori lasciavano i castelli distrutti, le case fumanti, i templi profanati e le tombe dei loro morti incustodite, verso le rocce, le caverne e i boschi paurosi del centro montano. Fu non soltanto una ritirata di uomini, donne e fanciulle perseguiti come vinti dal vincitore straniero e sospinti verso una carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di un’intera civiltà protesa in uno sforzo decisivo e vicina al suo pieno traguardo storico. Con la sconfitta fu pure incrinata la compattezza etnico- sociale dei Sardi della civiltà nuragica e ne risultò la prima grande divisione politica: da una parte l’Isola montana, -dei Sardi ancora liberi, seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori, come lo furono nel secolo XIX gli indiani americani di Capo Giuseppe, chiusi in una riserva dell’Idaho, dai bianchi del generale Miles, che continuò a esprimere una cultura genuina e autentica di pastori, per quanto impoverita e decaduta-; dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori”.

Con il dominio romano fu ancora peggio. Fu un etnocidio spaventoso. La nostra comunità etnica fu inghiottita dal baratro. Almeno metà della popolazione fu annientata, ammazzata e ridotta in schiavitù. “Negli anni 177 e 176 a.c – scrive lo storico Piero Meloni– un esercito di due legioni venne inviato in Sardegna al comando del console Tiberio Sempronio Gracco: un contingente così numeroso indica chiaramente l’impegno militare che le operazioni comportavano”. Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176- nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: “Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove”.

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“ il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo, tanto da far dire allo stesso Livio “Sardi venales“ : Sardi da vendere, a basso prezzo.

Altre decine e decine di migliaia di Sardi furono uccisi dagli eserciti romani in altre guerre, tutte documentate da Tito Livio, che parla di ben otto trionfi celebrati a Roma dai consoli romani e dunque di altrettante vittorie per i romani e eccidi per i sardi.

Chi scampò al massacro fuggì e si rinchiuse nelle montagne, diventando dunque “barbara” e barbaricina, perché rifiutava la civiltà romana: ovvero di arrendersi e sottomettersi. Quattro-cinque mila nuraghi furono distrutti, le loro pietre disperse o usate per fortilizi, strade cloache o teatri; pare persino che abbiano fuso i bronzetti, le preziose statuine, per modellare pugnali e corazze, per chiodare giunti metallici nelle volte dei templi, per corazzare i rostri delle navi da guerra.

La lingua nuragica, la primigenia lingua sarda del ceppo basco-caucasico, fu sostanzialmente cancellata: di essa a noi oggi sono pervenuti qualche migliaio di toponimi: nomi di fiumi e di monti, di paesi, di animali e di piante.

Le esuberanti creatività e ingegnosità popolari furono represse e strangolate. La gestione comunitaria delle risorse, terre foreste e acque, fu disfatta e sostituita dal latifondo, dalle piantagioni di grano lavorate da schiere di schiavi incatenati, dalle acque privatizzate, dai boschi inceneriti. La Sardegna fu divisa in Romanìa e in Barbarìa. Reclusa entro la cinta confinaria dell’impero romano e isolata dal mondo. E’ da qui che nascono l’isolamento e la divisione dei sardi, non dall’insularità o da una presunta asocialità.

A questo flagello i Sardi opposero seicento anni di guerriglie e insurrezioni, rivolte e bardane. La lotta fu epica, anche perché l’intento del nuovo dominatore era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi. La reazione degli indigeni fu fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. “La lunga guerra di libertà dei Sardi –è sempre Lilliu a scriverlo – ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215, guidata da Amsicora, la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori)”.

La Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. Ma non fu annientata. La resistenza continuò. I sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi).

Per alcuni secoli la minaccia repressiva sembrò essersi allontanata o comunque in qualche misura attenuata, finché il 4 Aprile del 1297 Bonifacio VIII le diede nuovo slancio con la bolla di infeudamento del Regnum Sardiniae et Corsicae, a favore di Giacomo II d’Aragona. La Bolla licentia invadendi, fu l’occasione per i reali iberici per invadere e occupare militarmente le terre sarde. Così da quel giorno la Sardegna, con l’arrivo dei sovrani Aragonesi prima e degli Spagnoli e Piemontesi poi, ri-perse la sua indipendenza: ridivenne «provincia» d’oltremare, come ai tempi dei Romani.

Un’altra spaventosa ondata di malasorte si abbattè sull’Isola, soprattutto nell’800 ma anche nel ‘900, e si snoderà attraverso una serie di eventi devastanti: socio-culturali prima ancora che politico-economici.

Ad iniziare dalla Legge delle Chiudende del 1820, con cui si abolirono le terre comunitarie per formare la proprietà perfetta. “Una legge famigerata –scriverà Giuseppe Dessì in Paese d’Ombre che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli”, causando gravissime crisi economiche e sociali. E ribellioni violente contro la recinzione delle terre comunitarie: tanto che, soprattutto nel Nuorese, o comunque dove l’opposizione fu più decisa, soprattutto i pastori riuscirono a “conservare” molto “cumonale”. Fu in conseguenza di quella lotta che ancora oggi in Sardegna e nelle zone interne pastorali in particolare, le terre comunali indivise occupano il 15% circa dell’intera superficie (353.000 ettari) cui occorre aggiungere 227.000 ettari di terre appartenenti a Enti Pubblici.

Per proseguire prima con la la fusione perfetta del 1847, quando la Sardegna rinunciò alla sua Autonomia stamentaria –ovvero al suo Parlamento- per “fondersi” con il Piemonte: decisione di cui si pentiranno subito gli stessi protagonisti; in seguito con la politica dei governi italiani postunitari, ferocemente antisarda e centralista; infine con il ventennio del regime fascista, fortemente antiidentitario: vietò non solo l’uso della lingua sarda ma le stesse gare poetiche estemporanee.

Fino ad arrivare ai nostri giorni: allo stato centralizzato e al capitalismo industriale, Al Piano di Rinascita e al modello di sviluppo degli ultimi 40/50 anni, tutto incentrato sulla grande industria di stato e sulla petrolchimica: che non ha risolto i problemi occupazionali e della prosperità: li ha anzi aggravati; ma che soprattutto ha attentato al modello di società e comunità etnica, alla cultura e alla sapienza popolare, soppiantate non da altre culture e altre sapienze ma da un coacervo di ideologie spesso nefaste, spesso rivolte a manomettere la natura, depauperare il territorio e a colpire la specificità linguistico-culturale, attraverso l’assimilazione e l’omologazione.

Il processo tuttavia è lungi dall’essere conchiuso.

La storia dei Sardi, come nel passato, continua infatti ad essere caratterizzata da quella che il già citato Giovanni Lilliu chiama la costante resistenziale che ha loro permesso di conservare il senso d’appartenenza ovvero “quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno”.

Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.

Ma soprattutto basti pensare alla Lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.

La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.

Anche il diritto consuetudinario –padre e figlio di quel monumento della civiltà giuridica che è la Carta de Logu– si è trasformato nel tempo, anche se la sua applicazione concreta (per esempio il cosiddetto “Codice barbaricino”) è da un lato costretta alla clandestinità e dall’altro a una restrizione alla società del “noi pastori”. Solo la crescita e l’affermarsi di studiosi, sardi non tanto per anagrafe quanto per autonomia dall’accademia autoreferente, ha fatto sì che gli elementi fondanti la cultura e la civiltà sarda passassero dall’enfasi identitaria alla fondatezza scientifica.

Alla straordinaria ricchezza culturale sono tuttavia spesso mancati, almeno fin’ora, i mezzi per una crescita e prosperità materiale adeguata. Oggi, dopo il sostanziale fallimento dell’ipotesi di industrializzazione petrolchimica, si punta molto sull’ambiente e sul turismo, settore quest’ultimo sicuramente molto promettente, purchè si integri con gli altri settori produttivi, ad iniziare da quelli tradizionali come l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato. La struttura economica sarda infatti è sempre stata fortemente caratterizzata dalla pastorizia, che oggi però con i suoi quattro milioni di pecore, sottoposta com’è a processi di ridimensionamento dalle politiche dell’Unione europea, rischia una drammatica crisi.

Ebbene, pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura, l’umore esistenziale del proprio essere sardo –di cui parla Giovanni Lilliu- continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore.
Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire. A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni (edito dalla Biblioteca dell’Identità-Unione sarda, pag.18-19) scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale- non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate –nonostante la comunanza della lingua, con quella di altre regioni, almeno dopo l’Unità- come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

In questa antologia potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso- si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato imbrigliato e impastoiato potesse correre? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo, ed ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Cosicché essa non è un fatto “primigenio” ma è fatta e prodotta di somme e di accumuli, è un prodotto storico che sta a testimoniare la capacità dei sardi di confrontarsi con le culture esterne, volgendole e assimilandole in moduli specifici. Ciò, fra l’altro, consente che nella letteratura sarda si ritrovino insieme autori che scrivono in sardo e in italiano ma anche autori che hanno scritto, in latino, in catalano e in castigliano –come riporteremo e documenteremo in questa Letteratura– e non importa con quale certificato di nascita e con quali «contenuti» e temi. L’importante è che questi autori trovino una condizione specifica nello «stare» per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici«realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

L’importante è che la produzione letteraria esprima una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

L’importante è soprattutto –come scrive Antonello Satta- “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Miguel de Unamuno era basco, e scriveva in castigliano, ed era anche contrario a una ripresa dell’euskera come lingua letteraria. Eppure Unamuno, se fa parte della letteratura spagnola, fa anche parte della letteratura basca e il mondo intero, così presente nella sua opera, è per lui una Bilbao dilatata: Hermanos somos todos los umanos/el mundo intero es un Bilbao màs grande.

Anche tra Italia e Sardegna vi sono appartenenze comuni: e dunque negli autori sardi vi sono anche elementi di assimilazione e di integrazione e persino “imitatori” di movimenti e stili oltre tirreno e non solo. Pensiamo -per esempio- a due “grandi” del Primo Novecento: Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo vanta robuste ascendenze carducciane e pascoliane; la seconda è copiosamente influenzata sia dal Verismo che dai romanzieri russi di fine ottocento: eppure ambedue sono soprattutto i cantori della “sardità” e pongono al centro della loro scrittura la Sardegna e i Sardi.

Ma anche quando la Sardegna non è “protagonista” –pensiamo a Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni– emerge comunque l’identità etno-nazionale sarda. Nel caso di Lussu, è evidente nella sua scrittura che, come ha sostenuto autorevolmente il linguista sardo Leonardo Sole, si incardina nella cultura orale e in particolare perfino nel ritmo narrativo della fiaba sarda: fortemente ritmizzata e caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido.

In realtà, se vogliamo parlare di opere letterarie e, pur sapendo che appartengono al mondo, ci proponiamo di identificarle come sarde, dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l’uso che ne fanno e per il loro modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna.

In realtà l’unico modo per analizzare la Letteratura sarda –come sostiene Silvano Tagliagambe- “è valutarne l’evoluzione storica, mettendone in luce la continuità di varie caratteristiche come elementi di un’unica catena”. A patto che –cito ancora Antonello Satta- “non si vada a parare in «Madonna Evoluzione» e si tenga conto che la continuità, soprattutto in letteratura, può subire rotture, come rileva Asor Rosa, e le cose, restie ad adattarsi a storicismi stretti, possono andare, secondo la metafora di Bertrand Russel, «a macchie e sbalzi»”.

Una letteratura sarda esiste, se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è «specifica», non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità. E’ proprio l’Identità sarda il tratto che accomuna gli Autori che abbiamo scelto e trattato in questo volume.

 

 

Presentazione a Cagliari di “Letteratura e civiltà della Sardegna” di Francesco Casula

Presentazione a Cagliari di “Letteratura e civiltà della Sardegna”

Sabato mattina 12 aprile h. 9,30 a Cagliari (Biblioteca Universitaria- Viale Università- Sala Settecentesca) verrà presentata l’opera “Letteratura e civiltà della Sardegna” (2 volumi,).

La presenteranno Bachisio Bandinu, scrittore, etnologo; Giulio Angioni, antropologo e scrittore; Giacomo Mameli, giornalista e scrittore; Salvatore Cubeddu, sociologo, segretario della Fondazione Sardinia; Piero Marcialis, regista e attore.

L’opera di Francesco Casula, Letteratura e civiltà della Sardegna, (Edizioni Grafica del Parteolla) in due volumi, propone  un itinerario stori­co-letterario che partendo dalla nascita della lingua sarda e dai primi docu­menti in volgare sardo arriva fino ai nostri giorni.

Nell’opera potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti: può darsi, ma – dato e non concesso – si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre?

Il criterio della selezione e la scelta degli Autori non è stato comunque la lingua utilizzata: per cui ci sono Autori che scrivono anche in Latino, Catalano, Castigliano, Italiano.

Perché – scrive Casula nella prefazione all’Opera –  “Una Letteratura sarda esiste se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è  «specifica», non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità”  E dunque “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Il primo volume tratta degli Autori che formano le fondamenta della nostra letteratura: Antonio Cano, Sigismondo Arquer, Girolamo Araolla, Gian Metteo Garipa e Fra Antonio Maria da Esterzili fino a Efisio Pintor Sirigu, Francesco Ignazio Man­nu, Diego Mele, Peppino Mereu, Gianbattista Tuveri, Antonio Gramsci e Emilio Lussu. Tra i romanzieri del 1900-2000 figurano Deledda, Salvatore Satta e Giuseppe Dessì. Per racconta­re il banditismo e la società del males­sere, i codici ‘barbarìcìni e i suoi ana­listì, vengono indicati Piglia­ru, Pira e Fio­ri. Sebastiano Satta con Salvatore Cambosu, è l’autore in lingua italiana inserito nel capitolo sulla letteratura identitaria del 1900-2000; mentre tra i poeti in lingua sarda fi­gurano Montanaru e Pedru Mura.

Il secondo volume inizia con gli scrittori bilingui Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Antonio Cossu,  Franco Fresi (in Gallurese).

Fra gli scrittori in lingua italiana emergono Antonio Puddu, Michele Columbu, Nereide Rudas, Eliseo Spiga, Giulio Angioni, Bachisio Bandinu, Salvatore Niffoi, Sergio Atzeni, Michela Murgia, Flavio Soriga.

Fra quelli invece in lingua sarda sarda Aquilino Cannas, Franco Carlini, Gianfranco Pintore.

Tre poetesse in lingua sarda concludono la Letteratura: Maddalena Frau, Paola Alcioni e Anna Cristina Serra.

 

 

 

Antonio Canu e Girolamo Araolla i primi scrittori di poemi in lingua sarda di Francesco Casula

ANTONIO CANU*

Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)

Antonio Cano (o Canu) nasce a Sassari, sul finire del Trecento e muore verso il 1470: ma non conosciamo la data esatta né della nascita né della morte. Sappiamo però che dopo essere stato rettore nella villa di Giave, fu eletto abate nella prestigiosa abbazia di Saccargia dell’Ordine Camaldolese e che, essendo figlio del barone di Osilo, nel 1420 pare sia stato nominato oratore di corte da Alfonso V il Magnanimo.Nominato inoltre dal Papa Eugenio IV, dal Luglio del 1436 al 1448 fu vescovo della Diocesi di Bisarcio (oggi scomparsa) e dal 1448 al 1480  dell’Archidiocesi di Sassari (un tempo di Torres).Il 12 Marzo 1437 in qualità di vescovo indisse un sinodo nella Chiesa di Santa Maria di Ozieri: i cui Atti però sono andati perduti. Nel 1444, essendo deceduto l’abate Giovanni, della SS Trinità di Saccargia, chiese ed ottenne dal Papa l’amministrazione spirituale e temporale del monastero.La sua fama è legata soprattutto al poemetto in rima, Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto in Lingua sarda- logudorese, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato.  Fu però pubblicato molto più tardi, nel 1557: l’esemplare, conservato nella Biblioteca dell’Università di Cagliari e proveniente dal lascito Baylle, è l’unico che si conosca del poema. L’edizione reca, segnata a penna da mano più recente, l’attribuzione all’arcivescovo di Torres Antonio Cano: «Auctore Antonio Cano Archiepiscopo Turritano realisti». Confermerebbe tale attribuzione Giovanni Francesco Fara (1553-1591, arciprete del capitolo turritano, vescovo di Bosa e padre della storiografia sarda con le opere Chorographia Sardiniae e De rebus Sardois. Certo è che il successo del poema dovette essere notevole se ancora dopo circa un secolo si sentì la necessità di pubblicarlo a stampa, in un periodo nel quale nella Sardegna del Cinquecento, la stampa di un libro –naturalmente se è sarda- doveva costituire un avvenimento abbastanza eccezionale. Per la notevole importanza filologica del testo, fu ristampato dalla Ditta G. Dessì di Cagliari nel 1912, in edizione critica del grande linguista tedesco Max Leopold Wagner.Il poemetto, di argomento agiografico, è considerato la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi conosciuta. Scrive a questo proposito Dino Manca, che nel 2002 ne ha curato una edizione critica per la CUEC editore di Cagliari: “Si tratterebbe del più antico testo fino a oggi ritrovato, con chiare e intenzionali finalità estetiche. Prima di quest’opera la lingua sarda non aderisce a una realtà letteraria autosufficiente, ma si tratta piuttosto di una produzione modellatasi sino all’età moderna prevalentemente attraverso una codificazione riferita vuoi al registro cancelleresco, vuoi a tipologie testuali di taglio legislativo (più generalmente regolativo) documentario e cronistico. L’esistenza di nuclei di «narratività», «diacronicità», drammatizzazione scenica e dialogica, dentro questi tessuti linguistici costruiti con finalità eteronome rispetto a quelle estetiche, non ci consentono di parlare di opere letterarie prima di questo poemetto”.Il poemetto sarà la fonte principale dell’opera di Girolamo Araolla, il poeta trilingue e  “il ripulitore della lingua sarda”: Sa vida, su martiriu et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuari. 

Presentazione del testo ( i 12 versi che costituiscono la Protasi e i 25 versi iniziali del poemetto sono tratti dall’opera Sa vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavinu Prothu et Januariu di Antonio Cano a cura di Francesco Alziator, Cagliari Editrice sarda F.lli Fossataro, 1976, pagg.44-45) .

Il poema composto di 1081 versi, è preceduto da una breve proposizione o protasi, di dodici versi, con l’invocazione a Dio perché conceda all’Autore di portare a termine la narrazione del santo martirio dei cavalieri di Cristo, Gavino, Proto e Gianuario.Per Francesco Alziator –che ne curerà un’edizione nel 1976- l’opera sarebbe, allo stato attuale degli studi, la più antica opera conosciuta, con valenza esclusivamente letteraria, in lingua sarda. Sempre a parere dell’Alziator, in sintonia con il Wagner per quanto attiene allo stile del poemetto “assai popolare”, il Cano sarebbe partito da un preesistente nucleo popolare –la leggenda agiografica di Gavino, Proto e Gianuario, decapitati a Turris Libisonis (Porto Torres) per ordine di Diocleziano e di Barbaro, praeses provinciae (presidente della provincia)- che avrebbe ingrandito, ripulito e interpolato, innestando nell’antico tronco più popolare, l’elemento dotto.

Protasi

O Deu eternu, sempre omnipotente,

In s’aiudu meu ti piachat attender

Et1 dami gratia de poder acabare

Su sanctu2 martiriu in rima vulgare3

De sos sanctos martires tantu gloriosos

Et cavaleris de Cristus victoriosos

Sanctu Gavinu Prothu e Januariu

Contra su demoniu nostru adversariu

Fortes defensores et bonos advocaos,

Qui in su paradisu sunt glorif icados

De sa corona de sanctu martiriu,

Cussos sempre siant in nostru adiutoriu.

Amen

 Traduzione

(O Dio eterno, sempre onnipotente, ti piaccia intervenire in mio aiuto e donarmi la grazia per poter finire in rima volgare, il santo martirio dei santi Martiri tanto gloriosi e cavalieri di Cristo vittoriosi, San Gavino, Proto e Gianuario.Contro il demonio nostro nemico, forti difensori e buoni avvocati, che sono glorificati in paradiso con la corona del santo martirio, intervengano sempre in nostro aiuto. Così sia)

Giudizi critici

Max Leopold Wagner, che ne curerà un’edizione, dà un giudizio molto severo sull’opera ma insieme spiega l’importanza di essa, scrivendo che : ”Il pregio poetico del lavoretto è certo assai scarso; sono per lo più versi ronchiosi e dinoccolati con molte rime insufficienti e il racconto è improntato a un’ingenuità che rasenta talvolta la goffaggine. Se ad onta di ciò abbiamo creduto utile pubblicare il poemetto del Cano, si è perché porge per vari rispetti un certo interesse. Trattandosi di uno dei primi libri di stampa sarda ed essendo una grande rarità bibliografica”.[Max Leopold Wagner, Il martirio dei SS. Gavino, Proto e Januario, di Antonio Cano, Ed. G. Dessì, Cagliari 1912, pag. 4]

Mentre Giovanni Spano definì il poemetto “una leggenda sacro-istorica di rima bissenaria accoppiata con misto di versi decasillabi, endecasillabi, martelliani, bisottonari, diciotto sillabe, di un misto di versi di 12 e 6 sillabe, talvolta con rimalmezzo”.[Giovanni Spano, Ortografia sarda nazionale, Cagliari 1840, vol.2, pag.102, nota]. 

ANALIZZARE

 Dopo la protasi, con l’invocazione a Dio, che risulta semplice e modesta, quasi dimessa, si apre il poema con l’editto anticristiano di Diocleziano e Massimiano.Particolarmente interessante è la definizione di “rima vulgare”che il Cano dà alla lingua del poema, ovvero alla lingua sarda, definizione che sembrerebbe denunciare una cultura e una conoscenza di problemi che appartenevano allora più all’ambiente italiano che non a quello ispanico nel quale cominciava già a gravitare la Sardegna del XV secolo. L’andamento di questa protasi, che in qualche modo può far pensare, anche se assai di lontano, a modelli italiani del Cinquecento, secondo qualche critico potrebbe essere stata aggiunta al momento della stampa nel 1557 dall’Editore, per uniformare l’opera del Cano alla moda dell’epica più corrente nel ‘500.  L’arcivescovo Cano è colto in storia e dunque non si lascia sfuggire l’occasione per dimostrarlo, specificando la data (nel 290) e la durata (vent’anni) delle persecuzioni volute dai due imperatori Maximianu e Diocletianu che rispettivamente quircant su ponente e su levante. E’ interessante l’uso del verbo quircare (o Kircare) che mantiene il valore giuridico come nella Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, nella quale Kircari sas domos –scrive Francesco Alziator nella edizione da lui curata- ha il preciso senso di “investigare, perquisire”.Il suo poemetto, che si rifà al genere eroico della poesia popolare, presenta una costruzione sintattica ancora involuta e “risulta ancora stilisticamente ingenuo –scrive Raffa Garzia– privo di sveltezza e di movimento, anche per colpa della lingua dura spesso e scabra, non pervenuta ancora a quel grado estremo di sviluppo nella morfologia o nella fonetica che è necessario per il genere anzidetto. Parimenti il suo contenuto rivela un’animo popolare, semplice e rude […]. Sempre per Raffa Garzia –in questo d’accordo con Alziator- il poemetto sarebbe il più antico documento in lingua sarda e “quantunque in qualche frase o forma ritmica ci si senta l’eco della poesia religiosa catalana, dei goigs o gosos che hanno resistito al tempo e si cantano anche oggi immutati, il suo carattere riconduce al canto giullaresco della penisola”E’ comunque notevole il tentativo di elevare la lingua sarda a dignità letteraria, forse anche per esigenze di predicazione, come facevano del resto molti ecclesiastici.

 

GIROLAMO ARAOLLA*

Il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI)

Nato nel primo ventennio del secolo XVI, apparteneva a una nobile famiglia sassarese (un Francesco Araolla fu castellano di Torres nel 1531 e un altro Girolamo Araolla fu nel 1554 consigliere di Sassari). La prima data certa che troviamo per il poeta è il 1543-44, anni in cui fu Capo Giurato  (il Sindaco di oggi) di Sassari: carica che ricoprì anche nel 1548-49 e che potevano esercitare solo i cavalieri e i nobili, feudatari esclusi.In seguito la famiglia cadde in disgrazia. Studiò Lettere e Filosofia poi si laureò in Diritto: certamente non in Sardegna, dove le Università non erano ancora state istituite. Quella di Cagliari nascerà infatti nel 1626 e quella di Sassari nel 1634. Probabilmente si adottorò a Pisa o a Bologna, dove ebbe come maestro Gavino Sambigucci. Suo amico fu in particolare lo storico Giovanni  Francesco Fara, vescovo della diocesi di Bosa e storico, considerato anzi dopo Sigismondo Arquer, il più antico storico e geografo isolano. Dopo una certa vita dissoluta abbracciò lo stato ecclesiastico, fu ordinato sacerdote e subito ottenne la nomina a canonico della cattedrale di Bosa il 18 Marzo del 1569 da parte del vescovo Antonio Cavaro (Pintor). Fu anche consultore dell’Inquisizione del regno di Sardegna ma ciò non gli impedì di usare la satira e pungere indisturbato i costumi del tempo. La tranquillità e l’agiatezza della nuova condizione gli permisero di coltivare gli studi poetici e storici. Scrisse pregevoli versi in Lingua sarda, italiana e spagnola.  Nel 1582 pubblicò il suo poema Sa vida, su martiriu, et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu et Gianuari, opera che si riallaccia a quella quattrocentesca di Antonio Cano, riadattando il vasto materiale della leggenda popolare sulla vita dei martiri turritani ad una costruzione narrativa più articolata. La sua morte viene collocata tra il 1595 e il 1615.La sua opera, in ottava rima, sulla vita e il martirio dei santi turritani Proto, Gavino e Gianuario fu pubblicata per la prima volta a Cagliari nel 1582 e poi a Mondovì nel 1615. Il poema fu ben acconto per questi motivi: per l’argomento molto caro ai suoi concittadini e per il carattere religioso dell’opera ma soprattutto per aver usato la lingua sarda ovvero “l’obliato idioma patrio”: l’espressione è dello storico Francesco Sulis.Oltre a questo poema scrisse Rimas diversas spirituales (Rime varie spirituali), in diversi metri, composte da canzoni, capitoli, epistole e sonetti, alcune scritte in lingua italiana e castigliana ma la maggior parte in lingua sarda.Il suo programma è cambiato: non più un orizzonte tutto interno di nobilitazione del sardo e della Sardegna, ma un inserimento di quell’obiettivo nel contesto culturale dell’Italia e della Spagna. Araolla conosce la grande letteratura italiana, anche quella contemporanea; ha studiato, analizzato e riflettuto, riuscendo ed elaborare un programma acuto e moderno; a lui si deve la stesura del bando della nuova letteratura sarda. Pubblicate a Cagliari nel 1597, quelle che l’Araolla chiama figgias mias spirituales in diversos tempos e per varios accidents nasquidas, sono dedicate a Biagio de Alagon, primogenito di Artaldo di Alagon discendente degli Arborea. Invece le tre epistole, in terza rima, sono indirizzate ad Antonio Camos, al conte d’Elda vicerè di Spagna e a un anonimo. Vi sono descritti i vizi dei suoi tempi, la volubilità e l’ingiustizia della fortuna, la dolcezza delle lettere e la tranquillità della vita privata, Comunque l’opera più poetica è la visione dove immagina d’incontrare l’ombra del suo maestro Sambigucci e dei suoi compagni di studi con i quali intrattiene una piacevole conversazione. Presentazione del testo [Sette ottave del poema Sa vida, su Martiriu et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu e Gianuari  tratte da Il meglio della grande poesia in lingua sarda, a cura di Michelangelo Pira, Edizioni Della Torre, Cagliari 1975, pagg.23-24]Il poemetto, che ha per argomento l’epopea dei santi, abbastanza innocua sia politicamente che culturalmente, è un’amplificazione e uno sviluppo di Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto dall’arcivescovo di Sassari Antonio Cano, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato ma pubblicato molto più tardi nel 1557.Sa Vitta del Cano è di 1081 versi, quella dell’Araolla invece è quasi il doppio, 244 stanze per circa 2000 versi. Ambedue raccontano la storia dei martiri di Torres Gavino, Brotu e Gianuario. Quella però di Araolla -scrive Michelangelo Pira- voleva essere più che un’operetta religiosa, un poema eroico, cioè la forma più alta di un’opera poetica così come la concepiva il nostro Cinquecento. I tre martiri infatti, protagonisti del poema ci vengono presentati più che come santi portatori ed espressione della fede cristiana, come eroici paladini di essa, esempi e paradigmi di fortezza e di coraggio: tres gloriosos advocados qui triunfant como in sa celeste corte (tre gloriosi avvocati che adesso trionfano nella corte celeste).Il poema è scritto in sardo-logudorese, lingua e letteratura sarda che egli voleva elevare a dignità letteraria con chiari propositi nazionalisti, mischiandola a questo scopo con voci tratte dall’italiano e dallo spagnolo.Ecco, a questo proposito, quanto scrive, testualmente, nell’introduzione al poema che funge anche da dedica all’arcivescovo di Sassari Don Alonso De Lorca : “Semper appisi desigiu, Illustrussimu segnore, de magnificare e arrichire  sa limba nostra sarda: de sa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones de su mundu hant magnificadu et arrichidu; comente est de vider peri sos curiosos de cuddas. Et si bene d’issas matessi riccas et abundantes fuint algunas, non però hant lassadu de arrichirelas et magnificarelas pius cun vocabulos et epithetos foras d’issa limba non dissonantes de sa insoro, à tale qui usadas et exercitadas in sas scrituras sunt venidas in tanta sublimidade et perfezione arrichida s’una cun s’atera qui in pius finesa non podent pervennere, comente veros testimongios nos dimostrant sos iscrittos de sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos” (Sempre desiderai Illustrissimo Signore, di magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, alla stessa maniera che tutte le nazioni del mondo hanno magnificato e arricchito la loro propria: come si può vedere dagli studiosi di queste. E nonostante alcune di esse fossero già ricche e copiose, non si tralasciò di arricchirle e magnificarle ancora più con vocaboli ed epiteti d’altre lingue ma da quelle non dissonanti: sì che esse adoperate e sveltite nelle scritture, sono ora giunte a tale sublimità e a tale perfezione con l’arricchirsi l’una con l’altra che non è possibile possano conquistare maggiore eleganza e chiara testimonianza ce ne forniscono gli scritti dei più eccellenti e famosi poeti italiani e spagnoli). Con l’opera oltre che magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, vuole recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, offrendo  alla fantasia dei suoi lettori l’immagine edificatrice e commovente della fede e della fortezza di Gavino, Proto e Gianuario, già personaggi leggendari.  

SA FIDE DE GIANUARI

1. Los agatant in logu in hue1 soliant

Viver, sempre in abstrattu contemplende

Sa ineffabile altesa, in hue sentiant

Immensa gloria cun Deus conversende:

Sa pena, su martiriu si queriant

Fuer, los potint mas issos bramende

Stant su puntu, s’hora, et sa giornada

Qui l’esseret per Christu morte dada.

 

2. Los imbarcant cun furia, et cuddos Santos,

Quale angione portadu a sacrificiu,

Cantende istant sos versos et sos cantos

Dessu2 devotu Re divinu officiu;

Non timent pena, morte, non ispantos,

Aspirende a’ cuddu altu benefficiu,

In hue pr’unu mortale suffrimentu

Eterna gloria, eternu est su contentu.

 

3. Brothu, su perfectissimu Oradore,

Et valente Theologu, vidende

Gianuari santu esser d’annos minore,

Et d’isse algunu tantu dubitende,

Qui pro carissia o pro qualqui terrore

Su Barbaru l’andaret isvoltende,

Lu exortat in sa barca, et dat consiggiu3

Sendeli babu, et mastru, et isse figgiu.

 

4. «Como ti s’hat a parrer, figgiu meu,

Si has Como esser constante, firmu et forte

A cuddu veru Trinu, et unu Deu,

Et sufferrer con gaudiu et pena, et morte:

Non ti spantet su visu horrendu, et feu

De custu Barbariscu, pro qui a sorte

Dizzosa, l’has a tenner a soffrire

Per Christu ogni trabagliu, ogni martire.

 

5.«Non piaguere, o riquesa transitoria

Qui solet ingannare assos ignaros,

Qui tenent cuddos pro contentu et gloria

Quales sunt sos carnales et avaros,

T’ingannet, no; ma sigui, qui vitoria

Ti s’aparizzat dessos donos raros;

Qui mai nexuno s’ind’est coronadu,

Si con affannos non l’hat conquistadu.

 

6. «S’istare in campo, et ponersi in bataglia,

Et posca assu prim’impeto fuire,

Pro qui non si li rompat carre o maglia,

Non podet sa vitoria conseguire:

Mas cuddu qui s’est fatu una muraglia,

Et non curat de colpos nen martire,

Cussu est veru Soldadu, et deffensore

Gelosu dessa Fide, et de s’honore»

 

7. Et cuddu qu’in su coro, intro sa mente

(Ancu qui fuit in juvenile etade)

Teniat depintu a s’altu Onnipotente,

De gracias fonte, et mare de bontade;

Pius firmu, pius constante, et permanente,

Qui non sa rocca a ventu, a tempestade,

In sa Fide istahiat senza suspettu,

Sende in terra nasquidu, in quelu elettu.

Traduzione:

LA FEDE DI GIANUARIO

1.Li trovano nel luogo dove erano soliti vivere, sempre a  contemplare in estasi l’ineffabile altitudine dove, conversando con Dio, sentivano l’immensa gloria: se avessero voluto sfuggire alla pena, al martirio, avrebbero potuto ma bramandolo sanno il punto, l’ora e la giornata in cui, per Cristo, sarebbe loro data la morte.

2. Li imbarcano con furia e quei santi, come agnelli portati al sacrificio, cantano i versi e i canti, divino ufficio del devoto Re. Non temono né pene né  morte, né paure ma aspirano a quell’alto beneficio dove in cambio della mortale sofferenza c’è l’eterna gloria e l’eterna felicità.

3. Proto, il perfettissimo oratore e valente teologo, vedendo Gianuario giovane d’anni e dubitando un po’ di lui che il Barbaro potesse, per difetto o per qualche paura, convincerlo, nella barca lo esorta e lo consiglia, essendogli babbo e maestro e lui invece figlio.

4.Ora si vedrà figlio mio se saprai essere costante fermo e forte in quel vero Dio, uno e trino, e saprai soffrire con gaudio pena e morte: non ti spaventi il viso orrendo e brutto di questo Barbaro, perché per una sorte fortunata soffrirai in nome di Cristo ogni tormento e ogni martirio.

5.Non piaceri o ricchezze futili, che sogliono ingannare gli ignari, che li reputano gioia e gloria, come sono carnali ed avari, non t’inganni, no; ma pensa che ti si prepari una vittoria di doni rari, di cui mai nessuno s’è incoronato se non li ha conquistati con sofferenze

6.Stare in campo ed entrare in battaglia e poi fuggire al primo assalto, perché non gli si rompa carne o maglia non può conseguire la vittoria: ma chi s’è costruito una muraglia e non gli importano i colpi né le ferite, quello è un vero Soldato e difensore geloso della Fede e dell’onore.

7.E quello che nel cuore, dentro la mente, (sebbene fosse in giovanile età) aveva dipinto l’alto Onnipotente, fonte di grazia e mare di bontà; più fermo, più costante e stabile di una roccia al vento e alla tempesta, abbarbicato alla fede, senza paura, lui nato in terra ma eletto al Cielo.

Giudizio critico

Scrive Raffa Garzia: “Se nel poema per l’indole narrativa e oggettiva il poeta non può indugiarsi a colorire le linee e a dar loro maggior risalto con accorgimenti di luci e d’ombre” […] nelle Rimas “la natura poetica dell’Araolla, scaturita e alimentata dall’inesausta vena popolare, s’è raffinata ed è sagace e accorta nello studio dell’arte: la spontanea tendenza s’è educata sulle pagine e sugli esempj dei maestri: da questi egli ha imparato la malizia di ricercare e di disporre gli effetti. Sì che le idee per se stesse non nuove, da questi traggono efficacia. Non è nuovo il paragone della vita umana con un viaggio: e neanche l’altro delle ombre della sera con quelle della vecchiaia, ma il poeta li colloca bene, a pari distanza, con piena rispondenza fra gli elementi fantastici e quelli reali”[…].[Raffa Garzia, Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna 1914, pagg.209-210] 

ANALIZZARE

L’Araolla lamentava che gli scrittori sardi del suo tempo andassero alla ricerca di altre lingue “forestiere” come l’italiano e lo spagnolo, per scrivere le loro opere, senza provare almeno a usare la lingua sarda che era invece a parere del poeta bella, ricca e armoniosa, capace quant’altre mai di progressivo “pulimento”. Con questo poema si proponeva di procedere a questo “pulimento”, purificazione e raffinamento. Per intanto ricorre alle ottave di tipo classico con le rime alternate (ABABAB) nei primi sei versi e la rima baciata nel distico finale (CC): a guisa dell’Ariosto e del Tasso, tanto per intenderci: poeta quest’ultimo che probabilmente conobbe in uno dei suoi viaggi in Italia. In secondo luogo, per quanto attiene al lessico conia nuovi vocaboli, altri li mutua dal latino, dall’italiano o dallo spagnolo. E anche quando utilizza il logudorese, spesso lo latinizza o lo italianizza.Per quanto attiene al contenuto, pur rifacendosi alla trama e all’ordito del poema del Cano, lo sviluppa introducendo una serie di similitudini, di digressioni –spesso ispirate alla mitologia- che rischiano però di diventare verbose e inutili.Nelle ottave riportate, è certamente presente la dimensione religiosa dei santi Gianuario e Proto, sempre contemplende sa ineffabile altesa, in hue sentiant immensa gloria cun Deus conversende (sempre a contemplare in estasi l’ineffabile altitudine, dove, conversando con Dio sentivano immensa la sua gloria); ma ancor più risalta il loro eroismo: non timent pena, morte, non ispantos (non temono pena, morte né paure). A significare che pur rimanendo un poema religioso, assume fortemente anche una dimensione epica, sulla scia della cultura rinascimentale di Ariosto e Tasso.

*Tratti da Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula (1° volume, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011)

Sardu Pater di Vincenzo Mereu (Alfa editrice)

L’associazione culturale ITAMICONTAS organizza per giovedì 3 aprile (ore 17, Biblioteca circoscrizionale di Flumini di Quartu) la presentazione di Sardus Pater, una favola sulla civiltà nuragica scritta da Vincenzo Mereu e pubblicata dall’Alfa editrice. A commentarla e illustrarla sarà Francesco Casula che ha scritto la prefazione. Eccola.

 

Prefazione a SARDUS PATER di Francesco Casula

De te fabula narratur, Sardinia: si parla di te, Sardegna, in questa bella e suggestiva favola Sardus Pater, di Vincenzo Mereu. Della tua storia, della tua civiltà: quella preistorica: prenuragica e nuragica. Una favola bella che ci riporta al mondo delle origini, a uno splendido passato di bellezza: che ci lascia un’impressione di letizia, come se avessimo attraversato un paese amabile e felice. Il periodo prenuragico e nuragico “al tempo del Sardus Pater”, è infatti visto descritto cantato  celebrato rappresentato e  dipinto come  l’età dell’oro, arcano e felice,  solcato com’è da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto, con “Le meraviglie della Terra e della Natura”, soprattutto a confronto con il buio del presente, in cui “l’uomo moderno ha devastato la Natura e la Terra” . E’ il periodo in cui “i cavernicoli, così chiamati perché per millenni abitavano nelle caverne, stanchi di mangiare sempre l’erba dei campi e carne degli animali che cacciavano” pregano Giove perché mandi loro “cibo più saporito”. Giove li ascoltò, scese la dea Cerere per portare “un chicco di grano”. Che sepolto darà vita a tante spighe. E poi alla mietitura (sa messadura), alla trebbiatura (sa trebadura) nell’aia (s’arzola): in cui il grano veniva predisposto per il calpestio da parte del bue o del cavallo “aspettando che arrivasse il vento per separare la paglia dai chicchi”. E infine alla farina, inizialmente “schiacciando i chicchi di grano con grosse pietre”, in seguito con “la mola fatta girare da un asinello, aiutato anche da un cavernicolo con un lungo bastone”.Farina che impastata e cotta sopra grosse pietre infuocate, “sarebbe diventata il cibo che avrebbe sfamato tutta l’umanità per secoli e millenni e per sempre”. Ma la metamorfosi dei cavernicoli avviene con la discesa di Sardus Pater in “una notte illuminata a festa da una splendida Luna ’argento”.Fonderò – proclamerà il Sardus Pater una nuova civiltà e voi non abiterete più nelle caverne, ma io vi insegnerò come costruire grandi case, come non ce ne sono in tutto il mondo, che dureranno per millenni. Fonderemo la società umana in cui ciascuno vivrà felice nella fratellanza e nell’amore”.E così – aggiungo io – nascerà la civiltà della sovranità comunitaria, che non costruisce città ma villaggi, perché la città è ostile alla terra, agli alberi, agli animali.E si affermerà la civiltà della gestione comunitaria delle risorse, della democrazia, dell’egalitarismo, dei rapporti amichevoli con gli altri popoli del Mediterraneo. La civiltà che rispetta l’ambiente, la natura, gli equilibri dell’ecosistema, della terra perché essa non ci appartiene e siamo noi che le apparteniamo, siamo solo i suoi figli e non i suoi padroni. La civiltà che identifica la Comunità e la Nazione sarda con i suoi nuraghi: Migliaia di nuraghi: 8.000 secondo le fonti ufficiali dell’Istituto geografico militare, che però li censisce secondo modalità militari e non archeologiche; 20.000 secondo Sergio Salvi e 25–30.000 secondo altre fonti non ufficiali. Costruzioni megalitiche tronco-coniche dalle volte ogivali con scale elicoidali; pozzi sacri, betili mammellari, terrazze pensili, androni ad arco acuto. Migliaia di nuraghi che sono monumenti alla libertà, all’egualitarismo, all’autonomia, all’indipendenza delle singole comunità.E con i Nuraghi innumerevoli dolmens e menhir, migliaia di statuette e di navicelle di bronzo, monili e gioielli, d’oro e d’argento. E innumerevoli vasi. Con un’economia dell’abbondanza: di carne, pesce, frutti naturali. Un’economia che produce oro, argento, rame, formaggi, sale, stoffe, vini. O, come almanacca Vincenzo Mereu in Sardus Pater,frutta, formaggi, caraffe di vino e ogni cosa prelibata”. Ma anche la musica delle launeddas:”per rendere più gioiose le danze e le feste popolari nei secoli avvenire”. Al cui suono, la comunità del villaggio, tott’umpare si pesat a ballare.“Ma – conclude Mereu – purtroppo dopo secoli e millenni, la civiltà nuragica scompare, messa in fuga dalla civiltà moderna che ha portato con sé comodità e ricchezza….ma anche l’inquinamento e il disastro ecologico, guerre con milioni di vittime innocenti e immani sciagure”.La (in)civiltà dell’Ordigno contrapposta alla civiltà dell’Organismo (per utilizzare una potente metafora dell’intellettuale sardo Eliseo Spiga) comunque non prevarrà: “Sardus Patrer torna sulla Terra e incatena i guerrafondai e distrugge tutti gli strumenti e le armi che sono servite per le sciagure umane. La pace ritorna e l’Umanità esulta per l’opera dei dio che restituisce la gioia a tutti gli uomini”E’ il messaggio finale della favola Sardus Pater di Vincenzo Mereu.Tutte fantasie? Si tratta solo di lacerti lirici e onirici? Di struggente nostalgia per un antico splendore? Di una favola – sia pure bella – che Mereu sogna, invoca, almanacca, come una necessità fantastica e biologica, ma pur sempre una favola? L’invocazione di un mondo salvo e salvifico, di una tana, di un’arca di Noè per salvarci dalla disumanizzazione di una realtà dominata dall’Ordigno? Certo, può darsi.. E comunque se di favola si tratta, è una favola che parla di noi, di noi sardi e di noi uomini e donne del 2013. Dei nostri problemi e delle nostre ossessioni ma anche delle nostre aspirazioni e delle nostre speranze.