Il II Congresso nazionale di ProgRes. Qualche nota di Francesco Casula.

Il 2°Congresso di ProgRes

 

1. Partecipazione.

Il Congresso ha visto una grande e variegata presenza – segnatamente di giovani e donne – come raramente succede nelle iniziative dei Partiti. A dimostrazione della capacità del Movimento indipendentista di aggregare, incuriosire, coinvolgere e interessare la Comunità sarda, travalicando i confini dell’organizzazione e dunque dei militanti e attivisti.

 

2. La relazione del Presidente Omar Onnis.

A – Del tutto condivisibile l’idea, il progetto di Partito che ha disegnato: orizzontale, liquido, leggero, aperto, antileaderistico. Con dirigenti a tempo molto limitato. A rotazione frequente. Per evitare ossificazioni dei ruoli, intercapedini e incrostazioni burocratiche. Con incarichi e responsabilità precise: ma di funzioni e di lavoro non di gerarchie.

B – Opportuni i richiami a scampoli di storia sarda, specie ai Regni Giudicali e al ventennio di fine Settecento con la rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale. Senza ancoraggio storico si costruisce solo sulla sabbia. Richiami anche per liquidare un becero luogo comune dei Sardi pocos, locos y mal unidos. Attribuito a Carlo V, ma mai verificato in alcun documento o altra fonte storica.

Del resto l’imperatore poco doveva conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due volte la visitò direttamente. Nel 1535 quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione, questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V – per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana e dell’intero sassarese.

 Ma tant’è: tale luogo comune – a prescindere da Carlo V – è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti devastanti, specie a livello psicologico e culturale  (vergogna di sé, complessi di inferiorità, poca autostima) ma con riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica.

I Sardi certo sono pocos,: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti, stolidi e men che meno imbecilli.

Certo le esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico  Meloni. E non fu annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i quattro Giudicati: sos rennos sardos (i regni sardi). 

Certo con catalani, spagnoli e piemontesi furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la base della Sardegna moderna.

Certo, si è tentato in ogni modo di scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”. Fra le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono de­gne di nota e sembrano risalire all’antichità più remota : citeremo le seguenti.

Ponidura o paradura.  Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l’usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villag­gio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d’un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all’infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…”

Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.

Ma soprattutto basti pensare alla Lingua, spia dell’Identità e substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi estremamente dinamiche.

La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata.

Anche il diritto consuetudinario – padre e figlio di quel monumento della civiltà giuridica che è la Carta de Logu – si è trasformato nel tempo, anche se la sua applicazione concreta (per esempio il cosiddetto “Codice barbaricino”) è da un lato costretta alla clandestinità e dall’altro a una restrizione alla società del “noi pastori”. Solo la crescita e l’affermarsi di studiosi, sardi non tanto per anagrafe quanto per autonomia dall’accademia autoreferente, ha fatto sì che gli elementi fondanti la cultura e la civiltà sarda passassero dall’enfasi identitaria alla fondatezza scientifica.

Alla straordinaria ricchezza culturale sono tuttavia spesso mancati, almeno fin’ora, i mezzi per una crescita e prosperità materiale adeguata. Oggi, dopo il sostanziale fallimento dell’ipotesi di industrializzazione petrolchimica, si punta molto sull’ambiente e sul turismo, settore quest’ultimo sicuramente molto promettente, purché si integri con gli altri settori produttivi, ad iniziare da quelli tradizionali come l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato. La struttura economica sarda infatti è sempre stata fortemente caratterizzata dalla pastorizia, che oggi però con i suoi quattro milioni di pecore, sottoposta com’è a processi di ridimensionamento dalle politiche dell’Unione europea, rischia una drammatica crisi.

 

C- Ecco, se un limite ho trovato nella relazione di Omar Onnis è stato quello di aver trascurato questi elementi cui ho brevemente accennato.

Ma soprattutto, almeno a me, non è parso sufficientemente chiaro il progetto del Movimento ProgRes per fuoriuscire dalla dipendenza e, dunque porre le basi per l’indipendenza.

Sia ben chiaro: nessuno pensa a un Partito che dall’alto, illuministicamente, traslochi e trasmetta ai Sardi una proposta compiuta e definita, confezionata da un manipolo di politici – e rivoluzionari – di professione come storicamente, ma è solo un esempio, è successo con i Partiti comunisti. Il programma, il progetto, il processo occorrerà costruirlo insieme ai Sardi e  alle Comunità: incontrando, incrociando e coinvolgendo quello che Lussu chiamava il popolo lavoratore sardo (pastori e contadini, artigiani e operai, insegnanti, impiegati) e insieme i nuovi dannati della terra (disoccupati – soprattutto giovani e donne – cassintegrati, precari) ovvero quel blocco sociale disponibile per una lotta per l’Indipendenza e di cui la Consulta rivoluzionaria, –pur con tutti i limiti elettoralistici –, in qualche modo ne è stata un paradigma.

Ma una bozza di proposta e di progetto occorre pur presentarla e proporla.

 

3. Una mia proposta per la discussione

Una proposta e un progetto per percorrere  una “via locale” alla prosperità e al benessere della Sardegna: partendo dalle nostre risorse economiche e materiali, ma soprattutto umane; dai giacimenti culturali e artistici;  dalle nostre vocazioni naturali; dai saperi tradizionali, per costruire uno “sviluppo” diffuso, sostenibile, dolce e armonico fra i vari settori e comparti, liquidando una buona volta le “monoculture”.

Inserendoci in quel vasto arcipelago di proposte e di progetti che a livello planetario da anni oramai vengono avanzate:

Penso a economisti come Rifkin o a scienziati e teorici dell’ecologia sociale come Vandana Shiva, indiana, che in “Sopravvivere allo sviluppo” denuncia le distorsioni irreparabili della globalizzazione capitalistica, scrivendo che: le necessità materiali dei poveri potranno essere soddisfatte soltanto quando l’economia naturale e le economie di sussistenza saranno robuste e resilienti. Per garantire che lo siano dobbiamo farla finita con l’ossessione per l’economia del mercato globale e per la ricchezza. La crescita finanziaria che distrugge la natura è la formula per aumentare la povertà e per degradare ancor più l’ambiente.

O penso all’italiano Enzo Tiezzi che in “Tempi storici e tempi biologici” ci ricorda i limiti oggettivi delle risorse naturali – soprattutto energetiche – e quindi dello sviluppo, l’era del “mondo finito” di cui parlava Paul Valery. O a Levi-Strauss e Joseph Rothscild che in “Il pensiero selvaggio” il primo e in “Etnopolitica” il secondo denunciano la distruzione e/o devastazione delle culture (e delle economie) deboli. O ancora al teorico marxista e terzomondista Samir Amin che il “La teoria dello sganciamento” prospetta la necessità di fuoruscire dal sistema occidentalista.

O all’americano Alvin Toffler che in “La terza ondata” sostiene la crisi dell’industrialismo e la necessità di una nuova civiltà, non più basata sulla concentrazione-centralizzazione-standardizzazione-omologazione.

 

4. L’Intervento del segretario nazionale Salvatore Acampora

Pur nella sua brevità e sinteticità è stato incisivo ed efficace. Anche perché è stato capace di cogliere – partendo dalla situazione specifica di una zona della Sardegna, l’Ogliastra – una pericolosa e inquietante tendenza della Sardegna oggi: lo spopolamento. Indotto da una molteplicità di fattori, ad iniziare da quelli colti e denunciati in modo netto da Acampora: la liquidazione di servizi essenziali pubblici (come Ospedali, Poste, Tribunali) o di presidi culturali indispensabili (come la scuola, Biblioteche ecc.). Lo stato centrale e centralistico, abdica alle sue funzioni di pubblica utilità, ritirandosi; ma nel contempo permane, invasivo e opprimente, con il suo apparato burocratico e fiscale.

La Sardegna – ha sostenuto Acampora – rischia di diventare una ciambella: al suo interno (o nelle zone più penalizzate e marginalizzate come l’Ogliastra) vuota e spopolata, e nelle coste intasate. Condivido. E mi fa piacere che il segretario di ProgRes abbia utilizzato la metafora della ciambella, da me stesso usata a proposito della crisi della pastorizia. Senza i pastori – ho avuto modo di scrivere qualche mese fa nella rivista sassarese Camineras – l’Isola si ridurrebbe a una ciambella: con uno smisurato centro abbandonato, spopolato, desertificato (e ancor più bruciato): senza più uno stelo d’erba. Con le comunità di paese, spogliate di tutto, in morienza. Di contro, con le coste sovrappopolate, inquinate e devastate vieppiù dal cemento e dal traffico. Con i sardi ridotti a lavapiatti e camerieri. Con i giovani senza avvenire e senza progetti. Senza più un orizzonte né un destino comune. Senza sapere dove andare né chi siamo. Girando in un tondo senza un centro: come pecore matte. Una Sardegna ancor più colonizzata e dipendente. Una Sardegna degli speculatori, dei predoni e degli avventurieri economici e finanziari di mezzo mondo, di ogni risma e zenia. Buona solo per ricchi e annoiati vacanzieri, da dilettare e divertire con qualche ballo sardo e bimborimbò da parte di qualche “riserva indiana”, peraltro in via di sparizione. Si ridurrebbe a un territorio anonimo: senza storia e senza radici, senza cultura, e senza lingua. Disincarnata. Ancor più globalizzata e omologata. Senza identità. Senza popolo. Senza più alcun codice genetico e dunque organismi geneticamente modificati: OGM. Ovvero con individui apolidi. Cloroformizzati e conformisti. Una Sardegna uniforme. In cui a prevalere sarebbe “l’odiosa, omogenea unicità mondiale”: come  l’aveva chiamata Lawrence in Mare e Sardegna.

 

 

La Questione della Lingua sarda

Sul blog –  peraltro eccellente – di Vito Biolchini sono state mosse severe critiche perché al 2° Congresso nazionale di ProgRes, a parte l’ottimo Bustianu Cumpostu, nessuno degli intervenuti ha utilizzato la Lingua sarda. La critica è giusta: come pensiamo infatti di essere credibili nella nostra battaglia per il Bilinguismo, se il sardo non lo usiamo, come lingua veicolare, ad iniziare da un consesso importante, anche simbolicamente, com’è un Congresso indipendentista?

Ciò premesso, le critiche mi sono sembrate comunque ingenerose perché a parte il mancato utilizzo del sardo in quell’occasione, ProgRes mi pare che soprattutto nell’ultimo anno abbia intrapreso una serie di iniziative interessanti e fruttuose per la valorizzazione e diffusione della Lingua sarda (dal Convegno di Oristano, Faghimus s’Iscola sarda a Fb sardo ecc.). Ne è possibile sottacere l’eccellente lavoro di un suo esponente, Massimeddu Cireddu, instancabile su questo versante: ricordo fra l’altro, i suoi ottimi articoli settimanali, sempre in Sardo su Sardegna quotidiano.

Piuttosto voglio sottolineare un dato: ProgRes – vedi documento programmatico consegnato ai partecipanti al Congresso –   continua a parlare di “Multilinguismo”. Bene: naturalmente sono d’accordo. Mi pongo però un problema – che ho già fatto presente proprio a Oristano in occasione del Convegno su ricordato – per “multilinguismo” molti intendono la presenza, specie a scuola, delle molteplici lingue ufficiali e di stato, europee e non: dall’inglese al francese; dallo spagnolo al tedesco; dall’arabo al cinese ecc. Ma non la Lingua sarda. Non è allora il caso allora – almeno a livello comunicativo – di parlare di Bilinguismo e non di multilinguismo? Così la nostra posizione è più chiara ed univoca.

Il II Congresso nazionale di ProgRes. Qualche nota di Francesco Casula.ultima modifica: 2013-01-12T09:05:54+01:00da zicu1
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