Le Prime Sei Lezioni di Letteratura sarda che ho tenuto all’Università della terza Età di Quartu

Corso di Letteratura e poesia sarda tenuto all’Università della Terza Età di Quartu da Francesco CASULA

L’Università della Terza Età di Quartu, per l’anno accademico 2011-2012 ha organizzato un Corso di Letteratura e poesia sarda.

 

 Ecco il Programma

1° Lezione (19-11-2011)

 

PREMESSA

L’umore esistenziale del proprio essere sardo, –di cui parla Lilliu- come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno” pur in presenza di forti elementi di integrazione e di assimilazione, nella società, nell’economia e nella cultura continua a segnare profondamente, sia pure con gradazioni diverse, oggi come ieri, l’intera letteratura sarda che risulta così, autonoma, distinta e diversa dalle altre letterature. E dunque non una sezione o, peggio, un’appendice di quella italiana: magari gerarchicamente inferiore e comunque da confinare nella letteratura “dialettale”. Il sistema linguistico e letterario sardo infatti, come sistema altro rispetto a quello italiano, è sempre stato, come tale, indipendente e contiguo ai vari sistemi linguistici e letterari che storicamente si sono avvicendati nell’Isola, da quello latino a quello catalano e castigliano, e, per ultimo, a quello italiano, con tutte le interferenze e le complicazioni e le contaminazioni che una simile condizione storica comporta. Una situazione ricca e complessa, propria di una regione-nazione dell’Europa e del mediterraneo.

Nasce anche da qui l’esigenza di un’autonoma trattazione delle vicende letterarie sarde: ad iniziare da quelle scritte in Lingua sarda. Da considerare non “dialettali” ma autonome, nazionali sarde, vale a dire.

A questa stessa conclusione arriva, del resto, un valente critico letterario (e cinematografico) italiano come Goffredo Fofi, che nell’Introduzione a Bellas Mariposas di Sergio Atzeni (edito dalla Biblioteca dell’Identità-Unione sarda, pag.18-19) scrive:”Sardegna, Sicilia. Vengono spontanei paragoni che indicano la diversità che è poi quella dell’insularità e delle caratteristiche che, almeno fino a ieri, ne sono derivate, di isolamento e di orgoglio. E’ possibile fare una storia della letteratura siciliana o una storia della letteratura sarda, mentre, per restare in area centro-meridionale- non ha senso pensare a una storia della letteratura campana, o pugliese, o calabrese, o marchigiana, o laziale…

Il mare divide e costringe: La letteratura siciliana e la letteratura sarda possono essere studiate –nonostante la comunanza della lingua, con quella di altre regioni, almeno dopo l’Unità- come “Letterature nazionali”. Con un loro percorso, una loro ragione, loro caratteri e segni”.

Più o meno sulla stessa linea si muove Franco Brevini, considerato il maggior competente di poesia dialettale contemporanea, secondo il quale occorre riconoscere al sistema letterario sardo uno statuto particolare almeno per due motivi fondamentali:

1.Il sardo non può essere considerato un dialetto;

2. Difficilmente la Sardegna a causa della sua posizione decentrata e della sua peculiarissima storia, specifica e dissonante rispetto alla coeva storia  europea, segnata com’è dall’incontro con diverse culture, può essere integrata in un discorso di storia italiana.

 Da una analisi attenta della letteratura sarda potremmo vedere che dalle origini del volgare sardo fino ad oggi, non vi è stato periodo nel quale la lingua sarda non abbia avuto una produzione letteraria.

Del resto a riconoscere una Letteratura sarda è persino  un viaggiatore francese dell’800, il barone e deputato Eugene Roissard De Bellet che dopo un viaggio nell’Isola, in La Sardaigne à vol d’oiseau nel 1882 scriverà :”Si è diffusa una letteratura sarda, esattamente  come è avvenuto in Francia del provenzale, che si è conservato con una propria tradizione linguistica”

Certo, qualcuno potrebbe obiettare, che essa, rispetto ad altre lingue romanze, ha prodotto pochi frutti. E’ questa  -per esempio- la posizione dello stesso Gramsci, che dopo aver detto una sacrosanta verità “ il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé”, afferma che esso non ha prodotto “ una grande letteratura”.

In realtà Gramsci non conosce la letteratura sarda: e per molti versi, non poteva neppure conoscerla, dati i tempi e le condizioni storiche –e personali- in cui viveva e operava. E non la conosciamo appieno neppure oggi tanto che è urgente una grande operazione di scavo e di recupero del nostro patrimonio letterario, molto del quale è ancora inedito, numerosissimi testi sono ancora ignorati dagli stessi  critici o sepolti in biblioteche e in archivi privati e pubblici. E occorre tener conto non solo dei testi scritti ma anche di quelli orali –abbondantissimi- quando ne siano recuperate le testimonianze.

Faccio solo un’esempio: abbiamo potuto conoscere Giovanni Matteo Garipa, -non lo conosceva neppure Wagner- solo recentemente, grazie alla ripubblicazione della sua opera su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (1627) da parte dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf  e Pasquale Zucca. Eppure si tratta del più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640). Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due:

1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda –definita “limba latina sarda”– come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue;

2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’Isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

E’ stato anche obiettato che la lingua sarda ha prodotto “cultura bassa”. Rispetto a questa accusa occorrerebbe finalmente iniziare a liquidare certi equivoci gerarchici sulla cultura e sulle sue forme, per cui ci si attarda ancora a parlare di cultura “alta” e cultura “bassa”, di cultura “materiale” (miniere, artigianato, agricoltura, pastorizia, turismo) inferiore e subordinata alla cultura “immateriale” (lingua, letteratura, arte, musica, diritto ecc. ecc) o di cultura orale inferiore alla cultura “scritta” e dunque meno degna di essere conosciuta e studiata. La cultura, senza gerarchie, deve essere intesa in senso antropologico, ovvero nei valori sottostanti alle scelte collettive e individuali e quindi agli ideali che orientano i comportamenti, con particolare riferimento a quelli sociali.

Anche il termine “letteratura”, secondo il dettato dei più moderni e aggiornati orientamenti di studi, va inteso nel senso di scrittura o produzione di opere di cultura che occupano spazi non tradizionali quali gli atti giuridici, le costituzioni politiche, la poesia e la tradizione orale e finanche le opere di carattere didascalico o divulgativo per le quali veniva usata la lingua sarda al fine comunicare meglio con il popolo.

Ma anche dato e non concesso che la lingua sarda abbia prodotto poco, si poteva pensare che un cavallo per troppo tempo tenuto a freno, legato  imbrigliato e impastoiato potesse correre e correre velocemente? La lingua sarda, certo, deve crescere, e sta crescendo: ha soltanto bisogno che le vengano riconosciuti i suoi diritti, che le venga proprio riconosciuto il suo “status” di lingua, e dunque le opportunità per potersi esprimere, oralmente e per iscritto, come avviene per la lingua italiana.

La Lingua sarda, dopo essere stata infatti lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, viene infatti ridotta al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano.

Contrariamente a ciò che comunemente si dice e si pensa da parte degli stessi sardi, la letteratura in Sardo che l’isola ha espresso nei secoli, oltreché variegata nei diversi generi, è ricca di opere e di autori anche quando superata la fase esaltante del medioevo, all’indomani della sconfitta del regno di Arborea, mancando un centro politico indipendente, le lingue dominanti (catalano, castigliano e infine italiano) assunsero via via il ruolo di lingue ufficiali accolte in toto dal ceto dirigente isolano. La lingua sarda restò praticata dai cantori che diedero vita a una lunga tradizione poetica orale, ma anche da scrittori con riflessi di tipo colto.
Nei secoli si succedettero tentativi, da parte degli intellettuali sardi più vicini al popolo (in particolare uomini di Chiesa), di normalizzare l’uso scritto della lingua. Uno sforzo ancora oggi attuale, nel momento in cui, per effetto di una nuova coscienza linguistica, si è assistito alla nascita della prosa narrativa in lingua sarda.

Occorre comunque sottolineare che è soprattutto a partire dall’ultima metà del Novecento che i poeti e gli scrittori in lingua sarda hanno offerto risultati non solo quantitativamente ma anche qualitativamente risultati di grande rilievo. E nelle loro opere “la Sardegna, finalmente, -come scrive Nicola Tanda- da «non luogo», diventa «luogo», non di un esclusivo recupero memoriale, ma luogo dell’immaginario che produce il progetto di una identità dinamica, dal quale deriva l’energia vitale e morale di un nuovo modello di sviluppo economico e civile”.

E gli autori trovano una condizione specifica nello «stare» per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici«realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

L’importante è che la produzione letteraria esprima una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come scrive il critico sardo Giuseppe Marci.

L’importante è soprattutto –come scrive Antonello Satta- “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

L’importante infine è che la letteratura sarda abbia, come ogni letteratura, tratti universali della qualità estetica e se, in più è  «specifica», soprattutto per una questione di Identità. E’ proprio l’Identità sarda infatti il tratto che a mio parere accomuna gli Autori che scrivono in sardo. Ad iniziare dai poeti del Premio Ozieri in cui la peculiare identità della Sardegna non poteva essere garantita né da alcuna facile coloritura “dialettale” né dalla lingua presa in prestito –l’italiano- ma semplicemente dalla lingua sarda.

MOVIMENTI E AUTORI

1. LA NASCITA DELLA LINGUA SARDA E I PRIMI DOCUMENTI.

-Apparizione di un volgare “nazionale”.

-I primi documenti in lingua sarda  sono la Carta del giudice Torchitorio -1070-1080 e  il così detto Privilegio logudorese detto anche Carta consolare pisana, -1080-85.

2. I CONDAGHI

I Condaghi Dei quattro Condaghi più importanti, che ci sono pervenuti integralmente, due  risalenti ai secoli XI-XII (Condaghe di San Nicola di Trullas e di San Pietro di Silki) sono scrittti in sardo-logudorese e uno (Condaghe di Santa Maria di Bonarcado), che contiene documenti compilati in tempi diversi tra i primi decenni del secolo XII e la metà del secolo XIII, è scritto in sardo-arborense. Mentre il quarto, il Condaghe di San Michele di Salvennor, originariamente scritto in Sardo, è andato perduto, e di esso possediamo solo una copia tradotta in lingua castigliana mista a sardo, nel secolo XVI.

3. LA CARTA DE LOGU DI ELEONORA D’ARBOREA, promulgata da Eleonora nel 1392 raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il padre di Eleonora..

4.  ANTONIO CANO, Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)

5. SIGISMONDO ARQUER, Lo scrittore plurilingue di statura europea, vittima  dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571).

6. GIROLAMO ARAOLLA, il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI).

7. GIOVANNI MATTEO GARIPA , il più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640).

8. FRA ANTONIO MARIA DA ESTERZILI, il fondatore della sacra rappresentazione in Sardegna (1664-1727)

9.LA POESIA IN LINGUA SARDA NEL 700/800 FRA UMORISMO, SATIRA E IMPEGNO :

9.1. SA SCOMUNIGA DE PREDI ANTIOGU: DI AUTORE SCONOSCIUTO , il capolavoro, anonimo, della poesia comico-satirica sarda dell’800

9.2. LUIGI PINTOR SIRIGU, Il più grande poeta satirico dell’ottocento in lingua sardo-campidanese (1765-1814).

9.3.FRANCESCO IGNAZIO MANNU, il magistrato e il poeta cantore delle rivolte antifeudali in Sardegna alla fine del ‘700 (1758-1839).

9.4. DIEGO MELE, Il principe dei satirici sardi in lingua sardo-logudorese (1797-1861)

9.5 PEPPINO MEREU,  Il poeta “maledetto”, il poeta socialista (1872-1901).

 

10 ANTIOCO CASULA (Noto MONTANARU), il più noto poeta in lingua sarda (1878-1957)

 

11. BENVENUTO LOBINA, Il poeta e il romanziere  bilingue che ha nobilitato la lingua sarda (1914-1993).

12. FAUSTINO ONNIS, il poeta e artista autodidatta che ha dedicato la vita alla Lingua sarda (1925-2001)

13.ANTONIO COSSU, lo scrittore e poeta bilingue, il giornalista, l’editore e l’operatore culturale impegnato  (1927-2002).

14. AQUILINO CANNAS, Il cantore di Cagliari e dei diseredati (1914-2005)

15 FRANCESCO MASALA, Il poeta e il romanziere bilingue dei Sardi “vinti ma non convinti”(1916-2007).

16. FRANCO CARLINI, Lo scrittore e il poeta bilingue. Il “Rodari sardo” con il gusto dellironico e del fiabesco.(1936-)

17.GIANFRANCO PINTORE, il giornalista, saggista e scrittore bilingue e identitario (1939-).

  18. PAOLA ALCIONI, la scrittrice e poetessa cagliaritana bilingue, che canta sogni e radici antiche (1955-)

 

19. MARIA CRISTINA SERRA, La valente poetessa in lingua sarda-campidanese  che canta  i valori dell’Identità (1960-)

20. LA LETTERATURA IN SARDO NEGLI ULTIMI 30 ANNI (1980-2010)

Negli ultimi trent’anni c’è stata una vera e propria esplosione della letteratura in Lingua sarda; poesia ma anche  prosa, con Contus e-fenomeno nuovo- romanzi. Antoni Arca (in Benidores, Literatura, limba e mercadu culturale in Sardigna, Condaghes editore, Cagliari 2008) ha censito i libri di narrativa in lingua sarda pubblicati in meno di 30 anni.Nei primi dieci anni (1980-1989) le pubblicazioni sono state 22, fra cui 11 romanzi. Il primo a rompere il ghiaccio della incomunicabilità fra la lingua sarda e il romanzo (quella con il racconto, soprattutto orale non c’è mai stata) è Larentu Pusceddu con S’àrvore de sos tzinesos. Il libro scatenò, quando uscì nel 1982, una lunga querelle letteraria che ebbe per alcuni il merito e per altri la colpa di portare alla ribalta la questione della lingua sarda.

Tra i romanzi pubblicati nel decennio 1980-1989, oltre a Sos Sinnos di Michelangelo Pira; Mànnigos de memoria di Antonio Cossu; Po cantu Biddanoa  di Benvenuto Lobina; S’Istoria, Condaghe in limba sarda di Frantziscu Masala e su Zogu di Zuanne Frantziscu Pintore, da menzionare sono Su traballu est balore (1984) di Francesca Cambosu; Alivertu (1986) di Mario Puddu e Sas gamas de istelai (1988) di Albino Pau (ripubblicati ambedue nel 2004 da Condaghes editore).

 

Nei secondi dieci anni (1990-1999) le pubblicazioni sono più che raddoppiate: dalle 22 del primo decennio passano a 57. Da ricordare –fra gli altri- i seguenti romanzi: Su contu de Piricu di Mario Sanna (1990); Mastru Taras (1991) di Larentu Pusceddu; Su Zuighe in cambales ((1992) di Gigi Sanna;  i romanzi in gallurese: Di stenciu a manu mancina (1993) di Giancarlo Tusceri e Lu bastimentu di li sogni di sciumma (1997) di Giuseppe Tirotto e Sciuliai Umbras (1999) di Ignazio Lecca, in campidanese.

 

Fra i “Contos-racconti”, di particolare interesse Nadale (1990) di Diego Corraine; Sa memoria e i sos contos (1991) di Giulio Albergoni; Contos de s’antigu casteddu (1994) di Salvatore Patatu; Contos de bidda mia (1995 di Salvator Angelo Spanu; Contus (1998) di Franca Marcialis; Is contus de nonna Severina-contus de forredda (1999) di Maria Assunta Cappai.

 

Nei terzi dieci anni (2000-2007) le opere narrative in sardo sono ben 107. “Si casi otanta titulos in binti annos, nos sunt partos cosa manna –scrive Antoni Arca– prus de chentu in nemmancu in sete annos, ite sunt? Fatzile: sa proa de l’acabbare de nàrrere chi sa narrativa in sardu galu no esistit. Una narrativa in sardu b’est, e como toccat a l’istudiare, sena pensare de àere giai in butzaca su modellu pro l’ispertare, ca, comente amus cunsideradu dae su 1980 a su 1999, in sardu sunt istados iscritos contos e romanzos chi tocant onni genere e onni edade, cun resurtados de onni manera, dae òperas feas  a òperas bellas, passende pro unu livellu medianu de bona legibilidade”(Se quasi 80 titoli in 20 anni ci sono sembrati una gran cosa –scrive Antonio Arca- più di 100 in meno di sette anni, che cosa sono? Chiaro: la dimostrazione che occorre smetterla di dire che una narrativa in Lingua sarda non esiste ancora. Una narrativa in sardo c’è e ora occorre studiarla, senza pensare di avere in tasca un modello da interpretare, perché, come abbiamo analizzato per il periodo 1980-1999, in sardo sono stati scritti racconti e romanzi che attengono a ogni genere e a ogni età, con risultati diversi: con opere mediocri ma anche belle, e dunque complessivamente con un livello medio di buona qualità).

 

Tra i 107 titoli, a parte quelli di Benvenuto Lobina, Francesco Masala, Franciscu Carlini, Zuanne Frantziscu Pintore, Michelangelo Pira, Paola Alcioni e Antonimaria Pala, sono molti quelli degni di menzione (e solo lo spazio limitato impedisce di ricordarli tutti) fra gli altri, i romanzi:

-Carrela ‘e puttu,  Presones de lussu (2000), S’Iscola de Mara (2002), Pissighende su tempus benidore. S’istoria fantastica de sa Sardigna in su XXI seculu -2001-2100 (2003) e Chenabraghetta (2005) di Nino Fadda;

-S’Isula de is canis. De s’arreumi a sa democrazia intre sa beccia e sa noa economia (2000), Contus de fundamentu. De candu sa luxi fudi scura, a candu su scuriu es luxenti (2003), Arega-pon-pon. Tempus de pintadera (2007) di Francu Pilloni;

Una frabigga di sogni (2001) di Gian Paolo Bazzoni; Corte soliana (2001) di Marina Danese; Su belu de sa bonaura (2001) e Dona Mallena (2007) di Larentu Puxeddu;  L’umbra de lu soli (2001) e Comenti óru di nèuli…(2002) di Giuseppe Tirotto; Su deus isculzu (2002) di Pitzente Mura; Is cundannaus de su sàrtidu (2003) di Sandro Chiappori; Su cuadorzu (2003) e Sa gianna tancada (2005) di Nanni Falconi; S’arte e sos laribiancos.Lìttera a Tziu Frantziscu (2003) di Bustianu Murgia; Sa sedda de sa passalitorta (2004) di Gonario Carta Brocca; Nania. Sa pitzinna chi benit dae su nuraghe (2004) di Maria Lucia Fancello; Meledda (2005) di Mariangela Dui; S’àrvule de sos sardos (2005) di Micheli Ladu; Antonandria (2006) di Paulu Pillonca; Sos de Parte “Tzier” (2007) di Costantina Frau.

Fra gli autori di “Contos e faulas-racconti e favole” di rilievo sono: S’arrisu de s’Arenada (2000) di Matteo Porru; Deu sciu unu contu (2000) di Ettore Sanna e Maria Bonaria Lai; A bassi veri (2001) e Raighinas (2003) di Nino Fois; Contus e contixeddus (2002) di Ugo Dessy; Contos e cantilenas (2002) di. Maria Teresa Pinna Catte, Maria Lucia Fancello, Silavana Comez; Contos de Foghile (2003) di Francesco Enna; Contixeddus Cuatesus (2003) e S’anima de Cuattu. Is arregodus e sa lingua (2006) di Giusi Ghironi e Mariano Staffa; Contos e faulas (2003) di  Mario Puddu, Matteo  Porru, Teresa Scintu, Giovanna  Elies, Pinuccio Canu; Sos contos de Torpenet.Cuncursu de literadura sarda in su Web  (2004) di AA. VV.; Apedala dimòniu! (2004) di Amos Cardia; Memorias de Marianu (2004) di Giuseppe Puxeddu; Contus antigos (2005) di Josto Murgia; Ite timende chi so (2005) di Antonietta Zoroddu; Conti pa Pitzinni (2006) di Fabritziu Dettori; Sa paristòria de Bachis (2006),di Francesco Cheratzu.

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L’elenco potrebbe continuare: per intanto con le opere narrative pubblicate dal 2007 fino ad oggi, che sono moltissime. Ricordo A ballu tango di Antoni Arca, Su calarighe di Stefania Saba, pubblicati da Condaghes che, insieme a Papiros di Nuoro, Domus de janas di Cagliari, Grafica del Parteolla di Dolianova e Alfa di Quartu, è l’editore specializzato nelle pubblicazioni in sardo e in gallurese.

L’Alfa editrice –fra l’altro-  negli ultimi anni ha pubblicato nella variante campidanese e logudorese ma anche in Limba sarda comuna (LSC), due collane, rivolte in modo particolare al mondo della scuola: S’Iscola (15 volumi di Contos e paristorias) e Omines e feminas de gabbale (15 monografie su personaggi sardi illustri:  Gratzia Deledda (di Francesco Casula), Emiliu Lussu (di Matteo Porru), Leonora d’Arborea (di Francesco Casula), Antoni Gramsci (di Francesco Casula e Matteo Porru), Antoni Simon Mossa (di Francesco Casula), Frantziscu Masala (di Matteo Porru e Tonino Langiu), Zuanne Maria Angioy (di Francesco Casula), Amsicora (di Francesco Casula), Marianna Bussalai (di Francesco Casula), Giuanni Battista Tuveri (di Gianfranco Contu e Ivo Murgia), Sigismondo Arquer (di Francesco Casula), Giuseppe Dessì (di Francesco Casula e Veronica Atzei), Montanaru (di Francesco Casula e Joyce Mattu), Egidio Pilia (di Marcello Tuveri e Ivo Murgia), Gratzia Dore (di Francesco Casula).

 

 

 

2° Lezione (26-10-2011)

 

 

Capitolo I:

 IL PERIODO DEI REGNI GIUDICALI (900-1409):

1. LA NASCITA DELLA LINGUA SARDA E I PRIMI DOCUMENTI.

-Apparizione di un volgare “nazionale”.

Il sardo (come l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze: il portoghese, il castigliano, il catalano, il francese, il provenzale, il franco-provenzale, il ladino e il rumeno) deriva dal latino comune, ossia dal latino parlato e non da quello letterario, noto come latino volgare.  Queste lingue si formano in Europa nei regni cosiddetti romano-barbarici nel periodo di tempo compreso tra il 476 d.C., data della caduta dell’Impero Romano d’Occidente, e l’VIII-IX secolo, quando cominciano ad apparire le prime attestazioni scritte dei volgari neolatini. La lingua sarda è una delle prime lingue neolatine che si formano in Europa, circa 400 anni prima della lingua italiana. Infatti le prime testimonianze del volgare sardo nelle diverse parti dell’Isola risalgono alla fine del secolo XI e compaiono in tutti e quattro i Giudicati sardi: quasi contemporaneamente nel Giudicato di Cagliari al Sud e nel Giudicato di Torres al Nord. Subito dopo al centro, nel Giudicato di Arborea ed infine al Nord est nel Giudicato di Gallura.Così mentre in questo stesso periodo nelle altre regioni italiane ma anche in altre parecchie aree romanze, sul fronte del volgare, si registrano ancora silenzi totali, nell’Isola, in Monasteri e Basiliche appaiono i primi documenti in Lingua sarda. Si tratta di una ricchissima messe di documenti volgari del medioevo fra le più importanti in assoluto nell’area delle lingue romanze.Anche in Sardegna -come in quasi tutto il mondo neolatino-  l’esigenza del volgare sgorga e prende forma dalla cultura e dalla pratica giuridica: è questo il terreno in cui anche la lingua sarda o meglio le varietà locali che l’articolano, affermano la loro prima necessità di scrittura. “Solo che poi, -scrive Paolo Merci in Le origini della scrittura volgare, in La Sardegna Enciclopedia, vol. I, sezione Arte e Letteratura, a cura di Manlio Brigaglia, Ed. Della Torre, Cagliari 1982, pag.12- a differenza di quasi tutte le culture romanze coeve, dall’area limitata dell’uso giuridico la lingua scritta in Sardegna non s’affranca quasi mai, fino al Quattrocento inoltrato. I tre secoli che precedono forniscono solo ampia documentazione di negozi, donazioni, contratti, processi, le loro spesso abbreviate registrazioni da parte dei monasteri (i cosiddetti Condaghi) atti politici in genere minori, ma talvolta invece assai solenni come statuti e leggi o trattati intergiudicali. Con solo qualche sporadica apertura alla cronaca (il Libellus judicum turritanorum e qualche sparsa pagina dei condaghi) o ancora nei condaghi qualche breve involontaria concessione narrativa”.

Se l’assenza di resti della poesia popolare è fenomeno, con poche eccezioni, comune alle origini romanze, ciò che invece colpisce è la totale mancanza nella Sardegna medievale di qualsiasi forma di poesia o letteratura «colta» in volgare, in contrasto con la ricchezza di carte volgari e la tempestività con cui la prosa sarda afferma la sua emancipazione dall’oralità, la duttilità che la lingua mostra nei condaghi e più avanti nel corso di tutto il secolo XIV, la capacità e l’efficacia mostrata dal volgare nell’impegnarsi ad interpretare e risolvere problemi di rapporto fra il potere locale e le genti isolane (e di cui sono testimonianza documenti come gli Statuti Sassaresi, quelli di Castelsardo, le Carte de logu ecc.).

Se letteratura scritta ci fosse stata, certo qualche resto anche parziale e mutilo, qualche ricordo o accenno sarebbe rimasto negli stessi conventi o archivi che ci hanno conservato i documenti giuridici.

 

-I primi documenti in lingua sarda

Le caratteristiche dei primi documenti in sardo sono, come abbiamo visto, la precocità e la copiosità rispetto alle altre regioni italiane, la diffusione generalizzata in tutte le zone dell’Isola, la complessità e la maturità linguistica e stilistica. “I Sardi inoltre –scrive Mario Puddu, autore di un eccellente Ditzionariu de sa limba e de sa cultura sarda nonché di una Grammatica de sa limba sarda  sono i primi fra tutti i popoli di lingua romanza a fare della lingua comune della gente, la lingua ufficiale dello Stato, del Governo” (in Istoria de sa limba sarda, Ed. Domus de Janas, Selargius, 2000, pag.14).

In ambiente laico, le cancellerie giudicali sono le uniche depositarie della scrittura: che però, si avvalgono dell’operato degli ecclesiastici. Così i primi documenti scritti in sardo e redatti in Sardegna provengono dalle cancellerie dei Giudicati oltre che dai conventi, monasteri e basiliche.

Il documento più antico proviene dal Giudicato meridionale: è la Carta del giudice Torchitorio che contiene un’ampia donazione che fa all’arcivescovo di Cagliari (ville e soprattutto i diritti su “totus sus liberus de paniliu cantu sunt per totu Caralis– tutti i liberi dal panilio che si trovano Cagliari: “Se il paniliu  –scrive Francesco Cesare Casula nel suo Dizionario storico sardo- era «la schiera, la lista di servi», i liberos de paniliu nei regni giudicali sardi (Calàri, Torres, Gallura, Arborèa) sarebbero i liberati dal “panilio”, cioè gli affrancati dalla lista dei servi, divenuti semiliberi o colliberti, chiamati in sardo medioevale anche liberos ispesionarios o pensionarii in toscano antico” .

Pare che il termine panilio –scrive ancora F. Cesare Casula-  derivi da banilius, proclama franco carolingio che imponeva ai vassalli certe prestazioni o corvèe, quali l’obbligo di macinare nel mulino del signore, di cuocere nel suo forno, di strizzare l’uva nel suo torchio, ecc”. Chi dunque se ne affrancava era libero dal paniliu).

La Carta che va datata fra il 1070-1080 (Arrigo Solmi) non ci è pervenuta nell’originale: ne resta una copia quattrocentesca nell’Archivio arcivescovile di Cagliari. Sempre agli anni 1070/1080 o comunque a prima del 1100 si fanno risalire altre Carte: solo nell’Archivio arcivescovile di Cagliari ce ne sono 21, scritte in diverse zone della Sardegna, in lingua sardo-campidanese o sardo-logudorese, le cui differenze comunque erano meno marcate di quelle odierne.

Segue a poca distanza di tempo (1080-85) il così detto Privilegio logudorese detto anche Carta consolare pisana, di cui rimane la pergamena  originale nell’archivio di stato di Pisa. E’ il più antico documento sardo del nord della Sardegna.

Ecco il testo.

PRIVILEGIO LOGUDORESE

In nomine Domini amen. Ego iudice Mariano de Lacon fazo ista carta ad onore de omnes homines de Pisas pro xu toloneu ci mi pecterunt: e ego donolislu pro ca lis so ego amicu caru e istos a mimi; ci nullu imperatore ci lu aet potestare istu locu de non (n)apat comiatu de leuarelis toloneu in placitu: de non occidere pisanu ingratis: e ccausa ipsoro ci lis aem leuare ingratis, de facerlis iustitia imperatore ci nce aet exere intu locu. E ccando mi petterum su toloneu, ligatorios ci mi mandarun homines ammicos meos de Pisas, fuit Falceri e Azulinu e Manfridi, ed ego fecindelis carta pro honore de xu piscopu Gelardu e de Ocu Biscomte e de omnes consolos de Pisas: e ffecila pro honore de omnes ammicos meos de Pisas; Guidu de Uabilonia e lLeo su frate, Tepaldinu e Gelardu, e Iannellu, e Ualduinu, e Bernardu de Conizo, Francardu e Dodimundu e Brunu e rRannuzu, e Uernardu de Garulictu e tTornulu, pro siant in onore mea ed in aiutoriu de xu locu meu. Custu placitu lis feci per sacramentu Ego e domnicellu Petru de Serra, e Gostantine de Azzem e Bovechesu e Dorgotori de Ussam e nNiscoli su frate (e n)Niscoli de Zor(i e) Mariane de Ussam (…)

 

Traduzione

In nome di Dio, amen. Io giudice Mariano di Lacon faccio questa carta ad onore di tutti gli uomini di Pisa, per il dazio che mi chiesero; ed io la dono loro perchè sono a loro amico caro ed essi a me; che nessun imperatore (governatore) che abbia a governare in questo luogo non possa togliere loro questo dazio concesso con placito: di non uccidere arbitrariamente un pisano: e quanto a coloro i quali gliela togliessero arbitrariamente, che gli faccia giustizia l’imperatore (governatore) che ci sarà nel luogo. E quando mi chiesero l’esenzione dal dazio, gli ambasciatori che mi mandarono i miei amici pisani furono Falcheri, Azzolino e Manfredi ed io feci loro la carta in onore del vescovo Gelardo e di Ugo Visconte e di tutti i consoli pisani. E la feci anche in onore di tutti i miei amici pisani: Guido di Babilonia e suo fratello Leo; Tebaldino e Gelardo e Giannello, e Ubaldino e Bernardo di Ionizzo, Francardo e Odimundo e Bruno e Ranuccio e Bernardo di Carletti e Tornolo. Perché possano a me rendere onore e al mio territorio aiuto, contrassi con loro questo patto sotto giuramento, io e donnicello Pietro de Serra e Costantino de Athen e Bovechesu e Torchitorio de Ussan e Discoli suo fratello e Discoli de Zori e Mariano de Ussan(…).

 

Da segnalare, fra i documenti antichi, oltre ai Condaghi, che vedremo a parte, il Libellus Judicum turritanorum (Libro dei Giudici turritani) ma siamo già nel 1255-1287, opera di carattere cronachistico, con una certa capacità di elaborazione narrativa.

 

2. I CONDAGHI

I Condaghi (Condaghes o Condakes) derivano il loro nome dal greco-bizantino Kontakion: a sua volta da Kontos con la quale si indicava il bastoncino a cui si arrotolava la pergamena. Successivamente il termine, per traslato, andò a indicare il contenuto di un atto giuridico o l’atto medesimo e dunque registro o codice in cui diversi atti venivano trascritti e raccolti dai monaci di diversi monasteri e abbazie della Sardegna. In questi registri patrimoniali venivano ordinatamente annotati dagli abati o priori, inventari, donazioni, contratti di acquisto (comporus) e vendita, permute (tramutus), smerci, cessioni di terre e di servi, definizioni di confine (postura de tremens), transazioni (campanias), sentenze giudiziarie relative alla proprietà ecc. ecc. Così, mentre nell’asciutto succedersi dei dati, il Condaghe riesce a raccontare tempi e strategie dell’espansione economica di un Priorato o di un’Abbazia, in filigrana permette di leggere numerosi e originali momenti di storia e di vita quotidiana. E dunque essi hanno una estrema importanza storica per la ricostruzione della vita economica e sociale dei regni giudicali e del regno di Sardegna in età moderna fino al secolo XVI, perché poi scompaiono; ma nel contempo hanno un’importanza ancor più notevole dal punto di vista culturale: rappresentano infatti i più cospicui monumenti linguistici della Sardegna giudicale e dunque una delle fonti più rilevanti per la conoscenza del Sardo delle origini. Essi infatti sono stati redatti prevalentemente  tra il secolo XI e XIII e in lingua sarda.

Dei quattro Condaghi più importanti, che ci sono pervenuti integralmente, due  risalenti ai secoli XI-XII (Condaghe di San Nicola di Trullas e di San Pietro di Silki) sono scrittti in sardo-logudorese e uno (Condaghe di Santa Maria di Bonarcado), che contiene documenti compilati in tempi diversi tra i primi decenni del secolo XII e la metà del secolo XIII, è scritto in sardo-arborense. Mentre il quarto, il Condaghe di San Michele di Salvennor, originariamente scritto in Sardo, è andato perduto, e di esso possediamo solo una copia tradotta in lingua castigliana mista a sardo, nel secolo XVI. Il Condaghe di San Nicola di Trullas, è il registro patrimoniale del priorato camaldolese di San Nicola di Trullas, fondato nel cuore del Logudoro (presso Semestene), nel Giudicato di Torres, all’inizio del secolo XII, sotto la protezione della potente famiglia degli Anthen. Il manoscritto pergamaneceo contava originariamente 95 carte. Il testo dell’unico manoscritto si conserva nella Biblioteca Universitaria di Cagliari. La prima edizione, da parte di Enrico Besta è del 1937.

Il Condaghe di San Pietro di Silki è il registro patrimoniale del Monastero benedettino femminile di San Pietro di Silki, alla periferia dell’allora “villa” di Sassari, nel Giudicato di Torres. Il manoscritto pergamaneceo ci è pervenuto mutilo ed è composto da 443 schede, riferibili al periodo che va dalla prima metà del secolo XI alla prima metà del secolo XIII. Esso contiene oltre che gli atti riguardanti l’amministrazione del patrimonio del Monastero di San Pietro di Silki anche quelli riguardanti i Monasteri di San Quirico di Sauren (Condaghe di San Quirico- o San Imbiricu-  di Sauren, posto fra la scheda 289 e la scheda 314) e di Santa Maria di Codrongianus (Condaghe di Santa Maria di Codrongianus, posto fra la scheda 315 e la scheda 346), da esso dipendenti. All’origine, i documenti relativi a questi due monasteri dovevano essere contenuti in due registri autonomi: la fusione fu voluta dalla badessa di Silki Massimilla  Maximilla– nel corso del secolo XII.

Il Condaghe di San Michele di Salvennor o Salvenero contiene 130 schede, non ordinate cronologicamente riguardanti l’amministrazione e gli affari economici dell’antico monastero benedettino vallombrosano di San Michele di Salvennor nel Giudicato di Torres. Conservato nell’archivio di Stato di Cagliari è stato edito per la prima volta nel 1912 da Raffaele Di Tucci Mentre sul quarto Condaghe, quello di  Santa Maria di Bonarcado, ci intratterremo più avanti, dobbiamo ricordare che possediamo altri documenti, impropriamente chiamati « Condaghi » e che in realtà sono soprattutto delle cronache: Condaghe della SS Trinità di Saccargia, Condaghe di Sorres, Condaghe di Sant’Antioco di Bisarcio, Condaghe di Santa Maria di Tergu, Condaghe di San Gavino, Condaghe Cabrevadu.. Da segnalare infine il Condaghe di Santa Maria Chiara, codice cartaceo composto di 84 carte risalente agli anni 1498-1596, scritto in catalano e in sardo, conservato nell’Archivio del Monastero di Santa Chiara a Oristano di cui possediamo una bella edizione curata da Paolo Maninchedda.

 

Presentazione del testo [tratto da Il Condaghe di Santa Maria di Bonarcado, a cura di Maurizio Virdis, Ilisso editore, Nuoro 2003, pag.190 ]

Il registro del Condaghe di Santa Maria di Bonarcado contiene gli atti e le memorie relative  alla vita e all’amministrazione del monastero benedettino-camaldolese di Santa Maria di Bonarcado, la cui fondazione, da parte del giudice d’Arborea Costantino I, è da far risalire, probabilmente, al 1110. Del giudice Costantino I non sappiamo né quando successe al padre Gonnario di Lacon-Serra né per quanto tempo rimase sul trono giudicale di Oristano. Di lui la storia ricorda che donò, -oltre che il suddetto santuario di Santa Maria di Bonarcado ai Benedettini di Camaldoli, affiliati a San Zenone di Pisa- anche l’antica Chiesa di San Lussorio presso Fordongianus, ai Benedettini di San Vittore di Marsiglia.

Il manoscritto pergamenaceo del Condaghe di Bonarcado, redatto fra il 1120 e il 1146, contiene 95 carte numerate ma con ordine cronologico  sconvolto. Le registrazioni contenute abbracciano un arco cronologico che va dai primi decenni del secolo XII fino alla metà del secolo XIII. Scritto in sardo-arborense, nel condaghe troviamo però attestate diverse varianti (come Bonarcatu, Bonarcato o Bonarcanto) del toponimo Bonarcado, derivazione dal termine greco panàkhrantos (immacolata, purissima), l’attributo con cui si venerava la Vergine Maria nel santuario di Nostra Signora di Bonacattu originariamente sede monastica greca affidato poi ai frati Camaldolesi. Edito per la prima volta nel 1937 da Raimondo Carta-Raspi, ripubblicato più recentemente da Maurizio Virdis nel 1982, proviene dalla Biblioteca Guillot di Alghero.

Il testo che segue registra una donazione  di un terreno fatta  ai monaci del santuario di Bonarcado da parte del giudice di Arborea Barisone I. Figlio primogenito di Comita III de Lacon-Serra, sovrano del regno di Arborea, nel 1146 appena salito al trono convocò, in occasione della consacrazione della nuova Chiesa di santa Maria di Bonarcado, un Conferenza internazionale sarda per dicutere di pace. Risposero all’appello il legato pontificio, l’arcivescovo di Pisa, Villano, gli altri tre re-Giudici della Sardegna: Costantino-Salusio III di Cagliari, Gonnario di Torres e  Costantino III di Gallura oltre ai rappresentanti delle curatorie arborensi.

 

 

Barusone iudex

IN NOMINE DOMINI NOSTRI IHESU CHRISTI,

Amen.

EGO IUDICE Barusone de Serra potestando locu de Arborea fado custa carta pro saltu qui do a sancta Maria de Bonarcatu in sa sacratione dessa clesia nova, pro anima mea et de parentes meos daunde lo cognosco su regnu de Arbore; et pro dedimi Deus et sancta Maria vita et sanitate et filios bonos, ki potestent su regnum post varicatione mea. Dolli su saltu de Anglone, qui levo dave su regnu de Piscopio cun voluntate mea bona et de onnia fratre meum. Dollilu dave in co si segat dave s’ariola de clesia et falat via deretu assa + [cruke] ki est facta in issa petra suta su sueriu pares cun issu quercu de Mariane de Scanu et ergesi assu castru de Serra de Copios ubi est facta sa + [cnike] in issa petra. Et falat assu  flumen a bau de berbeges ube si amesturant appare sos flumenes. Cue si ferint a pare con issu saltu de clesia de Petra Pertusa.. Eco custu datu li faco ego iudice Brusone a Sancta Maria de Bonarcatu. Appantinde prode usque in seculum monagos qui ant servire in iss’  abbadia pro anima mea et de parentes meos: et de pastu et de aqua et de  glande et de aratorium castigandollu co et ateros saltos de regnum. Et non apat ausu non iudice, non curatore, non mandatore , non nullu maiore de regnum depus sa domo de Piscopio a kertarende et ne ad intrareve in icussu saltu a tuturu dessos monagos.

Testes: donnu Comita de Lacon archipiscobu d’Aristanes, donnu Paucapalea piscobu de sancta Iusta, donnu Alibrandinu piscobu de Terra alba, donnu Murrellu piscobu d’Usellos, donna Azu archiepiscopu de Turres, Donnu Mariane Thelle episcopu de Gisarclu in co ‘e furunt a sacrare sa clesia; et issos et populum quanto ibi fuit a sa sacratione sunt testes.

 

Traduzione

Barusone Iudex

In nomine Domini nostri Ihesu Christi. Amen.

Io giudice Barisone de Serra avendo in potere il regno d’Arborea redigo questa carta relativamente al salto che  dono a Santa Maria di Bonarcado in occasione della consacra­zione della chiesa nuova, per l’anima mia e dei miei genitori, dai quali ho ereditato il regno di Arborea; e perché Dio e Santa Maria mi hanno concesso vita e salute e figli buoni, i quali possano poi avere il potere sul regno dopo la mia mort­e. Dono (a Santa Maria di Bonarcado) il salto di Anglone, stralciandolo dal territorio appartenente al territorio demaniale di Piscopio col consenso mio e di tutti i miei fratelli. Lo dono come si ritaglia seguendo il confine dall’aia della chie­sa e scende lungo la via in direzione della + [croce] che è  posta sulla pietra sotto la sughera accanto alla quercia di Ma­riano de Scanu  e sale al sasso di Serra de Copios dove è po­sta la + [croce] sulla pietra. E cala al fiume verso il guado de berbeghes [pecore] alla confluenza dei fiumi. Che ivi si uniscono col salto della chiesa di Petra Pertusa. Questa donazione faccio dunque io giudice Barisone a Santa Maria di Bonarcado. Ne abbiano vantaggio perenne i monaci che serviranno presso l’abbadia per l’anima mia e dei miei genitori  e riguardo al pascolo e all’acqua e alla produzione ghian­difera e alle terre d’aratura prendendone cura a proprio van­taggio come si fa con ogni salto del demanio. E non osi né giudice né curatore, né procuratore, né alcun ufficiale preminente presso la casa di Piscopio muovere lite al riguardo né entrare in quel salto contro la volontà dei monaci.

Testi­moni: Donno Comita de Lacon arcivescovo di Oristano, don­no Paucapalea  vescovo di Santa Giusta, donno Alibrandino vescovo di Terralba, donno Murrellu vescovo di Usellus, donno Azo arcivescovo di Torres, donno Mariano Thelle vescovo di Bisarcio, presenti alla consacrazione della chiesa; ed essi e il popolo quanto vi era presente alla consacrazione sono testimoni.­

 

 

 

 

 

3° Lezione (2-11-2011)

 

Capitolo I:

 IL PERIODO DEI REGNI GIUDICALI (900-1409):

3. ELEONORA D’ARBOREA

La regina-giudicessa, ultimo baluardo dell’indipendenza della Sardegna (1340-1403)

Eleonora d’Arborea –Madona Elionor per gli AragonesI-  nasce probabilmente in Catalogna verso il 1340 da Mariano de Bas-Serra e da Timbra de Roccabertì. Aveva due fratelli: Ugone e Beatrice.

Vive i primi anni della sua adolescenza in Oristano. Quando nel 1340 muore il Giudice Pietro III senza lasciare discendenti, la Corona de Logu che comprendeva notabili, preti e  funzionari delle città e dei paesi, elegge il padre di Eleonora, Mariano IV, fratello del morto, che sarà Giudice dal dal 1347 al 1376.

Eleonora sposa, prima del 1376, il quarantenne Brancaleone Doria. Questo matrimonio fa parte di un disegno per legare gli Arborensi con i Doria, antiaragonesei e che controllavano una gran parte della Sardegna. Dopo il matrimonio va ad abitare a Castelsardo e ha due figli. Federico e Mariano.

Quando il fratello Ugone III si ammala si pone la questione della successione: Eleonora scrive al re d’Aragona chiedendogli di sostenere le ragioni del figlio Federico e non quelle del visconte de Narbona, vedovo della sorella Beatrice morta nel 1377.

Ma Ugone viene ucciso nel 1383, nel suo palazzo a Oristano.

In questo clima di crisi e conflitti, nel 1383 Leonora scrive al re chiedendogli di riconoscere il figlio Federico come successore di Ugone III. Nello stesso tempo manda il marito Brancaleone a trattare con il re e scrive alla regina chiedendole di intercedere presso il re a favore del figlio per poter porre così fine alla crisi che regna nell’Isola.

Il progetto di Eleonora era quello di riunificate nelle mani del figlio quei due terzi della Sardegna che Ugone prima di morire aveva occupato. Questo disegno non piaceva al re perché non gli conveniva la presenza di una famiglia tanto potente nel suo regno.

Brancaleone nel frattempo è trattenuto come prigioniero ma Eleonora, per niente intimorita, persegue nella sua politica: si reca a Oristano, punisce quelli che avevano organizzato congiure e tradimenti e si proclama regina-giudicessa d’Arborea, secondo l’antico diritto regio sardo che permetteva alle donne di poter diventare sovrane.

Dopo lunghe trattative viene liberato il marito Brancaleone il primo gennaio del 1390, in seguito alla pace stipulata nel 1388 fra Catalani, Aragonesi e la Casa d’Arborea. Eleonora però ricusa gli accordi “estorti malvagiamente e con grande tradimento e violenza”: quindi mobilita l’esercito al completo e in meno di sei mesi riconquista tutti i territori che gli accordi del 138l le avevano sottratto.

Nel 1392 il figlio Mariano compì quattordici anni e divenne re regnante (Mariano V Doria-Bas) secondo una nuova disposizione giudicale sul maggiorascato. Eleonora, al termine della sua reggenza, forse il 14 Aprile, giorno di Pasqua –sostiene Francesco Cesare Casula- rieditò con alcune modificazioni la Carta de Logu di Arborea, che rimane il suo lascito storico più importante. Morì di peste, forse a Oristano, nel Giugno del 1403.

 

 

Presentazione del testo [tratto da La Carta de Logu del regno d’Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, ed. Consiglio Nazionale della Ricerche- Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1994, pag.58-59]

 

La Carta de Logu, promulgata da Eleonora nel 1392 raccoglie leggi consuetudinarie di diritto civile, penale e rurale. Contiene un proemio e 198 capitoli: i primi 132 formano il Codice civile e penale gli altri 66 il Codice rurale, emanato dal padre Mariano IV, il padre di Eleonora..

In seguito alla sua promulgazione si inizia a chiamare la Sardegna «nacion sardesca» e la Carta «de sa republica sardisca» a significare che era espressione dell’intera Sardegna ma soprattutto che era una vera e propria Carta costituzionale nazionale.

La Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla per preservare la giustizia e in buono tranquillo e pacifico stato del popolo del suddetto nostro regno e delle chiese e dei diritti ecclesiastici e dei liberi e dei probiuomini e di tutta la gente della suddetta nostra terra e del regno di Arborea. Queste le finalità della Carta annunciate nel Proemio.

             Scritta in sardo-arborense è sicuramente il Codice legislativo più importante di tutto il medioevo sardo e non solo. Il re spagnolo Alfonso il Magnanimo –che ormai domina sulla Sardegna- l’apprezza a tal punto da estenderla nel 1421 a tutta l’Isola, in cui rimarrà in vigore per ben 400 anni, fino al 1827 quando sarà sostituita dal Codice Feliciano.

 

XXI CAPIDULU

De chi levarit per forza mygeri coyada.

 

Volemus ed ordinamus chi si alcun homini levarit per forza mugeri coyada, over alcun’attera femina, chi esserit jurada, o isponxellarit alcuna virgini per forza, e dessas dittas causas esserit legittimamenti binchidu, siat iuygadu chi paghit pro sa coyada liras chimbicentas; e si non pagat infra dies bindighi, de chi hat a esser juygadu, siat illi segad’uno pee pro moda ch’illu perdat. E pro sa bagadìa siat juygadu chi paghit liras ducentas, e siat ancu tenudu pro leva­rilla pro mugeri, si est senza maridu, e placchiat assa femina; e si nolla levat pro mugeri, siat ancu tentu pro coyarilla secundu sa condicioni dessa femina, ed issa qualidadi dess’homini. E si cussas caussas issu non podit fagheri a dies bindighi de chi hat a esser juygadu, seghintilli unu pee per modu ch’illu perdat. E pro sa virgini paghit sa simili pena; e si non hadi dae hui pagari, seghintilli unu pee, ut supra.

 

Traduzione

XXI
CAPITOLO VENTUNESIMO

Di chi violentasse una donna sposata.

 

Vogliamo ed ordiniamo che se un uomo violenta una donna maritata, o una qualsiasi sposa promessa, o una vergine, ed è dichiarato legittimamen­te colpevole, sia condannato a pagare per la donna sposata lire cinquecen­to; e se non paga entro quindici giorni dal giudizio gli sia amputato un piede. Per la nubile, sia condannato a pagare duecento lire e sia tenuto a sposarla, se è senza marito (=promesso sposo) e se piace alla donna. Se non la sposa (perché lei non è consenziente), sia tenuto a farla accasare (munendola di dote) secondo la condizione (sociale) della donna e la qua­lità (= il rango) dell’uomo. E se non è in grado di assolvere ai suddetti òneri entro quindici giorni dal giudizio, gli sia amputato un piede. Per la vergine, sia condannato a pagare la stessa cifra sennò gli sia amputato un piede come detto sopra.

 

Giudizio critico

Federigo Scoplis un magistrato piemontese autore della Storia della Legislazione italiana (la prima edizione è del 1844, la seconda del 1863) considerata da molti studiosi la prima significativa opera di sistesi sulla storia del diritto in Italia, scrive a proposito della Carta de Logu: “Sullo scorcio del secolo XIV si vide in una regione dell’Isola di Sardegna promulgarsi una legge che per la sapienza di molti precetti, che vi si racchiudono, ottenne non solamente di essere estesa a tutto il regno, ma ebbe di più il vanto di essere tenuta per segno di un perfezionamento sociale, del quale erano allora ancora lontane le più vaste contrade del continente italiano […]. La Carta de Logu contiene molte e particolari disposizioni, le quali a dire di un dotto giureconsulto sardo che la prese a illustrare, pressoché tutte convengono ai costumi dei Sardi dei nostri tempi”.

 [Federigo Sclopis, Storia della Legislazione italiana, vol.II, Unione tipografica editrice, Torino, 1963, pagg.189-190]

 

ANALIZZARE

Nel capitolo XXI si prevedono le pene contro chi violenta una donna sposata o una qualsiasi donnna promessa sposa o una vergine. L’interesse del capitolo è dato soprattutto dalla pena prevista per chi violenta una donna nubile: sia condannato –si ordina- a pagare duecento lire e sia tenuta a sposarla ma solo “se piace alla donna” e dunque se lei è consenziente. Si tratta come ognuno può notare di una posizione che potremmo definire di un “femminismo ante litteram”, epressione non a caso di un legislatore donna.

Ma non basta: nel caso che lei non sia consenziente, l’uomo violentatore è tenuto a farla accasare munendola di una dote secondo la condizione sociale della donna violentata e il rango dell’uomo violentatore.

Il testo è a dominanza prescrittiva: inizia nella forma canonica della prima persona del presente indicativo al plurale maiestatis, volemus e ordinamus (vogliamo e ordiniamo). L’autorità enunciante, fonte del potere normativo e quindi dell’esercizio della sovranità, regolamenta e condiziona l’azione futura dei destinatari del testo, realizzando appunto atti direttivi, dotati di forza illocutoria esplicita.

Alle formule performative introduttive, all’indicativo (vogliamo e ordiniamo) seguono le indicazioni normative espresse in genere con il congiuntivo (sia condannato). La struttura del testo è basata su una progettazione sintattica di breve respiro, frammentata in tre blocchi frasali, debolmente legati fra loro dalla semplice congiunzione «e»

La lingua sarda, nella variante arborense, è da collocare nell’area linguistico-culturale e nel periodo storico che ha prodotto la Carta. Si tratta di un sardo colto, che va visto nel quadro di una consapevole volontà politica dei Giudici di Arborea di presentarsi come interpreti e guide dell’intera “nazione” sarda.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

– La Magna Charta

In Europa, prima della Carta de Logu, la “costituzione” più famosa nel Medioevo è la Magna Charta, concessa nel 1215 da Giovanni senza terra agli inglesi.. Era destinata ai membri della Chiesa (arcivescovi, vescovi e abati), ai suoi funzionari (conti, baroni, visconti, ministri) e solo per ultimi, a tutti i  fedeli.

La verità è che quasi tutti gli articoli prevedono solo privilegi per gli Ordini più alti del regno e disposizioni per i funzionari pubblici ma non diritti alla popolazione.

 

– La legislazione sarda pre Carta de Logu

In Sardegna –come in Europa– vige a titolo di diritto comune, il diritto romano, recepito nell’Isola nel corso del 13° secolo, ma soprattutto quello consuetudinario: con usanze antichissime, tramandate di generazione in generazione e alcune custodite gelosamente fino ai nostri giorni.

Già nell’età post-nuragica, l’introduzione e l’applicazione in Sardegna del diritto romano non abolì del tutto il vecchio diritto indigeno, che anzi questo coesistette a fianco di quello, così da permettere per esempio che si continuasse lo sfruttamento comune delle terre, che verrà abolito soltanto con la Legge delle chiudende (1821) e con quelle successive.

Nei secoli che seguirono lo sfaldamento dell’impero, continuò ad avere vigore il diritto romano insieme con quello indigeno e dopo furono applicate in Sardegna anche le leggi bizantine, quantunque, a quanto pare, non siano rimaste di esse che poche tracce.

Scarsissime furono le tracce degli ottantanni di dominio vandalico (456-534) e nulle quelle degli arabi, che fecero nell’Isola soltanto brevi scorrerie.

Anche nel campo del diritto, un soffio innovatore si ebbe dopo il Mille, con la ripresa dei rapporti commerciali e politici fra la Sardegna e il continente e con l’evoluzione della vita sociale isolana. L’influsso di Pisa e di Genova, la popolazione immigrata dalla penisola, i monaci, i commercianti, i notai continentali portarono in Sardegna il diritto canonico e il diritto romano, rielaborato nelle università italiane, mentre le esigenze di governo e di amministrazione, nelle città e nelle zone rette da vicari e podestà pisani, imposero la necessità di leggi scritte, che servissero di guida e di norma per i magistrati.

 

1. Brevi regni Callari o Carta de Logu cagliaritana

Complesso di norme e di leggi raccolte da Pisa per il territorio (logu) comprendente i suoi domini nella Sardegna meridionale e per i Sardi abitanti in Cagliari. E’ andata perduta: la conosciamo grazie ai riferimenti che ad essa fanno altri Statuti. Raccoglie e codifica le antichissime consuetudini dei sardi: come la commutazione della pena pecuniaria in pena corporale o la responsabilità collettiva nella cattura del delinquente. Fu abrogata nel 1421 con l’estensione a tutta la Sardegna della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea.

 

2. Statuti di Sassari

Regolano la costituzione di Sassari in libero comune. Sono dovuti a Pisa e si ispirano al diritto pisano. Le pene sono stabilite con una severità feroce e non si fa distinzione fra dolo e colpa, per molti reati si stabilisce la mutilazione (taglio della mano, della lingua, perdita di uno o due occhi) e non è ammesso il riscatto con denaro, della pena corporale.

 

3. Legislazione dei Doria per Castelgenovese.

Lo statuto concesso a Castelgenovese dai Doria è l’unico esempio rimastoci di Statuto signorile in Sardegna. Molte disposizioni riguardavano l’agricoltura e l’allevamento del bestiame.

 

4. Breve di Villa di Chiesa.

Fatto sulla falsariga di quello pisano conteneva disposizioni riguardanti il diritto minerario civile e penale: le pene erano maggiori per le categorie sociali più elevate. Le norme del diritto minerario contengono termini tecnici tedeschi: ciò dimostra l’influsso del diritto minerario importato in Italia da minatori tedeschi.

 

5. Altri Statuti

Da allusioni e accenni contenuti in carte e documenti medievali sappiamo che anche Alghero, Bosa, La Gallura, Terranova, Domusnovas ed Orosei avevano propri statuti, ma di essi nulla ci rimane.

 

6. Legislazione arborense

Come in tutta la Sardegna, anche nel Giudicato d’Arborea fino al secolo XIII non esistevano leggi scritte. La vita sociale e l’amministrazione della giustizia erano regolate dal diritto consuetudinario:

 

Carta de Logu del Goceano

La prima raccolta di leggi fu fatta da Mariano IV prima che salisse al trono, per le popolazioni del Goceano e della Marmilla, di cui era signore. Non ne conosciamo il testo.

 

Codice rurale e Carta de Logu di Mariano IV.

Dello stesso Mariano IV conosciamo invece il Codice rurale in 28 capitoli, che fu poi incorporato nella Carta de Logu di Eleonora e sappiamo che anch’egli compilò una Carta de Logu della quale la Carta di Eleonora tenne conto, correggendola e adattandola alle nuove esigenze dei tempi: tanto che è difficile oggi distinguere –nella Carta de Logu che conosciamo – quanto si deve a Mariano e quanto a Eleonora. Che comunque riconosce al padre grandu sinnu e providimentu.

 

Le Ordinanze di Ugone III.

Meno famoso di Eleonora e di Mariano è Ugone III. Le sue Ordinanze in numero di 23 sono contenute nello Statuto di Sassari e riguardano il diritto civile e penale. Rispetto alle leggi precedenti si prevede che nessuno sfugga alla pena di morte dovuta per l’assassinio, mediante il pagamento di denaro (e pro dinari alcunu campari non pothat), si danno disposizioni più severe agli ufficiali di giustizia per la cattura dei delinquenti, si stabilisce una tariffa dei prezzi e delle prestazioni di lavoro, si disciplina il commercio.

Ugone stesso dice di avere emanato queste leggi ad vindicta et terrore dessos malefactores e non c’è da meravigliarsi quindi per la crudeltà delle pene corporali. Si può sfuggire ad esse (eccezion fatta per la pena di morte) mediante il pagamento di una somma di denaro.

 

Lettura. [testo tratto da La Carta de Logu del regno di Arborea, traduzione libera e commento storico di Francesco Cesare Casula, Ed. Consiglio nazionale delle ricerche-Istituto sui rapporti italo-iberici/Cagliari 1994, pag.40-41]

 

CAPITOLO VII

De omini chi esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over alcuna attera occasioni, pro sa quali deberit morri.

Constituimus ed ordinamus chi si alcunu esserit isbandidu dae sas Terras nostras pro homicidiu, over pro alcun’attesa occasioni pro sa quali deberit morti, e vennerit ad alcuna dessas villas nostras senza esser fidadu, e basadu per Nos, siant tenudos sos Jurados ed hominis de cussa villa de tennirillu e battirillu assa Corti nostra; e si nollu tennerint e battirint secundu chi est naradu de sopra, paghit sa villa manna assa Corti nostra pro sa negligencia issoru liras vintichimhi, ed issa villa piccinna liras bindighi, ed issu Mayori de cussa villa de per see liras deghi, e ciascuno Juradu liras chimbi. E ciò s’intendat si sos hominis de cussa tali villa illu ischírint. E si alcunu homini dessa ditta villa illu recivirit, e recettarit cussu tal’isbandidu palesimenti, o c fura, e darit illi consigiu, ajuda, o favori, s’illi est provadu, paghit assi Rennu liras centu. E si non pagat issu, o atter’homini pro see, istit in prexo­ni a voluntadi nostra, salvu si cussu isbandidu bennerit a domu dessa mugeri, over de su padri, o dessa mamma, o dess’aviu, ed avia, o dessu figiu, o figia, o dessu fradi, o dessa sorri carrali, chi cussas personas non siant tenu­das assa machicia dessas predittas liras centu in totu, nen in parti.

 

Traduzione

CAPITOLO VII

Di colui che fosse bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte.

Stabiliamo e ordiniamo che se qualcuno viene bandito dalle nostre terre per omicidio o altra causa passibile di pena di morte, e tornasse in qualche nostro villaggio senza un nostro permesso fiduciario per oscula (salvacondotto concesso con la cerimonia del bacio), i giurati e gli uomini di quel villaggio sono tenuti a catturarlo e a portarlo alla nostra Corte (di giustizia). Se non lo fanno, in villaggio grande (= da duecento nuclei familiari in su) dovrà pagare alla nostra corte (di giustizia) per questa negligenza una multa di venticinque lire, ed un villaggio piccolo (= da duecento nuclei familiari in giù) una multa di quindici lire; inoltre, il maiori de villa (= la massima autorità del villaggio) dovrà pagare di per sé dieci lire, mentre i giurati della villa (= villaggio, paese, in sardo odierno bidda) dovranno dare ciascuno cinque lire, ovviamente se gli abitanti della villa, erano a conoscenza della presenza del reo nel proprio villaggio. E se qualcuno lo avesse accolto e ricettato palesemente o di nascosto, e gli avesse prestato consiglio, aiuto o favori, se è provato paghi all’Erario regio cento lire. E se non paga, o se qualcuno non paga per lui, resti in prigione a nostra volontà. A meno che a dargli ricetta non sia stata la moglie, o il padre, o la madre, o il nonno, o la nonna, o il figlio, o la figlia, o il fratello, o la sorella carnale, perché costoro non sono tenuti a pagare in toto o in parte le cento lire di multa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4° Lezione (9-11-2011)

 

Capitolo II

LA DEFINITVA PERDITA DELL’INDIPENDENZA  E IL DOMINIOARAGONESE-CATALANO-SPAGNOLO

1. ANTONIO CANO

Il primo scrittore di un poema in lingua sarda(1400-1476/78)

Antonio Cano (o Canu) nasce a Sassari, sul finire del Trecento e muore verso il 1470: ma non conosciamo la data esatta né della nascita né della morte. Sappiamo però che dopo essere stato rettore nella villa di Giave, fu eletto abate nella prestigiosa abbazia di Saccargia dellOrdine Camaldolese e che, essendo figlio del barone di Osilo, nel 1420 pare sia stato nominato oratore di corte da Alfonso V il Magnanimo.

Nominato inoltre dal Papa Eugenio IV, dal Luglio del 1436 al 1448 fu vescovo della Diocesi di Bisarcio (oggi scomparsa) e dal 1448 al 1480  dellArchidiocesi di Sassari (un tempo di Torres).

Il 12 Marzo 1437 in qualità di vescovo indisse un sinodo nella Chiesa di Santa Maria di Ozieri: i cui Atti però sono andati perduti. Nel 1444, essendo deceduto labate Giovanni, della SS Trinità di Saccargia, chiese ed ottenne dal Papa lamministrazione spirituale e temporale del monastero.

La sua fama è legata soprattutto al poemetto in rima, Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto in Lingua sarda- logudorese, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato.

Fu però pubblicato molto più tardi, nel 1557: l’esemplare, conservato nella Biblioteca dell’Università di Cagliari e proveniente dal lascito Baylle, è l’unico che si conosca del poema. L’edizione reca, segnata a penna da mano più recente, l’attribuzione all’arcivescovo di Torres Antonio Cano: «Auctore Antonio Cano Archiepiscopo Turritano realisti». Confermerebbe tale attribuzione Giovanni Francesco Fara (1553-1591, arciprete del capitolo turritano, vescovo di Bosa e padre della storiografia sarda con le opere Chorographia Sardiniae e De rebus Sardois.

Certo è che il successo del poema dovette essere notevole se ancora dopo circa un secolo si sentì la necessità di pubblicarlo a stampa, in un periodo nel quale nella Sardegna del Cinquecento, la stampa di un libro –naturalmente se è sarda- doveva costituire un avvenimento abbastanza eccezionale. Per la notevole importanza filologica del testo, fu ristampato dalla Ditta G. Dessì di Cagliari nel 1912, in edizione critica del grande linguista tedesco Max Leopold Wagner.

Il poemetto, di argomento agiografico, è considerato la più antica opera letteraria in lingua sarda fino ad oggi conosciuta. Scrive a questo proposito Dino Manca, che nel 2002 ne ha curato una edizione critica per la CUEC editore di Cagliari: “Si tratterebbe del più antico testo fino a oggi ritrovato, con chiare e intenzionali finalità estetiche. Prima di quest’opera la lingua sarda non aderisce a una realtà letteraria autosufficiente, ma si tratta piuttosto di una produzione modellatasi sino all’età moderna prevalentemente attraverso una codificazione riferita vuoi al registro cancelleresco, vuoi a tipologie testuali di taglio legislativo (più generalmente regolativo) documentario e cronistico. L’esistenza di nuclei di «narratività», «diacronicità», drammatizzazione scenica e dialogica, dentro questi tessuti linguistici costruiti con finalità eteronome rispetto a quelle estetiche, non ci consentono di parlare di opere letterarie prima di questo poemetto”.

Il poemetto sarà la fonte principale dell’opera di Girolamo Araolla, il poeta trilingue e  “il ripulitore della lingua sarda”: Sa vida, su martiriu et morte dessos gloriosos martires Gavinu, Brothu et Gianuari.

 

Presentazione del testo ( i 12 versi che costituiscono la Protasi e i 25 versi iniziali del poemetto sono tratti dall’opera Sa vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavinu Prothu et Januariu di Antonio Cano a cura di Francesco Alziator, Cagliari Editrice sarda F.lli Fossataro, 1976, pagg.44-45) .

Il poema composto di 1081 versi, è preceduto da una breve proposizione o protasi, di dodici versi, con l’invocazione a Dio perché conceda all’Autore di portare a termine la narrazione del santo martirio dei cavalieri di Cristo, Gavino, Proto e Gianuario.

Per Francesco Alziator –che ne curerà un’edizione nel 1976- l’opera sarebbe, allo stato attuale degli studi, la più antica opera conosciuta, con valenza esclusivamente letteraria, in lingua sarda. Sempre a parere dell’Alziator, in sintonia con il Wagner per quanto attiene allo stile del poemetto “assai popolare”, il Cano sarebbe partito da un preesistente nucleo popolare –la leggenda agiografica di Gavino, Proto e Gianuario, decapitati a Turris Libisonis (Porto Torres) per ordine di Diocleziano e di Barbaro, praeses provinciae (presidente della provincia)- che avrebbe ingrandito, ripulito e interpolato, innestando nell’antico tronco più popolare, l’elemento dotto.

 

Protasi

O Deu eternu, sempre omnipotente,         

In s’aiudu meu ti piachat attender

Et1 dami gratia de poder acabare

Su sanctu2 martiriu in rima vulgare3

De sos sanctos martires tantu gloriosos

Et cavaleris de Cristus victoriosos 

Sanctu Gavinu Prothu e Januariu

Contra su demoniu nostru adversariu

Fortes defensores et bonos advocaos,

Qui in su paradisu sunt glorif icados

De sa corona de sanctu martiriu,

Cussos sempre siant in nostru adiutoriu.

                            Amen

 

 

Note

1.Et: la congiunzione «e» è scritta ancora alla latina, con la «t» finale.

2.Sanctu: ancora un latinismo

3.Vulgare:in lingua sarda

 

 

Traduzione

(O Dio eterno, sempre onnipotente, ti piaccia intervenire in mio aiuto e donarmi la grazia per poter finire in rima volgare, il santo martirio dei santi Martiri tanto gloriosi e cavalieri di Cristo vittoriosi, San Gavino, Proto e Gianuario.Contro il demonio nostro nemico, forti difensori e buoni avvocati, che sono glorificati in paradiso con la corona del santo martirio, intervengano sempre in nostro aiuto. Così sia)

 

 

La Persecuzione

In tempus qui regnaant sos imperadores

de sos cristianos grandes persecutores,

zo est Diocletianu et Maximianu1,

de sa incarnatione corriat s’annu

de su redentore dughentos novanta

sa quale persecutione fuyt tanta

et de totu sas ateras sa pius maiore

contande dae sa morte de su Salvadore

qui fini a icussu tempus esseret istada

contra cristianos sa quale est notada

in sas sanctas cronicas et durayt vinti

                                                  (annos

quantu vixint et regnaynt cussos roma­

                                                        [ nos

imperadores perfidos et inf ideles

sopra totu sos ateros multu crudeles,

pro quantu deliberaynt totalemente

fagher sa guerra a Cristus omnipotente

et2 leare de su mundu sa memoria

de Jesu Cristu ne queriant sa gloria..

Pro custu umpare si f uynt concordados

sos imperadores crudeles et danados

qui Maximianu quircaret su ponente

et Diocletianu totu su levante 

persequitande totue sos cristianos

cum mortes et cum martirios inhumanos…

[…]

 


Note

1.Dioclezianu et Massimianu : l’Autore si riferisce a Diocleziano imperatore romano (243-313) e Massimiano uno dei suoi migliori generali che si scelse per condividere la responsabilità di governo e che prima fu insignito anche della dignità di Cesare (metà 285) e poi (fine 285) del titolo di Augusto.

2.Mentre Massimiano aveva il governo delle regioni occidentali dell’Impero, Diocleziano, sebbene mantenesse la supremazia negli affari di stato, governava le regioni orientali, come  il Cano preciserà alla fine della protasi.

3.Et: la congiunzione «e» viene ancora scritta alla latine, con la «t» finale, che poi, col tempo si perderà.

 

Traduzione

(Nel tempo che regnavano gli imperatori Diocleziano e Massimiano, grandi persecutori dei cristiani, erano passati 290 anni dalla nascita del Redentore. La persecuzione contro i cristiani fu la più crudele e la più grande di tutte quelle attuate dalla morte del Salvatore in poi e come viene registrata nelle sante cronache durò 20 anni, quanto vissero e regnarono quelli imperatori romani perfidi e infedeli e più di tutti gli altri crudeli. Avevano deliberato di fare la guerra totale a Cristo onnipotente e di toglierne la memoria di Gesù Cristo dal mondo per cercare la loro gloria. Per questo i due imperatori crudeli e dannati si erano messi daccordo nel senso che a Massimiano spettasse il dominio sullOccidente e a Diocleziano sullOriente, perseguitando dovunque i cristiani con la morte e con martirii inumani)

 

Giudizi critici

Max Leopold Wagner, che ne curerà un’edizione, dà un giudizio molto severo sull’opera ma insieme spiega l’importanza di essa, scrivendo che : ”Il pregio poetico del lavoretto è certo assai scarso; sono per lo più versi ronchiosi e dinoccolati con molte rime insufficienti e il racconto è improntato a un’ingenuità che rasenta talvolta la goffaggine. Se ad onta di ciò abbiamo creduto utile pubblicare il poemetto del Cano, si è perché porge per vari rispetti un certo interesse. Trattandosi di uno dei primi libri di stampa sarda ed essendo una grande rarità bibliografica”.

[Max Leopold Wagner, Il martirio dei SS. Gavino, Proto e Januario, di Antonio Cano, Ed. G. Dessì, Cagliari 1912, pag. 4] 

Mentre Giovanni Spano definì il poemetto “una leggenda sacro-istorica di rima bissenaria accoppiata con misto di versi decasillabi, endecasillabi, martelliani, bisottonari, diciotto sillabe, di un misto di versi di 12 e 6 sillabe, talvolta con rimalmezzo”.

[Giovanni Spano, Ortografia sarda nazionale, Cagliari 1840, vol.2, pag.102, nota].

 

 

ANALIZZARE

 Dopo la protasi, con l’invocazione a Dio, che risulta semplice e modesta, quasi dimessa, si apre il poema con l’editto anticristiano di Diocleziano e Massimiano.

Particolarmente interessante è la definizione di “rima vulgare”che il Cano dà alla lingua del poema, ovvero alla lingua sarda, definizione che sembrerebbe denunciare una cultura e una conoscenza di problemi che appartenevano allora più all’ambiente italiano che non a quello ispanico nel quale cominciava già a gravitare la Sardegna del XV secolo. L’andamento di questa protasi, che in qualche modo può far pensare, anche se assai di lontano, a modelli italiani del Cinquecento, secondo qualche critico potrebbe essere stata aggiunta al momento della stampa nel 1557 dall’Editore, per uniformare l’opera del Cano alla moda dell’epica più corrente nel ‘500. 

 L’arcivescovo Cano è colto in storia e dunque non si lascia sfuggire l’occasione per dimostrarlo, specificando la data (nel 290) e la durata (vent’anni) delle persecuzioni volute dai due imperatori Maximianu e Diocletianu che rispettivamente quircant su ponente e su levante. E’ interessante l’uso del verbo quircare (o Kircare) che mantiene il valore giuridico come nella Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, nella quale Kircari sas domos –scrive Francesco Alziator nella edizione da lui curata- ha il preciso senso di “investigare, perquisire”.

Il suo poemetto, che si rifà al genere eroico della poesia popolare, presenta una costruzione sintattica ancora involuta e “risulta ancora stilisticamente ingenuo –scrive Raffa Garzia– privo di sveltezza e di movimento, anche per colpa della lingua dura spesso e scabra, non pervenuta ancora a quel grado estremo di sviluppo nella morfologia o nella fonetica che è necessario per il genere anzidetto. Parimenti il suo contenuto rivela un’animo popolare, semplice e rude […]. Sempre per Raffa Garzia –in questo d’accordo con Alziator- il poemetto sarebbe il più antico documento in lingua sarda e “quantunque in qualche frase o forma ritmica ci si senta l’eco della poesia religiosa catalana, dei goigs o gosos che hanno resistito al tempo e si cantano anche oggi immutati, il suo carattere riconduce al canto giullaresco della penisola

E’ comunque notevole il tentativo di elevare la lingua sarda a dignità letteraria, forse anche per esigenze di predicazione, come facevano del resto molti ecclesiastici.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

La storia e Il culto di San Gavino in Sardegna

San Gavino, venerato come santo dalla Chiesa cattolica, fu probabilmente un soldato romano vissuto al tempo dell’imperatore Diocleziano, martirizzato per la fede cristiana nel 304 nella città di Porto Torres su ordine del preside di Sardegna e Corsica di nome Barbaro.

Il suo culto in Sardegna è antichissimo ed è attestato in periodo bizantino nel 559. Il papa Gregorio Magno (540-604) ne fa un cenno in una delle sue lettere a un Monasterium sanctorum Gavini atque Luxuri (Monastero dei santi Gavino e Lussorio) governato da una badessa che si chiamava ugualmente Gavina. In epoca romanza, agli inizi degli stati giudicali nel X secolo, fu persino dato il suo nome al mese di Ottobre: che non a caso in sardo si chiama Santu Aine, in onore del Santo turritano  morto il 25 Ottobre del 300.

“La vicenda del martire turritano, legata indissolubilmente a quella degli altri due santi ai quali è sempre accompagnato, Proto sacerdote e Gianuario diacono, è narrata in due passio (passioni) di epoca  medievale..

La prima passio, risalente al XII secolo, è inserita nel più ampio racconto “Leggenda di san Saturno”, nella quale si trovano i racconti dei martiri sardi. Scritta a Cagliari da un monaco vittorino, espone in modo sobrio ed essenziale la passione dei tre santi:

« A Barbaro, che inviato preside in Corsica e Sardegna giunse in Turres e vi pubblicò gli editti imperiali contro i cristiani, vennero denunciati Proto, Gavino e Gianuario. Chiamatili al suo tribunale, il preside li interrogò: “Di che religione siete?” I santi martiri risposero: “Siamo cristiani e non riconosciamo altro dio che Cristo”. Il preside disse: “Avete udito gli ordini degli invittissimi principi Diocleziano e Massimiano, con cui comandano che chiunque non neghi di essere cristiano sia assoggettato ai tormenti, e in fine se non sacrifichi agli dei sia punito di morte?” I santi martiri risposero: “Li abbiamo uditi e non teniamo alcun conto del loro stolto comando”. Il preside disse: “Sacrificate agli dei prima che i tormenti vi strazino”. Risposero: “Non sacrifichiamo: fa quello che vuoi”. Vedendoli dunque il preside costanti e irremovibili, proferì contro di essi la sentenza, dicendo: “Poiché oltraggiano gli dei e non obbediscono ai sacri comandi degli imperatori siano puniti di morte”. Furono quindi condotti al luogo nel quale doveva compiersi la loro sorte e furono decapitati per il nome del Signor nostro Gesù Cristo.” .

Ben diversa la seconda “Passio”, la cui redazione è collocata dagli studiosi alla metà dell’XIII secolo. A differenza della prima, in questo testo prevale la figura del soldato Gavino, e numerosi sono gli elementi tipici dell’agiografiamedievale. Il racconto del martirio è distribuito in 9 letture, ma la passio vera e propria va dalla II all’VIII.

L’effettiva storicità di questa figura è oggetto di numerose discussioni, tuttavia quello che è certo è che il suo culto è profondamente radicato in tutta la Sardegna, tanto che al nome di Gavino sono state intitolate numerosissime chiese e un monastero (intitolato ai sanctorum Gavini atque Luzurii) citato già da papa Gregorio Magno nel 599.

La grande basilica romanica di Porto Torres a tre navate e due absidi, sorta intorno all’XI secolo su di un’area cimiteriale paleocristiana, è uno dei più notevoli monumenti dell’isola. Nella sua cripta sono conservate le reliquie dei martiri turritani, rinvenute nel 1614.

San Gavino è festeggiato solennemente a Porto Torres il lunedì dopo Pentecoste (la Festha Manna, la festa grande), mentre il 25 ottobre se ne celebra la sola festa liturgica. San Gavino si festeggia anche a San Gavino Monreale da cui prende il nome la città. San Gavino è il patrono di Gavoi e di Oniferi in provincia di Nuoro e si festeggia il 25 ottobre. San Gavino è anche il patrono del comune di Camposano, in provincia di Napoli.Il Martirologio Romano invece riporta come data commemorativa di San Gavino il 30 maggio.

[tratto da Internet: San Gavino-Wikipedia]

 

-La lingua del poemetto “Sa vtta…”

“La lingua del poemetto appartiene all’area nord-occidenta­le del logudorese, varietà eterogenea e composita del sardo. E’ un idioma diverso da quello antico dei Condaghi e dei documenti con veste cancelleresca delle origini; certamente più vario e permeato, nel contingente lessicale e nel patrimonio fonematico, di elementi allogeni. Un vero e proprio microcosmo babelico, con contaminazioni di tipo sincronico e diacronico, comunica attraverso questo importante documento di scrittura letteraria. Latinismi, italianismi e iberismi coesistono in un rapporto simbiotico col mutante elemento indigeno e con le sue strutture organizzative profonde. Il sardo è l’asse centrale che veicola gli altri codici e contiene in sé il fermento di tali mescidanze. Siffatta dinamica sussultoria rappresenta la ricchezza stessa del testo, in quanto valore connotativo di rilevanza culturale e stilistica e insieme specchio significativo di un’epoca. Flusso magmatico attraversato da istanze genetiche così stratificate e profonde, è certo il risultato di fenomeni differenti, di varia natura, la cui intelligibilità e chiarezza di ordine interpretativo richiedono capacità decifratorie, esegetiche ed ermeneutiche, incomprensibili al di fuori di un’ottica interdisciplinare. Per questo si è scelto di limitarsi, oltre che a definire gli irrinunciabili percorsi descrittivi e analitici, a proporre alcune coordinate di senso (testuali e contestuali) entro cui poter collocare l’opera in oggetto, per acclararne eventuali problemi” [Introduzione a Antonio Cano, Sa vitta et Morte, et passione de sanctu Gavinu, Prothu et Januariu, a cura di Dino Manca, Ed. Centro studi filologici sardi/Cuec, Cagliari 2002, pagg. CI-CII].

 

Il Governo della Provincia sarda in età imperiale e bizantina.

Inizialmente il governo della Sardegna –come Provincia imperiale- è esercitato dal procurator Augusti et praefectus ( procuratore e prefetto di Augusto) con distinzione di carica militare e civile, cui si affianca la magistratura del praeses (presidente). Sotto Aureliano (270-275) il Governatore si chiama soltanto praeses con poteri civili e militari, tale è il Barbarus di cui parla nel poemetto il Cano.

Anche sotto l’impero bizantino il Governatore della provincia bizantina della Sardegna si chiamerà praeses provinciae Sardiniae, istituito dall’imperatore Giustiniano nel 534. Dal secolo VIII  il praeses diventerà Judex (Giudice) e assommerà  funzioni civili e militari.

 

Lettura [testo tratto da Il Martirio dei SS Gavino, Proto e Januario di Antonio Canu a cura di Max Leopoldo Wagner, Tip. Ditta G. Dessì, Cagliari 1912, pag.32 ]

 

“Tando su rey barbaru tuto furiosu

stringhiat sos dentes que lupo rabiosu

665

chiamayt sos bochinos cum furia cridende

leademi daenanti custu de presente    

leadelu prestu portadelu a sa morte

posta qui at querfidu cussa tale sorte                                                                   

a custu inimigu de sos Imperadores

670

ligadeli sos manus comente traydore

a custu grande maco foras de rasone

non li dedes tempus nen pius dilatione   

non quergio qui apat pius tenpus ne vita

si no qui li seguedes como sa capita

675

& qui andet prestu comentu uno tristo

a fagher compagnia ad icussu cristu

su quale sos iudeos ant crucifixadu

& a multu virgungiosa morte condemnadu

& mortu qui siat de pena capitale

680

corpus & capita toto betade in mare

per modo qui pius non s’inde acatet canto

pro qui sos cristianos nó lu adorent pro sanctu […]

 

Traduzione

Allora il re barbaro tutto furioso

stringeva i denti qual lupo rabbioso

665

Chiamò i carnefici urlando furibondo

toglietemi di torno subito costui

prendetelo presto, conducetelo alla morte

poiché ha voluto questa sorte

a questo nemico degli Imperatori

670

legategli le mani come a un traditore

a questo pazzo fuori di senno

non dategli altro tempo né alcuna dilazione

non voglio che abbia altro tempo né vita

ma che gli mozzate ora stesso la testa

675

e vada presto, come un miserabile

a far compagnia a quel Cristo

che i Giudei hanno messo in croce

condannandolo a una morte così indegna

e muoia così di pena capitale 

680

buttate tutto nel mare, il corpo e la testa

in modo che non se ne trovi più neanche un pezzo

e i Cristiani non lo adorino come un Santo.

 

 

2. GIROLAMO ARAOLLA

Il poeta sardo trilingue che vuole “ripulire” la lingua sarda (1510 circa-fine secolo XVI)

Nato nel primo ventennio del secolo XVI, apparteneva a una nobile famiglia sassarese (un Francesco Araolla fu castellano di Torres nel 1531 e un altro Girolamo Araolla fu nel 1554 consigliere di Sassari). La prima data certa che troviamo per il poeta è il 1543-44, anni in cui fu Capo Giurato  (il Sindaco di oggi) di Sassari: carica che ricoprì anche nel 1548-49 e che potevano esercitare solo i cavalieri e i nobili, feudatari esclusi.

In seguito la famiglia cadde in disgrazia. Studiò Lettere e Filosofia poi si laureò in Diritto: certamente non in Sardegna, dove le Università non erano ancora state istituite. Quella di Cagliari nascerà infatti nel 1626 e quella di Sassari nel 1634. Probabilmente si adottorò a Pisa o a Bologna, dove ebbe come maestro Gavino Sambigucci. Suo amico fu in particolare lo storico Giovanni  Francesco Fara, vescovo della diocesi di Bosa e storico, considerato anzi dopo Sigismondo Arquer, il più antico storico e geografo isolano.

 Dopo una certa vita dissoluta abbracciò lo stato ecclesiastico, fu ordinato sacerdote e subito ottenne la nomina a canonico della cattedrale di Bosa il 18 Marzo del 1569 da parte del vescovo Antonio Cavaro (Pintor). Fu anche consultore dellInquisizione del regno di Sardegna ma ciò non gli impedì di usare la satira e pungere indisturbato i costumi del tempo. La tranquillità e l’agiatezza della nuova condizione gli permisero di coltivare gli studi poetici e storici. Scrisse pregevoli versi in Lingua sarda, italiana e spagnola.  Nel 1582 pubblicò il suo poema Sa vida, su martiriu, et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu et Gianuari, opera che si riallaccia a quella quattrocentesca di Antonio Cano, riadattando il vasto materiale della leggenda popolare sulla vita dei martiri turritani ad una costruzione narrativa più articolata. La sua morte viene collocata tra il 1595 e il 1615.

La sua opera, in ottava rima, sulla vita e il martirio dei santi turritani Proto, Gavino e Gianuario fu pubblicata per la prima volta a Cagliari nel 1582 e poi a Mondovì nel 1615. Il poema fu ben acconto per questi motivi: per l’argomento molto caro ai suoi concittadini e per il carattere religioso dell’opera ma soprattutto per aver usato la lingua sarda ovvero “l’obliato idioma patrio”: l’espressione è dello storico Francesco Sulis.

Oltre a questo poema scrisse Rimas diversas spirituales (Rime varie spirituali), in diversi metri, composte da canzoni, capitoli, epistole e sonetti, alcune scritte in lingua italiana e castigliana ma la maggior parte in lingua sarda.

Il suo programma è cambiato: non più un orizzonte tutto interno di nobilitazione del sardo e della Sardegna, ma un inserimento di quell’obiettivo nel contesto culturale dell’Italia e della Spagna. Araolla conosce la grande letteratura italiana, anche quella contemporanea; ha studiato, analizzato e riflettuto, riuscendo ed elaborare un programma acuto e moderno; a lui si deve la stesura del bando della nuova letteratura sarda.

 Pubblicate a Cagliari nel 1597, quelle che l’Araolla chiama figgias mias spirituales in diversos tempos e per varios accidents nasquidas, sono dedicate a Biagio de Alagon, primogenito di Artaldo di Alagon discendente degli Arborea. Invece le tre epistole, in terza rima, sono indirizzate ad Antonio Camos, al conte d’Elda vicerè di Spagna e a un anonimo. Vi sono descritti i vizi dei suoi tempi, la volubilità e l’ingiustizia della fortuna, la dolcezza delle lettere e la tranquillità della vita privata, Comunque l’opera più poetica è la visione dove immagina d’incontrare l’ombra del suo maestro Sambigucci e dei suoi compagni di studi con i quali intrattiene una piacevole conversazione.

 

 

Presentazione del testo [Sette ottave del poema Sa vida, su Martiriu et morte dessos gloriosos Martires Gavinu, Brothu e Gianuari  tratte da Il meglio della grande poesia in lingua sarda, a cura di Michelangelo Pira, Edizioni Della Torre, Cagliari 1975, pagg.23-24]

 

Il poemetto, che ha per argomento l’epopea dei santi, abbastanza innocua sia politicamente che culturalmente, è un’amplificazione e uno sviluppo di Sa  vitta et sa morte et passione de Sanctu Gavino, Prothu et Januariu, scritto dall’arcivescovo di Sassari Antonio Cano, probabilmente nel 1463, in occasione di un Concilio provinciale da lui stesso convocato e celebrato ma pubblicato molto più tardi nel 1557.

Sa Vitta del Cano è di 1081 versi, quella dell’Araolla invece è quasi il doppio, 244 stanze per circa 2000 versi. Ambedue raccontano la storia dei martiri di Torres Gavino, Brotu e Gianuario. Quella però di Araolla -scrive Michelangelo Pira- voleva essere più che un’operetta religiosa, un poema eroico, cioè la forma più alta di un’opera poetica così come la concepiva il nostro Cinquecento. I tre martiri infatti, protagonisti del poema ci vengono presentati più che come santi portatori ed espressione della fede cristiana, come eroici paladini di essa, esempi e paradigmi di fortezza e di coraggio: tres gloriosos advocados qui triunfant como in sa celeste corte (tre gloriosi avvocati che adesso trionfano nella corte celeste).

Il poema è scritto in sardo-logudorese, lingua e letteratura sarda che egli voleva elevare a dignità letteraria con chiari propositi nazionalisti, mischiandola a questo scopo con voci tratte dall’italiano e dallo spagnolo.

Ecco, a questo proposito, quanto scrive, testualmente, nell’introduzione al poema che funge anche da dedica all’arcivescovo di Sassari Don Alonso De Lorca : “Semper appisi desigiu, Illustrussimu segnore, de magnificare e arrichire  sa limba nostra sarda: de sa matessi manera qui sa naturale insoro tottu sas naciones de su mundu hant magnificadu et arrichidu; comente est de vider peri sos curiosos de cuddas. Et si bene d’issas matessi riccas et abundantes fuint algunas, non però hant lassadu de arrichirelas et magnificarelas pius cun vocabulos et epithetos foras d’issa limba non dissonantes de sa insoro, à tale qui usadas et exercitadas in sas scrituras sunt venidas in tanta sublimidade et perfezione arrichida s’una cun s’atera qui in pius finesa non podent pervennere, comente veros testimongios nos dimostrant sos iscrittos de sos eccellentes et famosos Poetas Italianos et Spagnolos” (Sempre desiderai Illustrissimo Signore, di magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, alla stessa maniera che tutte le nazioni del mondo hanno magnificato e arricchito la loro propria: come si può vedere dagli studiosi di queste. E nonostante alcune di esse fossero già ricche e copiose, non si tralasciò di arricchirle e magnificarle ancora più con vocaboli ed epiteti d’altre lingue ma da quelle non dissonanti: sì che esse adoperate e sveltite nelle scritture, sono ora giunte a tale sublimità e a tale perfezione con l’arricchirsi l’una con l’altra che non è possibile possano conquistare maggiore eleganza e chiara testimonianza ce ne forniscono gli scritti dei più eccellenti e famosi poeti italiani e spagnoli).

 Con l’opera oltre che magnificare e arricchire la nostra lingua sarda, vuole recuperare un tema nazional-religioso molto noto e diffuso, offrendo  alla fantasia dei suoi lettori l’immagine edificatrice e commovente della fede e della fortezza di Gavino, Proto e Gianuario, già personaggi leggendari. 

 

 

SA FIDE DE GIANUARI

 

1. Los agatant in logu in hue1 soliant

Viver, sempre in abstrattu contemplende

Sa ineffabile altesa, in hue sentiant

Immensa gloria cun Deus conversende:

Sa pena, su martiriu si queriant

Fuer, los potint mas issos bramende

Stant su puntu, s’hora, et sa giornada

Qui l’esseret per Christu morte dada.

 

2. Los imbarcant cun furia, et cuddos Santos,

Quale angione portadu a sacrificiu,

Cantende istant sos versos et sos cantos

Dessu2 devotu Re divinu officiu;

Non timent pena, morte, non ispantos,

Aspirende a’ cuddu altu benefficiu,

In hue pr’unu mortale suffrimentu

Eterna gloria, eternu est su contentu.

 

3. Brothu, su perfectissimu Oradore,

Et valente Theologu, vidende

Gianuari santu esser d’annos minore,

Et disse algunu tantu dubitende,

Qui pro carissia o pro qualqui terrore

Su Barbaru l’andaret isvoltende,

Lu exortat in sa barca, et dat consiggiu3

Sendeli babu, et mastru, et isse figgiu.

 

4. «Como ti s’hat a parrer, figgiu meu,

Si has Como esser constante, firmu et forte

A cuddu veru Trinu, et unu Deu,

Et sufferrer con gaudiu et pena, et morte:

Non ti spantet su visu horrendu, et feu

De custu Barbariscu, pro qui a sorte

Dizzosa, l’has a tenner a soffrire

Per Christu ogni trabagliu, ogni martire.

 

 

5.«Non piaguere, o riquesa transitoria

Qui solet ingannare assos ignaros,

Qui tenent cuddos pro contentu et gloria

Quales sunt sos carnales et avaros,

T’ingannet, no; ma sigui, qui vitoria

Ti s’aparizzat dessos donos raros;

Qui mai nexuno s’ind’est coronadu,

Si con affannos non l’hat conquistadu.

 

 

6. «S’istare in campo, et ponersi in bataglia,

Et posca assu prim’impeto fuire,

Pro qui non si li rompat carre o maglia,

Non podet sa vitoria conseguire:

Mas cuddu qui s’est fatu una muraglia,

Et non curat de colpos nen martire,

Cussu est veru Soldadu, et deffensore

Gelosu dessa Fide, et de s’honore»

 

7. Et cuddu qu’in su coro, intro sa mente

(Ancu qui fuit in juvenile etade)

Teniat depintu a s’altu Onnipotente,

De gracias fonte, et mare de bontade;

Pius firmu, pius constante, et permanente,

Qui non sa rocca a ventu, a tempestade,

In sa Fide istahiat senza suspettu,

Sende in terra nasquidu, in quelu elettu.

 

Note

1.Hue (dove): scritto con la h iniziale come anche hora, hat, horrendu e honore. Ma la  h è conservata anche dentro la parola come in : Theologu, Christu, istahiat.

2.Dessu (del), come in seguito assos (ai), dessos (dei), assu: scritti attaccati, invece di de su,  a sos, de sos, a su, come normalmente si scrivono oggi.

3.Consiggiu (consiglio) come in seguito figgiu (figlio) sono presenti anche nella Carta de Logu. Oggi si usano in una zona mediana della Sardegna, in campidanese si usa Fillu mentra in logudorese si dice Fizu. La Limba sarda Comuna, ufficializzata nel 2006 dalla Giunta regionale sarda, come Lingua burocratica della Pubblica Amministrazione regionale (in uscita) utilizza proprio figiu, consigiu, migia etc.

 

 

Traduzione:

LA FEDE DI GIANUARIO

1.Li trovano nel luogo dove erano soliti vivere, sempre a  contemplare in estasi l’ineffabile altitudine dove, conversando con Dio, sentivano l’immensa gloria: se avessero voluto sfuggire alla pena, al martirio, avrebbero potuto ma bramandolo sanno il punto, l’ora e la giornata in cui, per Cristo, sarebbe loro data la morte.

2. Li imbarcano con furia e quei santi, come agnelli portati al sacrificio, cantano i versi e i canti, divino ufficio del devoto Re. Non temono né pene né  morte, né paure ma aspirano a quell’alto beneficio dove in cambio della mortale sofferenza c’è l’eterna gloria e l’eterna felicità.

3. Proto, il perfettissimo oratore e valente teologo, vedendo Gianuario giovane d’anni e dubitando un po’ di lui che il Barbaro potesse, per difetto o per qualche paura, convincerlo, nella barca lo esorta e lo consiglia, essendogli babbo e maestro e lui invece figlio.

4.Ora si vedrà figlio mio se saprai essere costante fermo e forte in quel vero Dio, uno e trino, e saprai soffrire con gaudio pena e morte: non ti spaventi il viso orrendo e brutto di questo Barbaro, perché per una sorte fortunata soffrirai in nome di Cristo ogni tormento e ogni martirio.

5.Non piaceri o ricchezze futili, che sogliono ingannare gli ignari, che li reputano gioia e gloria, come sono carnali ed avari, non t’inganni, no; ma pensa che ti si prepari una vittoria di doni rari, di cui mai nessuno s’è incoronato se non li ha conquistati con sofferenze

6.Stare in campo ed entrare in battaglia e poi fuggire al primo assalto, perché non gli si rompa carne o maglia non può conseguire la vittoria: ma chi s’è costruito una muraglia e non gli importano i colpi né le ferite, quello è un vero Soldato e difensore geloso della Fede e dell’onore.

7.E quello che nel cuore, dentro la mente, (sebbene fosse in giovanile età) aveva dipinto l’alto Onnipotente, fonte di grazia e mare di bontà; più fermo, più costante e stabile di una roccia al vento e alla tempesta, abbarbicato alla fede, senza paura, lui nato in terra ma eletto al Cielo.

 

 

Giudizio critico

Scrive Raffa Garzia: “Se nel poema per l’indole narrativa e oggettiva il poeta non può indugiarsi a colorire le linee e a dar loro maggior risalto con accorgimenti di luci e d’ombre” […] nelle Rimas “la natura poetica dell’Araolla, scaturita e alimentata dall’inesausta vena popolare, s’è raffinata ed è sagace e accorta nello studio dell’arte: la spontanea tendenza s’è educata sulle pagine e sugli esempj dei maestri: da questi egli ha imparato la malizia di ricercare e di disporre gli effetti. Sì che le idee per se stesse non nuove, da questi traggono efficacia. Non è nuovo il paragone della vita umana con un viaggio: e neanche l’altro delle ombre della sera con quelle della vecchiaia, ma il poeta li colloca bene, a pari distanza, con piena rispondenza fra gli elementi fantastici e quelli reali”[…].

[Raffa Garzia, Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna 1914, pagg.209-210]

 

ANALIZZARE

L’Araolla lamentava che gli scrittori sardi del suo tempo andassero alla ricerca di altre lingue “forestiere” come l’italiano e lo spagnolo, per scrivere le loro opere, senza provare almeno a usare la lingua sarda che era invece a parere del poeta bella, ricca e armoniosa, capace quant’altre mai di progressivo “pulimento”. Con questo poema si proponeva di procedere a questo “pulimento”, purificazione e raffinamento. Per intanto ricorre alle ottave di tipo classico con le rime alternate (ABABAB) nei primi sei versi e la rima baciata nel distico finale (CC): a guisa dell’Ariosto e del Tasso, tanto per intenderci: poeta quest’ultimo che probabilmente conobbe in uno dei suoi viaggi in Italia.

 In secondo luogo, per quanto attiene al lessico conia nuovi vocaboli, altri li mutua dal latino, dall’italiano o dallo spagnolo. E anche quando utilizza il logudorese, spesso lo latinizza o lo italianizza.

Per quanto attiene al contenuto, pur rifacendosi alla trama e all’ordito del poema del Cano, lo sviluppa introducendo una serie di similitudini, di digressioni –spesso ispirate alla mitologia- che rischiano però di diventare verbose e inutili.

Nelle ottave riportate, è certamente presente la dimensione religiosa dei santi Gianuario e Proto, sempre contemplende sa ineffabile altesa, in hue sentiant immensa gloria cun Deus conversende (sempre a contemplare in estasi l’ineffabile altitudine, dove, conversando con Dio sentivano immensa la sua gloria); ma ancor più risalta il loro eroismo: non timent pena, morte, non ispantos (non temono pena, morte né paure). A significare che pur rimanendo un poema religioso, assume fortemente anche una dimensione epica, sulla scia della cultura rinascimentale di Ariosto e Tasso.

 

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

 

-L’Ottava nella poesia in lingua sarda ma soprattutto nella poesia estemporanea

In Italia l’ottava rima è il metro usato nei cantaritrecenteschi e nei poemetti del Boccaccio (Ninfale fiesolano, Filostrato,…); non è certo chi l’abbia inventato. Diventerà poi il metro di poeti popolari, come Antonio Pucci, e colti come Franco Sacchetti che lasceranno poi al Pulci, al Boiardo, all’Ariosto e al Tasso, di elevarla alle più alte cime. La popolarità dell’ottava riuscì in questo modo a sostituire la terzinadantesca. È ancora questo metro che sarà utilizzato dai poeti sardi estemporanei per i loro contrasti di improvvisazione fino ai nostri giorni.

In Sardegna l’Araolla nella sua opera Sa  vida, su martiriu e sa morte dessos gloriosos martires Gavinu, Prothu e Gianuari è il primo poeta sardo che nella scrittura codifica l’ottava, anzi per essere più precisi l’ottava serrada (l’ottava chiusa) formata da strofe di otto versi con tre distici (con rima alternata, schema ABABAB) più un distico di serrada come chiusura, (a rima baciata, schema CC).

Dopo l’Araolla la strofa di otto versi viene adottata sia dai poeti colti che da quelli popolari di tutta la Sardegna e in essa è espressa gran parte del patrimonio culturale sardo. Gran parte delle ottavas (ottave) sono composte interamente di versi endecasillabi, sul modello della poesia epica cavalleresca dei maggiori poeti italiani del Rinascimento (Ariosto, Tasso ecc.), ma in Sardegna raggiungono uno sviluppo del tutto originale tanto che, partendo appunto dal poeta sassarese del ‘500, si affermano come la struttura che maggiormente caratterizza la produzione poetica tradizionale dell’Isola, particolarmente nella composizione orale e scritta in lingua sarda-logudorese.

Soprattutto nell’oralità, nelle gare poetiche estemporanee, l’ottava venne affinata sia nel ritmo che nell’armonia  delle rime e nello stile letterario ad opera dei grandi improvvisatori. La tradizione logudorese riconosce in Gavinu Contini (1855-1915) e Antonio Cubeddu (1863-1955) i padri fondatori del moderno sistema estemporaneo dell’ottava seguito e perfezionato durante il ventesimo secolo da Remundu (Raimondo) Piras (Villanova Monteleone 1905-1978) -considerato il più grande poeta sardo improvvisatore- e da Peppe (Giuseppe) Sotgiu, (Bonorva 1914-vivente). I più noti e apprezzati poeti-cantadores ancora in attività sono Bernardo Zizi (Onifai), Mario Masala (Silanus), Bruno Agus (Gairo), Antonio Pazzola (Sennori) e il giovane Giuseppe Porcu (Irgoli).

 

 

Lettura [versi tratti dalle Rimas diversas spirituales,ora in Raffa Garzia, Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico emiliano, Bologna 1914, pag.220]

 

Comente podet esser cosa tale,

Si mai commertiu humanu connoschisi,

E senza cussu trattu naturale

Cuss’ obera in nessuna mai pius visi?

Ma si est prerogativa ispeçiale,

Segundu in sacras litteras leísi,

Ecco sa serva, in me si cumplat quanto

Naras, si digna so però de tantu.

 

Humile e bassa e piena de lugore

Restait narende : – in me su qu’ has contado

Fattasi – : e non 1′ unfiait tantu altu onore,

Tantu sublime e senza iguale istadu,

Gratias rendende a su Summu Fattore,

Qui serviressi d’ issa s’ est dignadu,

Maravigiada cust’ alma fidele

Differente de Sara e de Rachele.

 

Traduzione

Come può essere una cosa simile se mai ho conosciuto commercio umano, e senza quel tratto [fatto] naturale non vidi mai quest’opera [avvenire ciò] in nessuna? Ma se è una speciale prerogativa, secondo lessi nelle sacre lettere, ecco la serva: si compia pure in me quanto dici, se tuttavia di tanto son degna’. [Così] dicendo restò umile e china, piena di splendore: ‘Si faccia in me quel che mi hai detto; e non la gonfiò [un] onore tanto sublime, che non ebbe mai l’eguale, rendendo [nel ren­dere] grazie al Sommo Fattore che s’era degnato di servirsi d’essa, [anzi] maravigliata quest’anima fedele, diversa da Sara e da Rachele.

 

 

 

 

5° Lezione (25-11-2011)

 

Capitolo II

LA DEFINITVA PERDITA DELL’INDIPENDENZA  E IL DOMINIOARAGONESE-CATALANO-SPAGNOLO

3. SIGISMONDO ARQUER

Lo scrittore vittima dell’Inquisizione  e condannato al rogo in Spagna (1530-1571)

Sigismondo Arquer nasce a Cagliari nel 1530, studia teologia e legge nell’università di Pisa dove nel maggio del 1547 consegue la laurea in Diritto civile e canonico, mentre nell’università di Siena si laurea in Teologia. Tornato in Sardegna diviene avvocato del fisco a Cagliari. Nel settembre del 1548 lascia di nuovo l’Isola per recarsi presso il re Carlo I (Carlo V imperatore) a Bruxelles, a perorare la causa della sua famiglia alla quale erano stati posti sotto sequestro i beni.

   Durante un breve soggiorno a Basilea, su invito di Sebastian Münster, geografo, cartografo e di fede luterana presso il quale era ospite, scrive una monografia sulla Sardegna Sardiniae brevis historia et descriptio, cui era allegata una carta dell’isola e una veduta di Cagliari (Tabula corographica insulae ac metropolis illustrata), che viene inserita nella Cosmografia scritta dallo stesso Münster. La parte composta dall’Arquer  fu pubblicata nell’edizione del 1550, ma la stesura più nota in Italia è quella del 1558, riportata nelle Antiquitates Italicae Medii Evi di Ludovico Muratori. Il libro dell’Arquer sulla Sardegna fu inserito anche da Domenico Simon, insigne giurista e letterato algherese del secolo XVIII, nel suo Rerum Sardoarum Scxiptores, stampato a Torino nel 1778.

  Sulla figura dell’Arquer scrissero, tra gli altri, anche gli storici sardi Pasquale Tola, Pietro Martini e Giuseppe Manno. La Breve storia della Sardegna, rappresenta  la più antica descrizione dello stato e dei problemi dell’Isola in cui l’Arquer traccia anche un ritratto censorio del corrotto clero del tempo. La descrizione che egli presenta della condizione dei religiosi cagliaritani dell’epoca non è diversa da quella che espose nel 1562 l’Arci­vescovo Antonio Parragues de Castillejo, ma per tale censura l’Arquer incorse nelle ire dell’Inquisizione spagnola, è accusato di luteranesimo e incarcerato a Toledo nello stesso anno 1562. Riesce ad evadere, ma non può uscire dalla Spagna perché vengono inviate a tutte le frontiere le indicazioni sulla sua persona, per cui è imprigionato una seconda vol­ta.

L’Arquer sostiene appassionatamente la sua innocenza ed in carcere scrive un’autodifesa  in  lingua castigliana, la Passione. Il poema –che segna l’inizio della drammaturgia religiosa in Sardegna- si compone di 45 strofe, ognuna delle quali comprende dieci versi ottosillabi con rima assonante mista, ossia baciata e alternata. Il manoscritto del poema sulla Passione fu rinvenuto nel 1953 fra le carte del processo a carico di Arquer presso “l’Archvio Historico Nacional” di Madrid da Francesco Loddo e Alberto Boscolo, studiosi di storia sarda, durante un loro viaggio nella capitale spagnola, che lo pubblicarono nel volume XXIV dell’Archivio storico sardo. Nel poema l’Arquer esalta la passione di Gesù Cristo così simile alla sua, ma i suoi nemici cagliaritani, tra i quali vi erano gli Aymerich e gli Zapata, intrigheranno contro di lui raccogliendo prove tali da accelerarne la fine. Egli sosterrà sempre la propria innocenza ed anzi si dichiarerà martire della vera fede, schernendo quegli stessi ministri del culto che lo esortavano al pentimento. Per questo, durante il terribile “auto da fé” (l’espressione deriva dal portoghese e significa atto della fede), ossia la proclamazione pubblica della sentenza, lo si metterà alla sbarra prima che venisse addossato al palo, ed i carnefici vedendo che non solo non si pentiva ma che anzi esaltava il suo martirio, lo trafiggeranno con le lance e lo getteranno poi nel rogo degli eretici. Così morirà nel il 4 Giugno del 1571 a Toledo, dopo sette anni e otto mesi di detenzione.

La sua figura “assai complessa e conflittiva e di dimensione europea” –la definisce Marcello Maria Cocco, studioso dell’Arquer- e la sua opera, ignorata dagli scrittori sardi contemporanei e pressoché sconosciuta fino alla metà del ‘700, quando ne parlerà Ludovico Muratori-  verrà riscoperta e riproposta nell’800 con un triplice atteggiamento nei suoi confronti: di compassione per la sua tragica fine; di indispettita disapprovazione per le sue critiche impietose formulate nella Sardiniae brevis istoria; di ammirazione per la incisività e la concisione della sua prosa ma soprattutto per il sacrificio della sua vita che segna il trionfo della libertà di coscienza.

Lo storico Dionigi Scano, autore dello studio più ampio sull’Arquer, sostiene che il luteranesimo non fu che un pretesto di cui si servì la classe nobiliare cagliaritana per disfarsi di un terribile avversario. E sarebbe dunque la Cagliari della prima metà del ‘500, con i suoi odi e le lotte intestine a segnare la fine drammatica di Sigismondo Arquer.

 

Presentazione del testo [tratto dal cap. VII dell’opera  Sardiniae brevis historia et descriptio, testi, traduzione e note a cura di Cenza Thermes, Ed. Gianni Trois, Cagliari 1987, pag.30].

L’opera scritta da Sigismondo durante il soggiorno basileense dal 21 Aprile al 5 Giugno del 1549, è un brevissimo saggio di 12 pagine articolato in sette paragrafi, redatto in un latino di rara  raffinatezza, chiaro, semplice ed elegante. Si tratta di un’opera informativa più che storica da cui emerge un agile ritratto della Sardegna del tempo, corredato da buone illustrazioni quali la carta dell’Isola, la riproduzione del muflone e la pianta schematica di Cagliari.

Poche pagine ma fitte di notizie, spesso di prima mano, di giudizi critici su alcune credenze superstiziose, di indagini sui problemi della lingua dei sardi, che confronta con il catalano e il latino, portando ad esempio una trascrizione del Pater Noster in queste tre lingue.

Particolarmente interessanti il quadro che offre della fauna della Sardegna, le informazioni sulle terme, sulle miniere, sulle saline. Più discutibili invece le brevi note sulle antiche vicende storiche che si rifanno alle fonti classiche, che affondano abbondantemente le loro radici nelle leggende e nei miti. Non manca un accenno alla validità e bontà della Carta de Logu di Eleonora d’Arborea, la Costituzione della Sardegna in vigore dal 1392 e nel capitolo VII, un quadro, riportato nel testo, che riguarda le magistrature, le condizioni della religione, della cultura, della morale in genere nonché delle condizioni economiche che si riflettono nell’uso del vestiario più o meno di lusso.

Il “librillo” –così lo chiama l’autore- è privo di organicità e anche piuttosto frammentario tanto che l’Arquer, conscio dell’incompletezza, ci fa sapere che nutre il proposito di scrivere una più completa storia dei Sardi, “Si dominus requiem e ocium dederit” (Se il Signore ci darà pace e tempo libero). Pace e tempo libero che purtroppo gli mancarono. In ogni caso La qualità intrinseca dell’opera, unita al prestigio della collocazione nella quale apparve, fanno della Sardiniae brevis historia et descriptio una pietra miliare nel panorama delle lettere isolane, anche perché si tratta dell’archetipo di una serie di scritti del genere letterario storico-descrittivo, destinato ad affermarsi con i secoli nella cultura isolana.

 

DE MAGISTRATIBUS, INCOLARUM NATURA, MORIBUS, LEGIBUS ET RELIGIONE

 “[…] Ecclesiastici magistratus in Sardinia sunt constituti iuxta papae decreta. Nam sunt in ea tres archiepiscopi, nempe Calaritanus, Arborensis et Turritanensis seu Sassarensis, qui et nonnullos sub se habent episcopos. Est quoque ibi inquisitor generalis contra haereticos, apostatas et maleficos, secundum Hispaniae mores et constitutiones, ultra ea quae iure communi Imperato­rum et pontificum inquisitoribus sunt concessa. Habet iste immensa privilegia, nec quenquam praeter Hispa­niae supremum inquisitorem, cuius est delegatus, agno­scit superiorem in Sardinia. Constituit ipse quoque sub se alios inquisitores et ministros, quorum omnium iudex ipse est, qui tanta severitate contra suspectos procedunt, ut paucis verbis exprimi nequeat. Nam miseros homines multis annis in carcere detinent, examinant et torquent priusquam eos vel damnent vel absolvant. Habent autem de his rebus libros impressos, ut Malleum malefica­rum, Directorium inquisitorum et nonnullos alios, item instructiones secretas et multa alia quae ex ipsorum pendent arbitrio.

Habent praeterea Sardi et Cruciatae commissarium, qui nullum praeter Romanum pontificem agnoscit superio­rem, etc.

Caeterum quantum attinet ad mores et naturam Sardo­rum, noveris eos esse corpore robustos, agrestes et laboribus assuetos, praeter paucos luxui deditos: literarum studio parum sunt intenti, venationi autem deditissimi sunt. Multi pecuariam faciunt rem, agresti cibo et .aqua contenti. Qui in oppidi et villis habitant, pacifice inter se

vivunt, advenas amant, et humaniter tractant. Vivunt in diem, vilissimoque vestiuntur panno. Bella nulla ha­bent, neque multa arma. Et quod mirandum est, nullum habent artificem in tam ampia insula, qui enses, pugio­nes et alia fabricet arma, sed haec petunt ex Hispania et Italia. Utuntur plerunque balistis, maxime in vena­tionibus. Et si quando piratae, Turcae aut Afri illuc veniunt praedam abacturi, facile a Sardis in fugam vertuntur aut captivi detinentur. Sunt Sardi optimi equites, sunt ob solis ardorem subfusci coloris, vivunt bene secundum legem naturae, optime victuri, si sin­ceros haberent verbi Dei praecones.

Cum rustici diem fe­stum alicuius sancti celebrant, audita missa in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, prophana cantant, choreas viri cum foeminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant, magnaque laetitia in honorem sancti vescuntur carnibus illis. Sunt etiam multi qui pecus aliquod saginant in hono­rem certi alicuius sancti, ut illud in fano eius potissimum in sylvis extructo, et festa die devorent. Et si familia minor fuerit ad esum pecoris, convocant et alios ad con­vivium illud quod in fano celebrant, ne quid residui maneat. Foeminae rusticorum valde honestae sunt in vestitu, omnem escludentes pompam at urbanae di­vitiis abundantes, abutuntur illis in magnam super­biam.

Sacerdotes indoctissimi sunt, ut raros inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concubinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris”.

 

Nota

1.Sull’Inquisizione in Sardegna, Raffa Garzia –in Gerolamo Araolla, Stabilimento poligrafico italiano, Bologna 1914, pag.24-25- scrive : “Non è da dubitare della parola dello storico cagliaritano; eppoi sappiamo effettivamente di atti di tortura e di autos da fè in Sassari…ma merita attenzione il fatto che cioè non ci sia giunto notizia di efferatezze; abbiamo pur saputo dall’Arquer: perché non d’altri? E si badi: che il rogo per questi fu acceso a Toledo: pare che egli sia stato tratto in Ispagna con inganno, nonostante che le accuse venissero fatte nell’Isola e che qui si compisse anche l’istruttoria; ciò mi fa credere che gli Spagnuoli si astenessero prudentemente nell’isola da quelli atti di feroce fanatismo che han reso tristamente celebri i nomi del Torquemada, dello Ximenes Cisneros, del Valdès e di tanti altri”.

 

Traduzione

MAGISTRATURE, NATURA DEGLI ABITANTI, LORO COSTUME, LEGGI E RELIGIONE

 […] Le cariche ecclesiastiche in Sardegna sono regolate secondo i decreti del Papa. Infatti vi si trovano tre arci­vescovi, a Cagliari, Arborea e Torres o Sassari, i quali hanno sotto di sé alcuni vescovi. Vi è pure un inqui­sitore generale contro gli eretici, gli apostati e gli stregoni, come av­viene in Spagna, al quale sono con­cessi altri diritti, oltre quelli che, per norma generale voluta dai re e dai papi, sono concessi agli altri inqui­sitori. Gode di grandissimi privilegi e non ha sopra di sé nessuno all’in­fuori del supremo inquisitore di Spa­gna, del quale è delegato. Nessuno in Sardegna può contare più di lui. Egli, per suo conto, nomina, come suoi dipendenti, altri inquisitori e funzionari, dei quali è giudice; co­storo agiscono contro chi è sospet­tato, con tanta durezza che non è possibile accennarne solo con poche parole. Infatti, tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici, e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli. Hanno an­che, per esercitare le loro funzioni, dei libri, come il Malleum malefica­rum, il Directorium inquisitorum e alcuni altri volumi. Inoltre hanno del­le istruzioni segrete e molte altre disposizioni che interpretano secondo il loro personale giudizio. I Sardi hanno anche un Commissarium Crociatae1, che non ha alcun superiore, oltre il pontefice, ecc. Infine, per quanto riguarda i costumi e la natura dei Sardi, dirò che essi son robusti, per lo più rudi e avvez­zi alla fatica, all’infuori di pochi che si abbandonano al lusso; son poco dediti allo studio delle lettere, men­tre amano moltissimo la caccia. Mol­ti sono pastori e a loro bastano cibo agreste e acqua. Quelli che abitano nei borghi e nei villaggi, vivono tran­quilli e sono ospitali e gentili; vivo­no alla giornata e vanno vestiti di poverissimo panno; non conoscono guerra ed hanno anche poche armi; ciò che è ancora più straordinario è il fatto che, in un’isola così vasta, non vi è chi fabbrichi spade, pugnali e altre armi; ma queste vengono dalla Spagna e dall’Italia. I Sardi si servono invece di frecce, soprattutto quando vanno a caccia. Ma se tal­volta sbarcano nell’isola, per far pre­da, pirati turchi o africani, vengono subito volti in fuga dai Sardi o son fatti prigionieri.

Gli isolani son ottimi cavalieri e di colorito bruno a causa del sole ar­dente; vivono onestamente, secondo le leggi di natura, e meglio vivreb­bero se avessero degli onesti pre­dicatori della parola di Dio.

Quando i contadini celebrano qual­che festa, dopo la Messa, per tutto il resto della giornata e della notte ballano -uomini e donne- dentro la chiesa del Santo, cantando canzoni profane; inoltre uccidono maiali, montoni e buoi e mangiano allegra­mente di queste carni in onore del Santo. Vi sono anche di quelli che ingrassano qualche maiale in onore di un santo, per poterlo poi mangiare durante la festa, spesso in una chie­sina costruita fra i boschi. E se la famiglia non è tanto numerosa da poter consumare tutta quella carne, perché non ne avanzi, invitano altre persone al banchetto che si fa den­tro la chiesa stessa. Le donne cam­pagnole sono modestissime nel ve­stire che non ostenta lussi; ma le signore delle città, che son ricchis­sime, abusano del fasto e del lusso, ostentandoli superbamente. I sacer­doti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne tra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e si danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura.

 

Nota

1. Con bolla della crociata, ottenuta dalla Spagna ed estesa alla Sardegna. Si trattava di un funzionario che si occupava della raccolta dei fondi per la lotta contro gli infedeli, che venivano però adibiti anche ad altri usi.

 

 

Giudizi critici

Scrive Pietro Martini a proposito dell’opera Sardiniae brevis historiae dell’Arquer, denominato storico, letterato e uomo illustre: “Egli è vero che questa scrittura è molto leggiera e si limita a poche pagine: pure è degna di ricordo per la ragione specialmente che è il più antico lavoro sulle cose di Sardegna di cui si abbia memoria”.

[Biografia sarda di Pietro Martini, Ed. Reale stamperia, Cagliari 1837, pag.69].

Mentre per un altro storico sardo, Pasquale Tola, “L’Arquer è esattissimo nella descrizione delle produzioni naturali della Sardegna: ma in tutto il libro fa un ritratto così misero dei costumi sardi, che sembra il censore anziché il narratore delle cose della sua patria”.

[Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna di Pasquale Tola, Ed. Chirio e Mina, Torino 1836738, pag. 92].

 

ANALIZZARE

Nel passo che si riporta, particolarmente inquisite furono le parole rivolte al clero sardo, parole che le indagini storiografiche moderne hanno confermato essere veritiere non solo per il clero isolano, ovvero che  “Sacerdotes indoctissimi sunt, ut rarus inter eos, sicut et apud monachos, inveniatur, qui latinam intelligat linguam. Habent suas concunbinas, maioremque dant operam procreandis filiis quam legendis libris » (I Sacerdoti sono ignorantissimi al punto che è raro trovarne fra essi, come tra i monaci, uno che conosca il latino. Vivono con le loro concubine e di danno con più impegno a mettere al mondo figli che a dedicarsi alla lettura).

Ma sono altrettanto dure le parole con cui denuncia gli inquisitori che “tengono in carcere per molti anni dei poveri infelici e li interrogano e li sottopongono a torture prima di decidere se devono condannarli o assolverli”.

Nello stigmatizzare il clero ignorante e lascivo come nel denunciare, con atteggiamento critico, la violenza inquisitrice, l’Arquer fa sua la critica tardo medievale alla condizione ecclesiastica ed è partecipe del patrimonio ideale della nuova fede, forse acquisito nell’ambiente pisano ove, durante l’Università, il giovane studioso si era intellettualmente formato.

Proprio negli anni universitari (1544-1547) Sigismondo frequentando ambienti religiosi eterodossi entrò in contatto con quella cultura tutta italiana, che dopo aver subito il fascino del luteranesimo elaborò una sensibilità e una dottrina religiosa fondata sulla profonda interiorizzazione  e sulla libera interpretazione delle sacre Scritture, secondo una “sapientia” che non tollerava pregiudizi né dogmi nel suo procedere verso una “pietas” intesa come perfezione spirituale: Savonarola, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Calvino, Valdés influenzarono grandemente lo “spiritualismo italiano” di quel periodo e lo stesso Arquer.

Il compendio è scritto in latino, la lingua scritta che gli era più congeniale. E la prosa risulta, nella sua classicità, sintetica, nuda,  robusta ed essenziale.

 

FLASH DI STORIA-CIVILTA’

Arquer plurilinguista

L’Arquer usava un latino di rara raffinatezza, chiaro, conciso, semplice ed elegante: tacitiano insomma. Conosceva bene, oltre che il latino, il sardo, il castigliano e l’italiano, come dimostrano le sue Lettere a Gaspar Centelles e le Coplas a l’imagen del Crucifixo, (Strofe a immagine di Cristo, contenute nella Passione), composte durante la prigionia a cui fu sottoposto durante il lunghissimo processo per eresia.

Arquer scrive però solo in latino, in italiano e in castigliano, non ci sono pervenute invece testimonianze scritte nelle sue due lingue madri ovvero in catalano e in sardo, (tranne, in quest’ultima lingua, che il  Babbu nostru “Padre nostro” contenuto nella Descriptio Sardiniae). Tuttavia dichiara che tutti i processi era solito redigerli in catalano “la lingua de mi tierra” (la lingua della mia terra).

La lingua scritta che gli era più congeniale era però certamente il latino, il compendio Sardiniae brevis historiae infatti è sempre stato ammirato per la classicità della sua prosa, che risulta –come abbiamo già detto- sintetica, nuda robusta ed essenziale.

Sulla lingua sarda scrive che: corrupta fuit multum lingua eorum, relictis (ne rimase corrotta poiché nell’Isola sopraggiunsero diversi popoli) etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant ( ma i Sardi fra loro si intendono ugualmente bene).

Aggiunge specificando che nell’Isola due sono le lingue principali che si parlano: una è quella usata nelle città, l’altra è quella usata fuori di essa. Infatti nelle città si parla quasi dovunque la lingua spagnola, tarragonese o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando, gli altri mantengono intatta la lingua sarda.

I catalanismi e gli ispanismi presenti nel sardo sono numerosi e riguardano la vita sociale, l’amministrazione dello stato, i cerimoniali religiosi, le arti e i mestieri, la vita quotidiana, l’abbigliamento, la gastronomia, l’oggettistica, la nomenclatura delle piante, la medicina e più in generale i modi di dire e quindi, almeno in certa misura, i modi di pensare. Si può conclusivamente affermare con Wagner che l’elemento catalano spagnolo è, naturalmente dopo il latino, di gran lunga il più importante del sardo. 

– Il multilinguismo nella Sardegna del ‘500/’600

Sigismondo Arquer rappresenta emblematicamente ed esprime il multilinguismo presente in Sardegna nel ‘500/’600: occorre infatti ricordare che insieme all’Arquer nel Cinquecento in Sardegna scrittori come Antonio Lo Frasso, Girolamo Araolla, Pietro Delitala, utilizzano con intenti letterari una o più lingue delle almeno quattro comunemente usate. “I destinatari– scrive Nicola Tanda sono evidentemente diversi. Scrive in sardo chi intende comunicare con un lettore intermediario che lo possa mettere in comunicazione con un pubblico di parlanti sardo, di solito il clero che ha saputo stabilire un’immedesimazione con le popolazioni parlandone la lingua. Lo spagnolo e l’italiano mettono in comunicazione con ambiti di cultura più allargati e consentono un colloquio più stretto e privilegiato con le istituzioni e con il potere”.

Arquer conosce il sardo e il catalano –che apprende in famiglia, da ricordare che l’Arquer era di origine spagnola- l’italiano che apprende e approfondisce a Pisa, il castigliano che impara in seguito, durante la lunga permanenza a corte in Spagna. Essa è la lingua ufficiale scritta, insieme al Latino, quest’ultima  specie all’interno della Chiesa.

Ha dunque due lingue madri: il catalano e il sardo, appartenenti alla sfera dell’oralità, mentre il latino, italiano e castigliano vengono impiegati nella scrittura, con una diversità di funzioni: il castigliano che utilizzerà per scrivere “Passione” e altre brevi preghiere, finirà col diventare “la lingua para hablar con Dios” (la lingua per parlare con Dio), come diceva Carlo V; mentre il latino, che utilizzerà nell’Historia, sarà la lingua scritta che gli è più congeniale.

 

Letture

1. De Sardorum lingua [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 29]

“Habuerunt quidem Sardi olim linguam propriam; sed quum diversi populi immigraverint in Insulam atque ab exteris principibus eius imperium usurpatum fuerit, nempe Latinis, Pisanis, Genuensibus, Hispanis et Afris, corrupta fuit multum lingua eorum, relictis, tamen plurimis vocabulis; quae in nullo inveniuntur idiomate. Latini sermonis aduc multa tenet vocabula, praesertim in Barbariae montibus, ubi Romani Imperatores militum habebant praesidia, ut L.ij.C. de officio praefecti prae. Afric.

 Hinc est quod Sardi in diversis locis tam diverse loquuntur,  iuxta quod tam varium

habuerunt imperium; etiamsi ipsi mutuo sese recte intelligant. Sunt autem duae praecipuae in ea Insula linguae, una. qua utuntur in civitatibus, et altera qua extra civitates.

Oppidani loquuntur fere lingua Hispanica, Tarraconensi seu Catalana, quam. didicerunt ab Hispanis, qui plerumque magistratum in eisdem gerunt civitatibus: alii vero genuinam retinent Sardorum linguam, Eu habes utrìusque linguae discrimen in domenica oratione”.

Traduzione

La lingua dei Sardi

Un tempo i Sardi ebbero una lingua propria, ma poiché nell’isola soprag­giunsero diversi popoli e la terra sarda fu dominio di signorie stra­niere, come quelle dei Latini, dei Pisani, dei Genovesi, degli Ispanici e degli Africani, la lingua ne rimase corrotta, sebbene tuttora vi si tro­vino moltissimi vocaboli che non e­sistono in nessun’altra lingua. Ci re­stano molte parole latine, soprattut­to nei monti della Barbagia, dove gli imperatori romani stanziarono i loro presidi, come è detto nel libro II C. De officio prae. Afric.

Da quanto ho detto precedentemen­te, ne è derivato il fatto che i Sardi, nei diversi luoghi, parlano lingue tan­to diverse, a seconda dei dominato­ri; ma fra di loro si intendono bene.

Nell’isola, due sono le lingue prin­cipali: una è quella usata nelle cit­tà, l’altra è quella usata fuori di esse. Infatti, nelle città si parla quasi do­vunque la lingua spagnola, tarrago­nense o catalana, che gli abitanti hanno appreso dagli Spagnoli, che quasi sempre vi tengono i posti di comando; gli altri mantengono intatta la lingua sarda. Ecco, dunque, un esempio dell’una e dell’altra lingua, in una preghiera rivolta al Signo­re.

2. Il Padre nostro trilingue: in latino, catalano e sardo [testo tratto da Sardiniae brevis istoria et descriptio di Sigsmondo Arquer a cura di Cenza Thermes, Gianni Trois editore, Cagliari 1987, pag. 41]

Pater noster qui es in coelis sanc­tificetur nomen tuum. Adveniat

Pare nostre che ses en los cels sia santificat lo nom teu. Venga

Babu nostru sughale ses in sos che­ius santu siada su nomine tuo. Ben­giad

regnum tuum, fiat voluntas tua sicut in coelo et in terra:

lo regne teu, fasase la voluntat tua axicom en lo cel i en la terra:

su rennu tuo, faciadsi sa voluntade tua comenti in chelo et in sa terra:

Panem nostrum quotidianum da nobis hodie, et dimitte nobis

lo pa nostre cotidià dona a nosaltres hui, i dexia a nosaltres

su pane nostru dogniedie dona a no­sateros hoae, et lassa a nosateros

debita nostra, sicut et nos dimittimus debitoribus nostris, et ne

los deutes nostres, axicom i nosal­tres dexiàm als deutors nostres, i no

is debitus nostrus, comente e nosa­teros lassaos a is debitores nostrus, e no

inducas in tentationem, sed libera nos a malo, quia tuum est

nos induescas en la tentatio, mas livra nos del mal perché teu es

nos portis in sa tentatione, impero libera nos de su male, poiteu tuo esti

regnum, gloria et imperium, in secula seculorum amen.

lo regne, la gloria i lo imperii en los sigles de les sigles, amen.

Su rennu, sa gloria e su imperiu in sos seculos de sos seculos, amen.

 

 

 

UNIVERSITA’ Terza Età di Quartu Sant’Elena

29-11-2011

 

6° Lezione  (29-11-2011)

 

Capitolo II

LA DEFINITVA PERDITA DELL’INDIPENDENZA  E IL DOMINIOARAGONESE-CATALANO-SPAGNOLO

 

4. GIOVANNI MATTEO GARIPA

Il più grande scrittore in lingua sarda del secolo XVII  (1575/1585-1640)

Giovanni Matteo Garipa nasce a Orgosolo (Nu) forse tra il 1575 e il 1585. Non conosciamo l’anno esatto della nascita perché il registro dei battezzati del paese barbaricino parte solo dal 1632. Sappiamo però che era figlio di Bernardino Garipa e Giovanna Fois e che il 2 Maggio del 1598 era stato promosso “alla prima tonsura” nella Chiesa parrocchiale orgolese di San Pietro da Monsignor Francisco Del Vall, arcivescovo di Cagliari, durante la visita pastorale. Di tale visita ci è stato tramandato un decreto con le istruzioni valide per tutte le parrocchie.

Di interesse particolare risulta l’ordine impartito a tutti i preti di continuare a insegnare la dottrina cristiana in Lingua sarda durante la messa e l’utilizzo di un Catechismo, ugualmente in sardo, per insegnare la dottrina cristiana ai bambini, la domenica sera in Chiesa. Dopo gli studi di Filosofia e Teologia morale nelle scuole pubbliche di Sassari, abbracciò lo stato ecclesiastico, ci riferisce lo storico sardo Pasquale Tola. Dal 1613 sarà Curato a Perdasdefogu, quindi Rettore a Baunei e Triei, paesi dell’Ogliastra.

Nel 1627 pubblica a Roma –con il famoso tipografo Ludovico Grignano- su Legendariu de Santas Virgines et Martires de Jesu Cristu (Il Leggendario delle Sante Vergini e  Martiri di Gesù Cristo). Lo scrittore nel frontale del libro avverte che ha tradotto racconti di Sante Vergini e di Martiri dall’Italiano in Sardo pro s’utile dessos devotos dessa natione sua (per l’utilità dei fedeli della sua nazione) e dichiara la sua origine orgolese.

Il libro è dedicato assas honestas et virtuosas Iuenes de Baonei & Triei in sa Isula de Sardigna (alle oneste e virtuose giovani di Baunei e di Triei) alle quali Iuan Mattheu Garipa sos eternos benes deijat (alle quali Giovanni Matteo Garipa augura il bene eterno).

Le ragioni della dedica sono nobili ed affettuose ma anche materiali: pro risponder in parte assa obbligazione, qui bos tenjo, pusti mandigo su pane vostru (per rispondere in parte all’obbligo che avevo per voi ma anche perché mi date da vivere). Da ciò possiamo sicuramente dedurre che le sue parrocchiane di Baunei e Triei continuavano a contribuire per il suo sostentamento a Roma, forse con le degumas (le decime), non essendovi ancora, allora, l’obbligo della residenza nelle parrocchie.

Solo Clemente XIV il 21 Settmbre del 1769 abolirà il cumulo delle cariche ecclesiastiche imponendo ai parroci di scegliere una sola parrocchia.

Non sappiamo quale fosse l’attività e il ruolo di Garipa a Roma né alcuna informazione –scrive il maggiore studioso dell’opera di Garipa, Pasquale Zucca.- si trova nell’Archivio del Sant’Uffizio e in quello del Vicariato.

Garipa nel suo Prolugu assu deotu letore (prologo al devoto lettore) inizia con queste parole: sendemi vennidu a manos in custa Corte Romana unu libru in limba italiana… (avendo per le mani un libro in lingua italiana, in questa Corte Romana…). Da ciò possiamo arguire che abitasse nella Curia papale.

Pur essendo il più grande scrittore in lingua sarda del XVII, la sua opera  nei secoli ha interessato poco i critici, pare che non lo conoscesse neppure il tedesco Max Leopod Wagner, considerato uno dei massimi studiosi e conoscitori del sardo. Eppure molti motivi avrebbero dovuto spingere gli studiosi a conoscere e valorizzare il Garipa, ma soprattutto due:

1.la tesi del sacerdote orgolese, oggi quanto mai attuale, della necessità dell’insegnamento della lingua sarda –definita “limba latina sarda”– come prerequisito per il corretto apprendimento, da parte degli studenti, anche delle altre lingue;

2.la sua convinzione che fosse urgente dotare la Sardegna di una tradizione letteraria «nazionale» sarda, ossia, come si direbbe oggi, di una lingua letteraria uniformemente usata in tutto il territorio dell’isola e sorretta da un repertorio di testi in grado di competere con quelli delle altre lingue europee.

Muore il 3 Gennaio 1640.

 

Presentazione del testo [il passo è tratto dal Prologo indirizzato Assu deuotu letore (al devoto lettore) dell’opera Legendariu de Santas Virgines, et Martires de Iesu Crhistu, Ed. Ludovico Grignano, Roma 1627, ora ripubblicata dalla casa editrice Papiros di Nuoro nel 1998 con l’introduzione di Diego Corraine e la presentazione di Heinz Jürgen Wolf  e Pasquale Zucca, Pagg. 59-60]

 

Il Leggendario, consta di 42 vite di Santi e di Martiri, appartenenti ai primi tre secoli con qualche profilo più recente (Santa Clara e Santa Francisca, vidua romana-Santa Francesca, vedova romana). Esso si basa sopra un’opera anonima italiana “Leggendario delle santissime vergini”, ma attinse anche dai Leggendari di Antonio Gallonio (1556-1605) e di Alonso de Villegas (1553-1603).

Occorre ricordare che il termine italiano “leggenda” deriva dal latino “legenda” ovvero storie di fatti edificanti e di vite di santi, con elementi meravigliosi e fantastici da “leggere” appunto per la Festa del Santo. Uno dei grandi modelli medievali fu la Legenda Aurea di Iacopo da Varazze

 Il prologo “assu deuotu Letore” (al devoto lettore) inizia proprio citando lo scritto anonimo su cui si basa la sua traduzione. Dal confronto fra i due testi –italiano e sardo- risulta chiara la dipendenza della traduzione di Garipa dall’anonimo italiano. Ma non si tratta di una semplice traduzione. Per intanto il Garipa dispone le vite dei Santi e delle Sante secondo il calendario del martirologio stabilito dal Concilio di Trento, ordine che non era tenuto a seguire l’anonimo italiano in quanto scritto prima del Concilio; in secondo luogo semplifica molto il testo italiano dal punto di vista stilistico, morfosintattico e lessicale. Inoltre –oltre che il Prologo dedicato ai Lettori- aggiunge le vite di ben altri 15 Santi.

Nella traduzione il Garipa utilizza la Lingua sarda nella variante logudorese, ma non quello settentrionale, come aveva fatto Girolamo Araolla, ma un logudorese di tipo centrale.

 

PROLOGV

ASSU DEUOTU LETORE.

“Sendemi vennidu à manos in custa Corte Romana1 vnu Libru in limba Italiana2, nouamente istampadu3, sibenes segundu naran est meda antigu; hue si contenen sas Vidas de algunas Santas Virgines, martires,& penitentes; & acatandelu cun sa letura, qui fuit piu, deuotu; & deletosu, pensesi tenner pro bene impleadu, & honestu su traballu, qui dia leare si lu voltao in limba Sarda pro dare noticia de cuddas assos deuotos dessa patria mia4 disijosos de tales legendas: persuadendemi de dare guítu, & satisfacione, assos qui non intenden limbas istragnas5, non si poden passijare, recreare, e leare gustu in sos ispaciosos prados, & fioridas enas dessos libros Latinos, Italianos, & Ispagnolos; pusti sas Damas, & noblesa Romana si deletan de lu leger in mesu de ateros infinitos libros, qui tenen vtiles, & curiosos; proqui legendelu confido si den deletare6, & delletandesi, si den afficionare à siguire sas heroicas virtudes7, & gloriosas impresas de Santas tantu nobiles, claras, & illustres (…).

Las apo voltadas in Sardu menjus, qui non in atera limba pro amore8 dessu vulgu (corrente apo naradu supra) qui non tenjan bisonju de interprete pro bilas declarare, & tambene pro esser sa limba Sarda tantu bona9, quantu participat dessa Latina, qui nexuna de quantas limbas si platican est tantu parente assa Latina formale quantu sa Sarda10, pro tenner sa majore parte dessos vocabulos vsuales, & quotidianos dessos quales si seruit, ò latinos veros, e formales, ò latinos corruptos11 cun sa differencia specifica qui la differenciat de totas sas ateras. Pro su quale si sa limba Italiana si preciat tantu de bona, & tenet su primu logu inter totas sas limbas vulgares pro esser meda imitatore dessa Latina, non si diat preciare minus sa limba Sarda pusti (XIII) non solu est parente dessa Latina, pero ancora sa majore parte est latina vera comente sa isperiencia lu mostrat (à benes qui cun sa mala pronunciatione, e malu iscrier12, sos naturales la apan fata barbara, e qui siat tenta pro tale dessos furisteris) Et quando cussu non esseret, est sufficiente motiuu pro iscrier in Sardu, vider, qui totas sas nationes iscrien, & istampan libros in sas proprias limbas naturales in soro13, preciandesi de tenner historias, & materias morales iscritas in limba vulgare, pro qui totus si potan de cuddas aprofetare14. Et pusti sa limba latina Sarda est clara & intelligibile (iscrita, & pronunciada comente conuenit15) tantu & plus qui non quale si querjat dessas vulgares, pusti sos Italianos, & Ispagnolos, & totu cuddos, qui tenen platica de latinu la intenden medianamente16: non dian tenner, a parre miu, prite si retirare sos qui queren ajudare assos naturales, assas limbas istragnas pro imparare assos furisteres, tenende plus obligacione de ajudare assos frades, qui non assos angenos. Et si in Sardigna mostraren sos mastros sa gramatica in sardu assos istudiantes, sensa duda bi diat aer in Sardigna degue voltas plus Latinos, qui non bi at como cun su Ispagnolu. Disijande eduncas eo ponner in platica su iscrier in Sardu pro utile de sos, qui non sun platicos in ateras limbas, presento assos Sardos compatriotas mios custu Libru de Vidas, & Historias de Santas dessas plus amadas, & dessas qui plus tenen intrada in su conspetu diuinu; sas quales legende si den afficionare à issas” […]

Traduzione

PROLOGO. AL DEVOTO LETTORE

Essendomi capitato fra le mani in questa Corte Romana un libro scritto in lingua italiana, ristampato, che si dice, sia molto antico e contiene le Vite di alcune Sante Vergini, martiri e penitenti; e avendolo trovato, nella lettura, pio, devoto e piacevole, penso di spendere bene il mio tempo  dedicandomi a questo onesto lavoro di tradurlo in lingua Sarda alle persone devote della mia  patria, desiderose di conoscere tali leggende: persuaso come sono di offrire un aiuto e una soddisfazione a quelli che non comprendono le lingue straniere e che non si possono deliziare, ricreare e provare gusto.

Frequentando i pascoli piacevoli e le aie fiorite delle opere latine, italiane e spagnole; inoltre le Dame e la nobiltà Romana potranno dilettarsi a leggere il libro, fra gli altri infiniti libri che ritengono utili e interessanti; per questo spero che leggendolo possano dilettarsi e dilettandosi possano affezionarsi nell’imitare le eroiche virtù e le gloriose imprese di Sante così nobili, famose e illustri […] Le ho tradotte in Sardo, piuttosto che non in un’altra lingua per amore del popolo (come ho già detto sopra) in modo che non avessero bisogno di un interprete  per spiegarle e anche perché la lingua Sarda è degna di un tale uso perché partecipa della lingua Latina, perché nessuna delle lingue che si utilizzano è così vicina alla lingua Latina quanto quella Sarda, giacché con essa condivide la maggior parte dei vocaboli usuali e quotidiani di cui si serve o propriamente latini o latini corrotti secondo le specificità che la differenziano da tutte le altre lingue. Perciò se la lingua Italiana si pregia di essere tanto eccellente occupando il primo posto rispetto a tutte le lingue volgari, per essere molto simile alla Latina, non di meno si deve valutare la lingua Sarda perché non solo è parente della lingua Latina, ma perché nella sostanza è Latina come l’uso dimostra (benché i sardi, con la cattiva pronunzia e scrittura, l’abbiano resa barbara e tale è considerata dai forestieri). E se ciò non bastasse, è motivo sufficiente per scrivere in Sardo il notare che tutte le nazioni scrivono e stampano i libri nelle loro lingue naturali, pregiandosi di avere storie e opere morali scritte nella loro lingua volgare, in modo che tutti ne possano trarre giovamento. E poiché la lingua latino-Sarda è chiara e intelligibile (se scritta e pronunciata come si deve) più di quanto si creda rispetto alle altre lingue volgari, gli Italiani e gli Spagnoli e tutti quelli che hanno familiarità con il latino, la comprendono sufficientemente: per cui a parer mio, quanti vogliono aiutare i Sardi non dovrebbero insegnare le lingue straniere per agevolare gli stranieri, ma anzi dovrebbero sentire maggiormente il dovere di agevolare i fratelli sardi e non i forestieri. E se in Sardegna i maestri insegnassero agli studenti la grammatica in lingua sarda, senza dubbio vi sarebbero latinisti in numero dieci volte superiore di quanti ve ne siano in questo momento, in cui la si insegna a partire dalla lingua Spagnola. Desiderando dunque utilizzare nella scrittura il sardo, per l’utilità di quelli che non conoscono altre lingue, presento ai sardi miei compatrioti questo libro sulle Vite e le Storie delle Sante tra le più amate e che hanno un maggior influsso al cospetto di Dio; leggendo le quali ci si affezionerà ad esse […] .

 

ANALIZZARE

Nel Prologo l’Autore spiega il perché della traduzione in Lingua sarda di un testo in Lingua italiana: tutte le nazioni scrivono e stampano i libri nelle proprie lingue naturali (ovvero materne) e dunque  anche la Sardegna –in quanto nazione- deve scrivere i suoi libri in Sardo.

Una lingua che -secondo il Garipa- occorre certo arricchire e affinare, ma non è inferiore alle altre lingue neolatine. Anzi, proprio perché è la più vicina al latino è degna di essere utilizzata: nexuna de quantas limbas si platican est tantu parente assa latina formale quantu sa Sarda” (perché nessuna delle lingue che si utilizzano è così vicina al latino quanto quella sarda).

Essa inoltre è clara e intelligibile (chiara e intelligibile), naturalmente se iscrita e pronunciada comente convenit (se scritta e pronunciata come si deve). Non solo: l’uso della della Lingua sarda servirebbe persino per apprendere meglio il Latino: di qui l’auspicio perché i maestri insegnino la grammatica latina in Lingua sarda: senza dubbio –scrive il Garipa- vi sarebbero in Sardegna latinisti in numero dieci volte superiore di quanti ve ne fossero allora in Sardegna, utilizzando lo spagnolo.

Dal punto di vista linguistico occorre considerare la traduzione del Leggendario un’operazione da laboratorio, finalizzata a restaurare una Lingua latina sarda più antica, per cui il Garipa tenta di purificare la Lingua sarda sia sul versante fonetico che lessicale per farla rassomigliare il più possibile al Latino, evitando persino il patrimonio lessicale popolare perché considerato “corrotto”. Dal punto di vista sintattico invece cerca di farla rassomigliare

 

all’Italiano: per esempio anteponendo l’aggettivo al sostantivo (malu caminu–cattiva strada-; veru Deu–Dio vero-) quando invece nella sintassi sarda l’aggettivo è posposto al sostantivo: caminu malu; Deu veru.

Giudizio critico

Scrive Giovanni Pirodda :”Il dato più interessante nell’opera, oltre alla padronanza letteraria non comune della Lingua sarda, è la consapevolezza, espressa da Garipa nell’Introduzione, del suo carattere nazionale e dei risultati che si otterrebbero se nelle scuole si partisse dalla Lingua madre nell’insegnamento del latino”. [Givanni Pirodda, Letteratura delle regioni d’Italia-Storia e testi-SARDEGNA, Ed. La Scuola, Brescia 1992, pag.120].

Mentre per Salvatore Tola “La scelta del sardo nasce da una motivazione pratica –la necessità di farsi capire da chi intende solo questa lingua- ma trova poi anche una giustificazione teorica –potremmo dire “politica” e “nazionalitaria”- nel richiamo alla sua dignità e validità –misura nel confronto  col latino- e al diritto che anche i sardi hanno, come tutti gli altri popoli, di impiegare il proprio linguaggio”. [Salvatore Tola, La Letteratura in lingua sarda, Testi, Autori, Vicende, , CUEC ed. Cagliari 2006, pag.67].

 

FLASH DI STORIA CIVILTA’

-Il nazionalismo linguistico nel ‘500

La tesi centrale del Garipa è che la Lingua sarda è la lingua della nazione sarda, come l’Italiano, lo Spagnolo, il Tedesco, il Francese e ogni altra lingua delle nazioni d’Europa che scrivono e parlano la loro lingua “naturale”. Da questa tesi nasce l’obbligo per ogni scrittore di imparare e utilizzare la lingua materna della propria nazione, per i Sardi la Lingua sarda.

La tesi del Garipa si muove nella direzione del nazionalismo linguistico che tende ad affermarsi in quel periodo storico. La Monarchia francese con Luigi XII nel 1512 aveva imposto l’uso del Francese nei processi penali e Francesco I nel 1539, con l’Editto di Villiers-Gotteretz  aveva imposto a tutti, come lingua ufficiale dello stato, la lingua della corte di Parigi, parlata allora solo dall’èlite politica (reprimendo in questo modo le lingue nazionali come il Catalano, il Basco, il Bretone, l’Occitano, parlate dentro i confini dello stato francese)

In Germania, la riforma protestante aveva rotto l’unità culturale dell’Europa, fondata linguisticamente sulla base latino-cristiana. Martin Lutero infatti, con la traduzione della Bibbia in Tedesco, rompe con l’universalismo del cristianesimo romano-latino fondando la fede sopra un soggettivismo mistico germanico: la Rivelazione infatti –secondo Lutero- può essere compresa dal popolo tedesco solo con la lingua nativa tedesca.

-La Lingua sarda e la Chiesa

La Lingua sarda, dal ‘400 in poi con l’affermarsi del Catalano e del Castigliano, sarà sempre più costretta e limitata a contesti propri dell’oralità: fanno eccezione gli ambiti della cultura e della religiosità popolare. Ecco a tal proposito cosa scrive il linguista tedesco Wagner: “La lingua sarda dei documenti antichi è una lingua protocollare, che per la sua stessa natura non ha pretese artistiche di nessuna specie e le traduzioni sarde che accompagnano i decreti vicereali (“pregones”) dell’epoca catalana e spagnola e più tardi sabauda, hanno lo stesso carattere.

Unica eccezione fa l’eloquenza ecclesiastica; i sacerdoti sardi dei paesi erano e sono costretti a fare le loro prediche in sardo, per essere intesi dai loro parrocchiani: perciò anche la Bibbia fu tradotta in sardo. E questa prosa ecclesiastica ha la sua importanza, sia perché è l’unica forma di prosa di tipo, per dir così, elevato e letterario che il popolo sardo sente (e quasi giornalmente), sia perché essa non poteva non esercitare la sua influenza sull’altro modo di espressione elevata, quello della poesia .

L’eloquenza ecclesiastica, naturalmente, non si può contentare della lingua di tutti i giorni, che non dispone dei mezzi necessari per esprimere pensieri alti e complessi, e perciò ricorre a numerosi latinismi, spagnolismi ed italianismi, molti dei quali sono senza dubbio inintellegibili al volgo, ma siccome ai sardi, che sentono ripetutamente questi discorsi sacri, piace molto, come a tutti i popoli meridionali, la lingua aulica con le sue voci dotte e peregrine, quei fioretti retorici finisco­no col passare facilmente nella poesia più o meno popolare” [Max Leopold Wagner, La Lingua sarda, a cura di Giulio Paulis, Ilisso editore, Nuoro 1997, pag.354].

 

 

Le Prime Sei Lezioni di Letteratura sarda che ho tenuto all’Università della terza Età di Quartuultima modifica: 2011-12-03T17:43:46+01:00da zicu1
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