Antonio Canu e Girolamo Araolla i primi scrittori di poemi in lingua sarda di Francesco Casula

ANTONIO CANU*

Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)

Antonio Cano (o Canu) nasce a Sassari, sul finire del Trecento e muore verso il 1470: ma non conosciamo la data esatta né della nascita né della morte. Sappiamo però che dopo essere stato rettore nella villa di Giave, fu eletto abate nella prestigiosa abbazia di Saccargia dell’Ordine Camaldolese e che, essendo figlio del barone di Osilo, nel 1420 pare sia stato nominato oratore di corte da Alfonso V il Magnanimo.Nominato inoltre dal Papa Eugenio IV, dal Luglio del 1436 al 1448 fu vescovo della Diocesi di Bisarcio (oggi scomparsa) e dal 1448 al 1480  dell’Archidiocesi di Sassari (un tempo di Torres).Il 12 Marzo 1437 in qualità di vescovo indisse un sinodo nella Chiesa di Santa Maria di Ozieri: i cui Atti però sono andati perduti. Nel 1444, essendo deceduto l’abate Giovanni, della SS Trinità di Saccargia, chiese ed ottenne dal Papa l’amministrazione spirituale e temporale del monastero.La sua fama è legata soprattutto al poemetto in rima, Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto in Lingua sarda- logudorese, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato.  Fu però pubblicato molto più tardi, nel 1557: l’esemplare, conservato nella Biblioteca dell’Università di Cagliari e proveniente dal lascito Baylle, è l’unico che si conosca del poema. L’edizione reca, segnata a penna da mano più recente, l’attribuzione all’arcivescovo di Torres Antonio Cano: «Auctore Antonio Cano Archiepiscopo Turritano realisti». Confermerebbe tale attribuzione Giovanni Francesco Fara (1553-1591, arciprete del capitolo turritano, vescovo di Bosa e padre della storiografia sarda con le opere Chorographia Sardiniae e De rebus Sardois. Certo è che il successo del poema dovette essere notevole se ancora dopo circa un secolo si sentì la necessità di pubblicarlo a stampa, in un periodo nel quale nella Sardegna del Cinquecento, la stampa di un libro –naturalmente se è sarda- doveva costituire un avvenimento abbastanza eccezionale. Per la notevole importanza filologica del testo, fu ristampato dalla Ditta G. Dessì di Cagliari nel 1912, in edizione critica del grande linguista tedesco Max Leopold Wagner.Il poemetto, di argomento agiografico, è considerato la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi conosciuta. Scrive a questo proposito Dino Manca, che nel 2002 ne ha curato una edizione critica per la CUEC editore di Cagliari: “Si tratterebbe del più antico testo fino a oggi ritrovato, con chiare e intenzionali finalità estetiche. Prima di quest’opera la lingua sarda non aderisce a una realtà letteraria autosufficiente, ma si tratta piuttosto di una produzione modellatasi sino all’età moderna prevalentemente attraverso una codificazione riferita vuoi al registro cancelleresco, vuoi a tipologie testuali di taglio legislativo (più generalmente regolativo) documentario e cronistico. L’esistenza di nuclei di «narratività», «diacronicità», drammatizzazione scenica e dialogica, dentro questi tessuti linguistici costruiti con finalità eteronome rispetto a quelle estetiche, non ci consentono di parlare di opere letterarie prima di questo poemetto”.Il poemetto sarà la fonte principale dell’opera di Girolamo Araolla, il poeta trilingue e  “il ripulitore della lingua sarda”: Sa vida, su martiriu et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuari. 

Presentazione del testo ( i 12 versi che costituiscono la Protasi e i 25 versi iniziali del poemetto sono tratti dall’opera Sa vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavinu Prothu et Januariu di Antonio Cano a cura di Francesco Alziator, Cagliari Editrice sarda F.lli Fossataro, 1976, pagg.44-45) .

Il poema composto di 1081 versi, è preceduto da una breve proposizione o protasi, di dodici versi, con l’invocazione a Dio perché conceda all’Autore di portare a termine la narrazione del santo martirio dei cavalieri di Cristo, Gavino, Proto e Gianuario.Per Francesco Alziator –che ne curerà un’edizione nel 1976- l’opera sarebbe, allo stato attuale degli studi, la più antica opera conosciuta, con valenza esclusivamente letteraria, in lingua sarda. Sempre a parere dell’Alziator, in sintonia con il Wagner per quanto attiene allo stile del poemetto “assai popolare”, il Cano sarebbe partito da un preesistente nucleo popolare –la leggenda agiografica di Gavino, Proto e Gianuario, decapitati a Turris Libisonis (Porto Torres) per ordine di Diocleziano e di Barbaro, praeses provinciae (presidente della provincia)- che avrebbe ingrandito, ripulito e interpolato, innestando nell’antico tronco più popolare, l’elemento dotto.

Protasi

O Deu eternu, sempre omnipotente,

In s’aiudu meu ti piachat attender

Et1 dami gratia de poder acabare

Su sanctu2 martiriu in rima vulgare3

De sos sanctos martires tantu gloriosos

Et cavaleris de Cristus victoriosos

Sanctu Gavinu Prothu e Januariu

Contra su demoniu nostru adversariu

Fortes defensores et bonos advocaos,

Qui in su paradisu sunt glorif icados

De sa corona de sanctu martiriu,

Cussos sempre siant in nostru adiutoriu.

Amen

 Traduzione

(O Dio eterno, sempre onnipotente, ti piaccia intervenire in mio aiuto e donarmi la grazia per poter finire in rima volgare, il santo martirio dei santi Martiri tanto gloriosi e cavalieri di Cristo vittoriosi, San Gavino, Proto e Gianuario.Contro il demonio nostro nemico, forti difensori e buoni avvocati, che sono glorificati in paradiso con la corona del santo martirio, intervengano sempre in nostro aiuto. Così sia)

Giudizi critici

Max Leopold Wagner, che ne curerà un’edizione, dà un giudizio molto severo sull’opera ma insieme spiega l’importanza di essa, scrivendo che : ”Il pregio poetico del lavoretto è certo assai scarso; sono per lo più versi ronchiosi e dinoccolati con molte rime insufficienti e il racconto è improntato a un’ingenuità che rasenta talvolta la goffaggine. Se ad onta di ciò abbiamo creduto utile pubblicare il poemetto del Cano, si è perché porge per vari rispetti un certo interesse. Trattandosi di uno dei primi libri di stampa sarda ed essendo una grande rarità bibliografica”.[Max Leopold Wagner, Il martirio dei SS. Gavino, Proto e Januario, di Antonio Cano, Ed. G. Dessì, Cagliari 1912, pag. 4]

Mentre Giovanni Spano definì il poemetto “una leggenda sacro-istorica di rima bissenaria accoppiata con misto di versi decasillabi, endecasillabi, martelliani, bisottonari, diciotto sillabe, di un misto di versi di 12 e 6 sillabe, talvolta con rimalmezzo”.[Giovanni Spano, Ortografia sarda nazionale, Cagliari 1840, vol.2, pag.102, nota]. 

ANALIZZARE

 Dopo la protasi, con l’invocazione a Dio, che risulta semplice e modesta, quasi dimessa, si apre il poema con l’editto anticristiano di Diocleziano e Massimiano.Particolarmente interessante è la definizione di “rima vulgare”che il Cano dà alla lingua del poema, ovvero alla lingua sarda, definizione che sembrerebbe denunciare una cultura e una conoscenza di problemi che appartenevano allora più all’ambiente italiano che non a quello ispanico nel quale cominciava già a gravitare la Sardegna del XV secolo. L’andamento di questa protasi, che in qualche modo può far pensare, anche se assai di lontano, a modelli italiani del Cinquecento, secondo qualche critico potrebbe essere stata aggiunta al momento della stampa nel 1557 dall’Editore, per uniformare l’opera del Cano alla moda dell’epica più corrente nel ‘500.  L’arcivescovo Cano è colto in storia e dunque non si lascia sfuggire l’occasione per dimostrarlo, specificando la data (nel 290) e la durata (vent’anni) delle persecuzioni volute dai due imperatori Maximianu e Diocletianu che rispettivamente quircant su ponente e su levante. E’ interessante l’uso del verbo quircare (o Kircare) che mantiene il valore giuridico come nella Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, nella quale Kircari sas domos –scrive Francesco Alziator nella edizione da lui curata- ha il preciso senso di “investigare, perquisire”.Il suo poemetto, che si rifà al genere eroico della poesia popolare, presenta una costruzione sintattica ancora involuta e “risulta ancora stilisticamente ingenuo –scrive Raffa Garzia– privo di sveltezza e di movimento, anche per colpa della lingua dura spesso e scabra, non pervenuta ancora a quel grado estremo di sviluppo nella morfologia o nella fonetica che è necessario per il genere anzidetto. Parimenti il suo contenuto rivela un’animo popolare, semplice e rude […]. Sempre per Raffa Garzia –in questo d’accordo con Alziator- il poemetto sarebbe il più antico documento in lingua sarda e “quantunque in qualche frase o forma ritmica ci si senta l’eco della poesia religiosa catalana, dei goigs o gosos che hanno resistito al tempo e si cantano anche oggi immutati, il suo carattere riconduce al canto giullaresco della penisola”E’ comunque notevole il tentativo di elevare la lingua sarda a dignità letteraria, forse anche per esigenze di predicazione, come facevano del resto molti ecclesiastici.

 

GIROLAMO ARAOLLA*

Il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI)

Nato nel primo ventennio del secolo XVI, apparteneva a una nobile famiglia sassarese (un Francesco Araolla fu castellano di Torres nel 1531 e un altro Girolamo Araolla fu nel 1554 consigliere di Sassari). La prima data certa che troviamo per il poeta è il 1543-44, anni in cui fu Capo Giurato  (il Sindaco di oggi) di Sassari: carica che ricoprì anche nel 1548-49 e che potevano esercitare solo i cavalieri e i nobili, feudatari esclusi.In seguito la famiglia cadde in disgrazia. Studiò Lettere e Filosofia poi si laureò in Diritto: certamente non in Sardegna, dove le Università non erano ancora state istituite. Quella di Cagliari nascerà infatti nel 1626 e quella di Sassari nel 1634. Probabilmente si adottorò a Pisa o a Bologna, dove ebbe come maestro Gavino Sambigucci. Suo amico fu in particolare lo storico Giovanni  Francesco Fara, vescovo della diocesi di Bosa e storico, considerato anzi dopo Sigismondo Arquer, il più antico storico e geografo isolano. Dopo una certa vita dissoluta abbracciò lo stato ecclesiastico, fu ordinato sacerdote e subito ottenne la nomina a canonico della cattedrale di Bosa il 18 Marzo del 1569 da parte del vescovo Antonio Cavaro (Pintor). Fu anche consultore dell’Inquisizione del regno di Sardegna ma ciò non gli impedì di usare la satira e pungere indisturbato i costumi del tempo. La tranquillità e l’agiatezza della nuova condizione gli permisero di coltivare gli studi poetici e storici. Scrisse pregevoli versi in Lingua sarda, italiana e spagnola.  Nel 1582 pubblicò il suo poema Sa vida, su martiriu, et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu et Gianuari, opera che si riallaccia a quella quattrocentesca di Antonio Cano, riadattando il vasto materiale della leggenda popolare sulla vita dei martiri turritani ad una costruzione narrativa più articolata. La sua morte viene collocata tra il 1595 e il 1615.La sua opera, in ottava rima, sulla vita e il martirio dei santi turritani Proto, Gavino e Gianuario fu pubblicata per la prima volta a Cagliari nel 1582 e poi a Mondovì nel 1615. Il poema fu ben acconto per questi motivi: per l’argomento molto caro ai suoi concittadini e per il carattere religioso dell’opera ma soprattutto per aver usato la lingua sarda ovvero “l’obliato idioma patrio”: l’espressione è dello storico Francesco Sulis.Oltre a questo poema scrisse Rimas diversas spirituales (Rime varie spirituali), in diversi metri, composte da canzoni, capitoli, epistole e sonetti, alcune scritte in lingua italiana e castigliana ma la maggior parte in lingua sarda.Il suo programma è cambiato: non più un orizzonte tutto interno di nobilitazione del sardo e della Sardegna, ma un inserimento di quell’obiettivo nel contesto culturale dell’Italia e della Spagna. Araolla conosce la grande letteratura italiana, anche quella contemporanea; ha studiato, analizzato e riflettuto, riuscendo ed elaborare un programma acuto e moderno; a lui si deve la stesura del bando della nuova letteratura sarda. Pubblicate a Cagliari nel 1597, quelle che l’Araolla chiama figgias mias spirituales in diversos tempos e per varios accidents nasquidas, sono dedicate a Biagio de Alagon, primogenito di Artaldo di Alagon discendente degli Arborea. Invece le tre epistole, in terza rima, sono indirizzate ad Antonio Camos, al conte d’Elda vicerè di Spagna e a un anonimo. Vi sono descritti i vizi dei suoi tempi, la volubilità e l’ingiustizia della fortuna, la dolcezza delle lettere e la tranquillità della vita privata, Comunque l’opera più poetica è la visione dove immagina d’incontrare l’ombra del suo maestro Sambigucci e dei suoi compagni di studi con i quali intrattiene una piacevole conversazione. Presentazione del testo [Sette ottave del poema Sa vida, su Martiriu et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu e Gianuari  tratte da Il meglio della grande poesia in lingua sarda, a cura di Michelangelo Pira, Edizioni Della Torre, Cagliari 1975, pagg.23-24]Il poemetto, che ha per argomento l’epopea dei santi, abbastanza innocua sia politicamente che culturalmente, è un’amplificazione e uno sviluppo di Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto dall’arcivescovo di Sassari Antonio Cano, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato ma pubblicato molto più tardi nel 1557.Sa Vitta del Cano è di 1081 versi, quella dell’Araolla invece è quasi il doppio, 244 stanze per circa 2000 versi. Ambedue raccontano la storia dei martiri di Torres Gavino, Brotu e Gianuario. Quella però di Araolla -scrive Michelangelo Pira- voleva essere più che un’operetta religiosa, un poema eroico, cioè la forma più alta di un’opera poetica così come la concepiva il nostro Cinquecento. I tre martiri infatti, protagonisti del poema ci vengono presentati più che come santi portatori ed espressione della fede cristiana, come eroici paladini di essa, esempi e paradigmi di fortezza e di coraggio: tres gloriosos advocados qui triunfant como in sa celeste corte (tre gloriosi avvocati che adesso trionfano nella corte celeste).Il poema è scritto in sardo-logudorese, lingua e letteratura sarda che egli voleva elevare a dignità letteraria con chiari propositi nazionalisti, mischiandola a questo scopo con voci tratte dall’italiano e dallo spagnolo.Ecco, a questo proposito, quanto scrive, testualmente, nell’introduzione al poema che funge anche da dedica all’arcivescovo di Sassari Don Alonso De Lorca : “Semper appisi desigiu, Illustrussimu segnore, de magnificare e arrichire  sa limba nostra sarda: de sa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones de su mundu hant magnificadu et arrichidu; comente est de vider peri sos curiosos de cuddas. Et si bene d’issas matessi riccas et abundantes fuint algunas, non però hant lassadu de arrichirelas et magnificarelas pius cun vocabulos et epithetos foras d’issa limba non dissonantes de sa insoro, à tale qui usadas et exercitadas in sas scrituras sunt venidas in tanta sublimidade et perfezione arrichida s’una cun s’atera qui in pius finesa non podent pervennere, comente veros testimongios nos dimostrant sos iscrittos de sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos” (Sempre desiderai Illustrissimo Signore, di magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, alla stessa maniera che tutte le nazioni del mondo hanno magnificato e arricchito la loro propria: come si può vedere dagli studiosi di queste. E nonostante alcune di esse fossero già ricche e copiose, non si tralasciò di arricchirle e magnificarle ancora più con vocaboli ed epiteti d’altre lingue ma da quelle non dissonanti: sì che esse adoperate e sveltite nelle scritture, sono ora giunte a tale sublimità e a tale perfezione con l’arricchirsi l’una con l’altra che non è possibile possano conquistare maggiore eleganza e chiara testimonianza ce ne forniscono gli scritti dei più eccellenti e famosi poeti italiani e spagnoli). Con l’opera oltre che magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, vuole recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, offrendo  alla fantasia dei suoi lettori l’immagine edificatrice e commovente della fede e della fortezza di Gavino, Proto e Gianuario, già personaggi leggendari.  

SA FIDE DE GIANUARI

1. Los agatant in logu in hue1 soliant

Viver, sempre in abstrattu contemplende

Sa ineffabile altesa, in hue sentiant

Immensa gloria cun Deus conversende:

Sa pena, su martiriu si queriant

Fuer, los potint mas issos bramende

Stant su puntu, s’hora, et sa giornada

Qui l’esseret per Christu morte dada.

 

2. Los imbarcant cun furia, et cuddos Santos,

Quale angione portadu a sacrificiu,

Cantende istant sos versos et sos cantos

Dessu2 devotu Re divinu officiu;

Non timent pena, morte, non ispantos,

Aspirende a’ cuddu altu benefficiu,

In hue pr’unu mortale suffrimentu

Eterna gloria, eternu est su contentu.

 

3. Brothu, su perfectissimu Oradore,

Et valente Theologu, vidende

Gianuari santu esser d’annos minore,

Et d’isse algunu tantu dubitende,

Qui pro carissia o pro qualqui terrore

Su Barbaru l’andaret isvoltende,

Lu exortat in sa barca, et dat consiggiu3

Sendeli babu, et mastru, et isse figgiu.

 

4. «Como ti s’hat a parrer, figgiu meu,

Si has Como esser constante, firmu et forte

A cuddu veru Trinu, et unu Deu,

Et sufferrer con gaudiu et pena, et morte:

Non ti spantet su visu horrendu, et feu

De custu Barbariscu, pro qui a sorte

Dizzosa, l’has a tenner a soffrire

Per Christu ogni trabagliu, ogni martire.

 

5.«Non piaguere, o riquesa transitoria

Qui solet ingannare assos ignaros,

Qui tenent cuddos pro contentu et gloria

Quales sunt sos carnales et avaros,

T’ingannet, no; ma sigui, qui vitoria

Ti s’aparizzat dessos donos raros;

Qui mai nexuno s’ind’est coronadu,

Si con affannos non l’hat conquistadu.

 

6. «S’istare in campo, et ponersi in bataglia,

Et posca assu prim’impeto fuire,

Pro qui non si li rompat carre o maglia,

Non podet sa vitoria conseguire:

Mas cuddu qui s’est fatu una muraglia,

Et non curat de colpos nen martire,

Cussu est veru Soldadu, et deffensore

Gelosu dessa Fide, et de s’honore»

 

7. Et cuddu qu’in su coro, intro sa mente

(Ancu qui fuit in juvenile etade)

Teniat depintu a s’altu Onnipotente,

De gracias fonte, et mare de bontade;

Pius firmu, pius constante, et permanente,

Qui non sa rocca a ventu, a tempestade,

In sa Fide istahiat senza suspettu,

Sende in terra nasquidu, in quelu elettu.

Traduzione:

LA FEDE DI GIANUARIO

1.Li trovano nel luogo dove erano soliti vivere, sempre a  contemplare in estasi l’ineffabile altitudine dove, conversando con Dio, sentivano l’immensa gloria: se avessero voluto sfuggire alla pena, al martirio, avrebbero potuto ma bramandolo sanno il punto, l’ora e la giornata in cui, per Cristo, sarebbe loro data la morte.

2. Li imbarcano con furia e quei santi, come agnelli portati al sacrificio, cantano i versi e i canti, divino ufficio del devoto Re. Non temono né pene né  morte, né paure ma aspirano a quell’alto beneficio dove in cambio della mortale sofferenza c’è l’eterna gloria e l’eterna felicità.

3. Proto, il perfettissimo oratore e valente teologo, vedendo Gianuario giovane d’anni e dubitando un po’ di lui che il Barbaro potesse, per difetto o per qualche paura, convincerlo, nella barca lo esorta e lo consiglia, essendogli babbo e maestro e lui invece figlio.

4.Ora si vedrà figlio mio se saprai essere costante fermo e forte in quel vero Dio, uno e trino, e saprai soffrire con gaudio pena e morte: non ti spaventi il viso orrendo e brutto di questo Barbaro, perché per una sorte fortunata soffrirai in nome di Cristo ogni tormento e ogni martirio.

5.Non piaceri o ricchezze futili, che sogliono ingannare gli ignari, che li reputano gioia e gloria, come sono carnali ed avari, non t’inganni, no; ma pensa che ti si prepari una vittoria di doni rari, di cui mai nessuno s’è incoronato se non li ha conquistati con sofferenze

6.Stare in campo ed entrare in battaglia e poi fuggire al primo assalto, perché non gli si rompa carne o maglia non può conseguire la vittoria: ma chi s’è costruito una muraglia e non gli importano i colpi né le ferite, quello è un vero Soldato e difensore geloso della Fede e dell’onore.

7.E quello che nel cuore, dentro la mente, (sebbene fosse in giovanile età) aveva dipinto l’alto Onnipotente, fonte di grazia e mare di bontà; più fermo, più costante e stabile di una roccia al vento e alla tempesta, abbarbicato alla fede, senza paura, lui nato in terra ma eletto al Cielo.

Giudizio critico

Scrive Raffa Garzia: “Se nel poema per l’indole narrativa e oggettiva il poeta non può indugiarsi a colorire le linee e a dar loro maggior risalto con accorgimenti di luci e d’ombre” […] nelle Rimas “la natura poetica dell’Araolla, scaturita e alimentata dall’inesausta vena popolare, s’è raffinata ed è sagace e accorta nello studio dell’arte: la spontanea tendenza s’è educata sulle pagine e sugli esempj dei maestri: da questi egli ha imparato la malizia di ricercare e di disporre gli effetti. Sì che le idee per se stesse non nuove, da questi traggono efficacia. Non è nuovo il paragone della vita umana con un viaggio: e neanche l’altro delle ombre della sera con quelle della vecchiaia, ma il poeta li colloca bene, a pari distanza, con piena rispondenza fra gli elementi fantastici e quelli reali”[…].[Raffa Garzia, Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna 1914, pagg.209-210] 

ANALIZZARE

L’Araolla lamentava che gli scrittori sardi del suo tempo andassero alla ricerca di altre lingue “forestiere” come l’italiano e lo spagnolo, per scrivere le loro opere, senza provare almeno a usare la lingua sarda che era invece a parere del poeta bella, ricca e armoniosa, capace quant’altre mai di progressivo “pulimento”. Con questo poema si proponeva di procedere a questo “pulimento”, purificazione e raffinamento. Per intanto ricorre alle ottave di tipo classico con le rime alternate (ABABAB) nei primi sei versi e la rima baciata nel distico finale (CC): a guisa dell’Ariosto e del Tasso, tanto per intenderci: poeta quest’ultimo che probabilmente conobbe in uno dei suoi viaggi in Italia. In secondo luogo, per quanto attiene al lessico conia nuovi vocaboli, altri li mutua dal latino, dall’italiano o dallo spagnolo. E anche quando utilizza il logudorese, spesso lo latinizza o lo italianizza.Per quanto attiene al contenuto, pur rifacendosi alla trama e all’ordito del poema del Cano, lo sviluppa introducendo una serie di similitudini, di digressioni –spesso ispirate alla mitologia- che rischiano però di diventare verbose e inutili.Nelle ottave riportate, è certamente presente la dimensione religiosa dei santi Gianuario e Proto, sempre contemplende sa ineffabile altesa, in hue sentiant immensa gloria cun Deus conversende (sempre a contemplare in estasi l’ineffabile altitudine, dove, conversando con Dio sentivano immensa la sua gloria); ma ancor più risalta il loro eroismo: non timent pena, morte, non ispantos (non temono pena, morte né paure). A significare che pur rimanendo un poema religioso, assume fortemente anche una dimensione epica, sulla scia della cultura rinascimentale di Ariosto e Tasso.

*Tratti da Letteratura e civiltà della Sardegna di Francesco Casula (1° volume, Edizioni Grafica del Parteolla, Dolianova, 2011)

Antonio Canu e Girolamo Araolla i primi scrittori di poemi in lingua sarda di Francesco Casulaultima modifica: 2014-04-06T10:16:35+02:00da zicu1
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