Fra distruzione delle foreste sarde, cementificazione e alluvioni

CONFERENZA SULLA DISTRUZIONE DELLE FORESTE IN SARDEGNA E DINTORNI (CON ALLUVIONI)

Flumini 28-11-2013  Organizza l’Associazione culturale Ita mi contas

di Francesco Casula

1. Riscaldamento del Pianeta

I cambiamenti recenti del clima sono stati analizzati più in dettaglio solo a partire dagli ultimi 50 anni, cioè da quando le attività umane sono cresciute esponenzialmente ed è diventata possibile l’osservazione della troposfera. Tutti i principali fattori ai quali è attribuito il cambiamento climatico sono legati alle attività dell’uomo. In particolare questi sono:[

*incremento della concentrazione di gas serra in atmosfera

*cambiamenti sulla superficie terrestre come la deforestazione

*incremento di aerosol

I principali gas serra sono: il vapore acqueo, responsabile dell’effetto serra in una percentuale variabile tra il 36–70%; l’anidride carbonica (CO2), che incide per il 9-26%; il metano (CH4), che incide per il 4-9%; l’ozono (O3), che incide tra il 3-7%.

 

2. Alluvioni. Tesi dei geologi

In Italia sono 6.153.860 gli abitanti esposti alle alluvioni – si legge nel comunicato. Il probabile aumento delle temperature potrebbe portare in Europa a inondazioni più frequenti ed intense. Ma quello che sta accadendo non è solo per colpa dei cambiamenti climatici.

Il presidente del Consiglio nazionale dei Geologi Gian Vito Graziano ha affermato: A fine agosto noi geologi avevamo già detto dei rischi e della fragilità del territorio. Qualora non fossero ancora chiari i termini del dissesto idrogeologico i geologi hanno il dovere morale di non abbassare la guardia, ricordando al Paese che la popolazione esposta a fenomeni franosi ammonta a 987.650 abitanti, mentre quella esposta alle alluvioni raggiunge 6.153.860, come evidenzia ancora l’Annuario ISPRA. Anche se le proiezioni quantitative per la frequenza e l’intensità delle inondazioni sono ancora incerte, l’Agenzia europea sostiene che sia probabile che l’aumento delle temperature in Europa porterà a inondazioni più frequenti e intense in molte regioni, a causa del previsto aumento dell’intensità e della frequenza di eventi meteorologici estremi”.

Ma non è solo colpa dei cambiamenti climatici – ha proseguito Graziano – perché ad esempio l’urbanizzazione sfrenata, ha eroso dal 1985 ad oggi ben 160 km di litorale. I numeri recentemente pubblicati nell’Annuario dei Dati ambientali 2012 dell’ISPRA parlano chiaro: se in Italia per oltre 50 anni si sono consumati in media 7 mq al secondo di suolo, oggi se ne consumano addirittura 8 mq al secondo. Significa che ogni 5 mesi viene cementificata una superficie pari a quella del comune di Napoli e ogni anno una pari alla somma di quelle dei comuni di Milano e di Firenze. Per non parlare degli incendi, il 72% dei quali risulta essere di natura dolosa, il 14% di natura colposa e il restante 14% di natura dubbia. Da tempo i geologi chiedono l’istituzione di una commissione che possa affrontare tali problematiche così come fece la Commissione De Marchi”.

3. Le alluvioni in Sardegna

Sempre più frequenti: da Quartu (lo ha ricordato Antonio Cogoni nel suo bel romanzo Storie di altri tempi con S’Unda manna, un temporale-nubifragio, il primo sabato di ottobre del 1889. Morirono 25 persone, i feriti furono alcune centinaia, oltre 2000 gli sfollati, cinquecento edifici furono totalmente distrutti mentre molti di quelli rimasti in piedi subirono gravi danni) a Gairo (semidistrutto da un’alluvione del 1951) a Capoterra e al disastro di oggi.

a- colpa della natura?: 8-10 ore di pioggia ininterrotta, tanta acqua quanto in Sardegna ne scende in 6 mesi.

b- colpa dell’uomo? Territori massacrati, asfalto e cemento. A Olbia ci sono 12 mila case invendute. Si costruisce troppo e male: nei greti dei fiumi, sui canali, sugli stagni, sulle paludi: abusivamente. Sempre a Olbia ben 16 quartieri abusivi sono stati “sanati” con le sanatorie dei Governi. Non si puliscono i canali e i tetti dei torrenti (A Olbia come a Bitti; a Terralba come a Capoterra). Villaggi costruiti a 2 metri sotto il livello del mare (a Capoterra). Mancano i Piani regolatori.

c- Interventi inefficienti e in ritardo (non si è aperto, a Torpè, l’invaso di Maccheronis, già pieno). Mancata informazione? Dicono i Comuni. Mentre la Protezione civile si autoassolve e scarica la responsabilità sulle Amministrazioni locali che non sono intervenute subito, ma soprattutto non hanno prevenuto i disastri con l’evacuazione.

d- Nell’attuale legge di stabilità (ex finanziaria) per la difesa del territorio previsti 30 milioni di Euro per tutta l’Italia! Per is oli danni arrecati dall’alluvione in Sardegna non bastano 300 milioni!

4. la Sardegna antica: clima e foreste

La Sardegna prenuragica e nuragica – riferisce il paleo climatologo Franco Serra – era caratterizzata da un clima subtropicale, caldo umido, propria delle attuali fascie intertropicali, caratterizzato da temperature piuttosto elevate, moderata escursione termica, piovosità abbondante. Durante il mese più freddo l’atmosfera media non era mai inferiore a 18°, per cui l’inverso era praticamente inesistente e il numero dei giorni piovosi, variava

 in rapporto alle diverse zone dell’Isola, dai 90 ai 140 all’anno. La media annua  delle precipitazioni atmosferiche era intorno ai 1500-2000 millimetri (oggi la media è di 430/500 miillimetri).

Un altro climatologo, Francesco fedele, ribadisce cge una vegetazione ricca ricopriva il suolo dell’Isola e lo sviluppo delle specie selvatiche era proporzionato a questa ricchezza. L’alimentazione degli abitanti della Sardegna poteva dunque essere completa: frutti della terra, cereali, latte e derivati, grassi, uova, carne, miele, pesci, molluschi.

 5. La distruzione delle foreste

Quella prenuragica e nuragica era L’Isola del «grande verde», che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei sardi shardana. Quell’isola che soprattutto con i Piemontesi e in specie dopo l’Unità d’Italia, sarà sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, Milano 1971, pag.883).

Sulla stessa linea Gramsci che in un articolo sull’Avanti del 1919 scrive” “L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora”.

Certo, il dissipamento era iniziato già con i cartaginesi e i romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato: fin dal 1740 come ricorda Giuseppe Dessì, a proposito della distruzione delle foreste di Villacidro e dintorni, nel meraviglioso romanzo Paese d’ombre in cui scrive:”Nel 1740 il re aveva concesso al nobile svedese Carlo Gustavo Mandel il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di una esigua percentuale sul minerale raffinato e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo comuni a vere e proprie corvé e distruggendo così il patrimonio forestale della regione”. (Paese d’ombre, pagina 107).

I Piemontesi infatti bruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone. E con essi, amici e sodali di Cavour, ad iniziare da tal Conte Pietro Beltrami, uomo d’affari che prorio con il sostegno di Cavour, acquistò dal demanio alcune foreste, soprattutto a Fluminimaggiore e nell’Iglesiente, che disboscò senza alcun criterio, mandando in fumo un intero patrimonio boschivo e meritandosi l’appellativo di “Attila delle sarde foreste” in quanto devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna. Dopo l’Unità, forse per questo, fu eletto deputato per due legislature!

 Ma ancora qualche decennio anno prima dell’Unità Alberto Ferrero della Marmora, scrittore, geografo e militare (Torino 1789- 1863) scrive che ai suoi tempi la Sardegna aveva dei boschi fitti che potevano ricoprire un quinto dell’Isola.

E Maurice le Lannou (1906-1996) professore al Collège de France, membro e poi presidente dell’Institut (Académie des Sciences Morales et Politiques), uno dei più grandi geografi europei del secolo scorso, nella sua opera più importante sulla Sardegna: Pâtres et paysans de la Sardaigne, (Traduzione italiana a cura di Manlio Brigaglia: Pastori e contadini di Sardegna, Cagliari, Ed. della Torre, 1979) scrive che è certo che in tre quarti di secolo (1850-1925) il patrimonio forestale della Sardegna s’è notevolmente assottigliato in conseguenze di una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni. Dal 1860 la Sardegna è uscita abbastanza bruscamente dal suo isolamento e non sempre con vantaggio. Innanzitutto la foresta sarda ha fatto le spese della costruzione delle ferrovie isolane:nel 1863 200.000 ettari di terreni di bosco o di cespugli che appartenevano allo stato furono ceduti alla compagnia inglese che costruiva le ferrovie. Ed essa ne distrusse quasi 20.000 che erano i più ricchi di alberi veri e propri.

E’ dunque con l’Unità d’Italia che il patrimonio forestale della Sardegna s’è notevolmente e ulteriormente assottigliato grazie all’opera “criminale” di italiani, inglesi, francesi e belgi che trasformarono intere distese di alberi secolari in traversine per le ferrovie e travature per le miniere e per far legna con cui fondere i minerali.

La distruzione dei boschi era infatti tutta in funzione dei bisogni e degli interessi dell’Italia del Nord cui serviva carbone per le industrie e traversine per le strade ferrate. Con l’Unità d’Italia la partita si chiude con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni tanto che : “Lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 – scrive Eliseo Spiga (in La sardità come utopia, note di un cospiratore, Cuec editore, Cagliari 2006) – la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese, con il massacro concomitante degli animali selvatici:cinghiali, cervi, daini, mufloni”.

Carlo Corbetta, scrittore lombardo (seconda metà secolo XIX),  che visita la Sardegna  dopo il 1870 con l’appoggio di Quintino Sella, scrive  in seguito a quell’esperienza un’opera in due volumi Sardegna e Corsica. Essi vengono pubblicati nel 1877 a Milano per l’editore Brigola. A proposito della distruzione dei boschi precisa:”La distruzione dei boschi la si deve in  massima parte agli speculatori e trafficanti di scorza che col loro coltello scorticatore ne denudano i tronchi  e grossi rami delle elci e quercie marine e delle quercie comuni e la spediscono in continente ad estrarne tannino per la conceria delle pelli e per le tinture. Così scorticati gli alberi, muoiono nell’anno appresso e rimangono quali fantasmi biancastri agitanti le braccia per la deserta campagna e ti danno l’idea di esseri fantastici, di anime  dannate che si dolgano del loro crudo destino, o di anime purganti nel fuoco penace, quali si vedono dipinte nelle cappellette, sui canti delle vie cam­pestri.

 E in tal guisa ridotti, i piccoli rami si tagliano e se ne fa carbone, ed i tronchi si abbruciano sul po­sto e se ne fa cenere per estrarne potassa, e il suolo di sotto rimane nudo, deserto, brullo, biancheggiante”.

Si tratta di un’analisi gravemente deficitaria. E’ vero che le sugherete erano preda subito dopo l’Unità d’Italia (a partire dal 1865) di gruppi di commercianti che cercavano il tannino e la potassa. Ma i veri responsabili che Corbetta non individua, sono ben altri. Né, probabilmente Corbetta voleva e/o poteva individuarli, essendo essi amici e contigui ai suoi sostenitori, Quintino Sella in primis e con esso il Governo piemontese post-unitario di cui abbiamo già detto.

 6. La distruzione dei boschi e i poeti sardi

Il tema della distruzione dei boschi è costantemente presente non solo nella prosa degli scrittori sardi (abbiamo visto Giuseppe Dessì come Eliseo Spiga) ma anche nei poeti sardi. Penso in modo particolare a Peppino Mereu di Tonara che mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).

O penso ad Antioco Casula (noto Montanaru) che gli dedicherà una bellissima poesia:Su cantu de su chercu antigu.

Cant’annos, oh! cant’annos, subra custu

cuccuru isto, tristu, a isfidare

sos nies d’ennalzu, sos soles d’austu

e sos bentos chi ‘enin -da-e mare!

 Cant’annos cun sa sorte pista pista

e cun s’aera manna; e bezzu so,

bezzu cun paga foza, e pagu vista

e pagu fruttu a sa terra e briu do.

 E senza brios est sa terra mia,

sa terra mia priva de piantas;

non fit gai in sa mia pizzinnia!

‘Eo creschei in mesu a mill’antas

 d’ilighes bellos, nieddos de colza,

e logu non b’haiat nudu inoghe.

Cantu fit bella tando sa cussolza

E de su pastore alligra fit sa ‘oghe!

 Andaian sos tazzos, tottu lana

e tottu latte, a beulos cuntentos

in s’mbra de su buscu a sa funtana,

riparados de soles e de bentos.

 E sos pastores, torrende a s’abrile

dae Campidanu, sutta s’umbra mia

faghian fogu e faghian cuile;

e sas novas issoro iscultaia.

 ‘Enian, sas primas dies, sas isposas

cun pranzos bellos e cun binos d’oro

e naraian serenas milli cosas,

cunfidende sas penas de su coro.

 E a sos seros, meres e teraccos,

movian bellos cun su bestiamene,

giutende a palas sos nieddos saccos

de lana vera, de su prim’istamene

 tessidu da-e sas femminas cuss’annu.

E deo beneighia cussa zente,

beneighia cussu buscu mannu,

ch’a tottu riparaiat cunfidente.

 

Ma ecco una die (no isco ‘e ue),

faccia a sos primos de Santu Miale,

una truppa d’istranzos a igue

sun bènnidos armados de istrale.

 Oh Deu! cando m’ammento cussa die,

cando ammento s’assustru ‘e cuss’ora,

su truncu meu s’infrittat che nie;

e paret chi los bida inoghe ancora,

 inghiriados a una crabonalza

e bettende a su fogu truncos friscos;

parian fattende su ballu ‘e s’alza

nieddos che una trama ‘e basiliscos.

 Cando hapo ido cuddos eligheddos,

ruttos a terra comente anzones,

e poi bruschiados e nieddos,

malaitt’hapo tottus sos padrones

 de su buscu chi bendidu a s’incantu

haian tanta bellesa e tantu fruttu,

chi fit de custos montes s’altu vantu

e chi sos montes como han postu in luttu.

 Como mi paret unu zimitorio

su monte meu, custa mia terra;

desoladu est custu territoriu;

cant’abbandonu da-e serra in serra!

 

E deo che unu babbu addaloradu,

ch’in d’una guerra hat perdidu sos fizos,

isto solu a piangher su passadu

e naro a s’aera manna sos fastizos.

 E prego chi torren lieras sas antas

ch’hapo connottu cando so naschidu;

ma non torran pius cuddas piantas

chi su continentale hat distruidu!