Studi Angioy

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continua terza parte

francesi il malcontento delle popolazioni sarde” –annota lo storico sardo Carlino Sole- ma anche, sottolinea un altro storico, Raimondo Carta-Raspi (2), “perché la Sardegna si sapeva sguarnita, con poca artiglieria, nell’impossibilità di organizzare una valida difesa”. Il tentativo di occupare la Sardegna, sollecitato da due patrioti corsi, Cristoforo Saliceti e Mario Peraldi, si rivelò invece un fallimento: non solo perché permisero agli Stamenti di organizzare la difesa –le operazioni militari decretate nel settembre del ’92 iniziarono di fatto a metà gennaio del ’93- ma soprattutto perché –come osserva ancora il Carta-Raspi (3)- “le truppe transalpine si rivelarono un’accozzaglia raccogliticcia di volontari indisciplinati, male inquadrati e peggio comandati…ad iniziare dall’inetto ammiraglio Truguet”. 5-Lo sbarco francese a San Pietro, Sant’Antioco e a Cagliati-Quartu. I Francesi sbarcano e occupano l’Isola di San Pietro l’8 Gennaio 1793 e pochi mesi dopo Sant’Antioco. Il 23 Gennaio la flotta comandata dal Truguet getta le ancore nella rada di Cagliari bombardandola; il 27/28 Gennaio i francesi sbarcano nel Margine Rosso di Quartu Sant’Elena e il 14 Febbraio sottopongono a un fuoco infernale le posizioni tenute dal barone Saint Amour. Ma dopo una serie di scontri con i miliziani sardi, sono costretti a reimbarcarsi precipitosamente. 6-L’attacco di Napoleone a La Maddalena respinto da Millelire. Parallelamente alla spedizione del Truguet un altro attacco vede Napoleone Bonaparte comandante dell’artiglieria con il grado di tenente colonnello. Grazie soprattutto al valore del maddalenino Domenico Millelire e del tempiese Cesare Zonza, l’attacco fu respinto. Anche San Pietro e Sant’Antioco saranno liberati tra il 20 e 25 Marzo, per l’intervento di una flotta spagnola. Così, sconfitti al Nord come al Sud, i francesi furono costretti al ritiro. 7- La vittoria sui francesi fu una “Vandea”? Gli storici dell’Ottocento e in tempi più vicini a noi Sebastiano Pola e Damiano Filia –scrive lo storico sassarese Federico Francioni (4)- non hanno esitato nel definire il Novantatre come una “Vandea”. Certo, la presenza di una componente politica ed ideologica di tipo “vandeano” non può essere negata. Tuttavia una valutazione così unilaterale –che intende dilatare oltre ogni limite il mito della fedeltà dei Sardi alla Corona- non rende assolutamente conto del complesso intreccio di fattori e motivazioni che stanno alla base della risposta data ai Francesi dalle popolazioni, dalle truppe miliziane e da chi si mise alla loro testa. A smentire queste interpretazioni –continua Francioni- contribuiscono innanzitutto una serie di fatti, in parte oscuri, che si svolsero durante le prime settimane di quell’anno. Nel 1793 l’avvocato sassarese Gioachino Mundula fece aperta propaganda repubblicana dichiarando che i Sardi avrebbero dovuto fare causa comune con i francesi. Per questo motivo egli fu arrestato e chiuso nel Castello: ma non rimase a lungo inascoltato e isolato, perché dopo due anni divenne uno dei capi riconosciuti delle lotte nelle campagne logudoresi. (5), (6). La tesi di un Novantatre come “Vandea”-continua Francioni- crolla se solo si guarda ai protagonisti della difesa della Sardegna. Fra coloro che provvidero alla riorganizzazione della macchina militare si distinse una atipica figura di aristocratico come Francesco Maria Asquer, visconte di Flumini, in seguito sospettato di giacobinismo e di filofrancesismo. Il governo alcuni anni dopo lo esiliò e lo perseguitò in modo da decretare praticamente la sua rovina economica.(7) Nel 1793 lo stesso Giovanni Maria Angioy fece giungere da Bono un nerbo di cavalleria miliziana che poi mantenne a sue spese a Cagliari. Nella capitale accorse anche Pietro Muroni con un manipolo di 37 uomini, il cui soggiorno di tre mesi fu pagato dal fratello Francesco, parroco di Semestene, che di lì a poco sarà in prima fila nel movimento antifeudale. (8) Tutti questi personaggi più che da un profondo odio antifrancese furono spinte a battersi e a ben figurare da una prospettiva di elevamento sociale, dall’esigenza di onori e prebende da chiedere come ricompensa dei servigi prestati. Ma soprattutto occorre ricordare la ri-comparsa di un profondo sentimento nazionale sardo che si delinea in quei momenti –è ancora Francioni a sostenerlo ed io con lui- e lo sarà ancor più di lì a poco, come una corposa realtà concreta ed operante. (9) Fu un vantaggio per la Sardegna? Difficile dire se fu un bene per la Sardegna: molti storici infatti ritengono che sarebbe stata più utile per l’Isola una vittoria delle armi francesi, perché avrebbe messo fine al feudalesimo inserendola nel più vasto circuito e flusso economico dell’Europa. Fatto sta che l’invasione francese fu respinta per merito –su questo non vi è alcun dubbio neppure da parte degli storici filopiemontesi- sopratttutto dei Sardi che –cito Natale Sanna-(10)- “dopo secoli di inerzia e di supina quiescenza, finalmente consapevoli del proprio valore e la classe dirigente fiera della sua forza e dei risultati ottenuti, credettero giunto il momento di chiedere al re il riconoscimento dei propri diritti, tanto più che a Torino, mentre si concedevano in abbondanza promozioni ed onori ai piemontesi si ignorava l’elemento sardo”. Infatti –ricorda Girolamo Sotgiu-(11) “seguendo le indicazioni del vice re Balbiano, le onorificenze militari accordate dal Ministero della Guerra furono tutte concesse, con evidente ingiustizia, alle truppe regolari, che avevano dato così misera prova di sé…e alla Sardegna che aveva conservato alla dinastia il regno concesse ben povera cosa: 24 doti di 60 scudi da distribuire ogni anno per sorteggio tra le zitelle povere e l’istituzione di 4 posti gratuiti nel Collegio dei nobili di Cagliari…”. E altre simili modeste concessioni. Le 5 Domande Di qui la decisione del Parlamento sardo composto dai cosiddetti stamenti: -quello militare (o feudale), quello ecclesiastico e quello reale, (formato dai rappresentanti delle città)- riuniti nel Marzo-Aprile del 1793 di inviare un’ambasceria a Torino per presentare al sovrano 5 precise richieste: 1) il ripristino della convocazione decennale del Parlamento, interrotta nel 1699; 2) la conferma di tutte le leggi e privilegi, anche di quelli caduti in disuso o soppressi pian piano dai Savoia nonostante il trattato di Londra; 3) la concessione ai “nazionali” sardi” di tutte le cariche ad eccezione di quella vicereale e di alcuni vescovadi; 4) la creazione di un Consiglio di stato, come organo da consultare in tutti gli affari che prima dipendevano dall’arbitrio del solo segretario; 5) la creazione in Torino di un Ministero distinto per gli affari della Sardegna. Si trattava, come ognuno può vedere di richieste tutt’altro che rivoluzionarie: non mettevano in discussione l’anacronistico assetto sociale né le feudali strutture economiche, anzi, in qualche modo tendevano a cristallizzarle. Esse miravano però a un obiettivo che si scontrava frontalmente con la politica sabauda: volevano ottenere una più ampia autonomia, sottraendo il regno alla completa soggezione piemontese, per affidare l’amministrazione agli stessi Sardi. La risposta del sovrano La risposta del re Vittorio Amedeo non fu solo negativa su tutto il fronte delle domande ma fu persino umiliante per i sei membri della delegazione sarda (Monsignor Aymeric di Laconi e il canonico Pietro Maria Sisternes de Oblites per lo stamento ecclesiastico; gli avvocati Antonio Sircana a Antonio Maria Ramasso per lo stamento reale; Girolamo Pitzolo e Domenico Simon per lo stamento militare) Il Pitzolo scelto dalla delegazione per illustrare le richieste, non fu neppure ricevuto dal sovrano né ascoltato dalla Commissione incaricata di esaminare il documento….Non solo: il ministro Graneri neppure si curò di comunicare alla delegazione ancora in Torino la decisione negativa del re, trasmettendola direttamente al vice re a Cagliari. Commenta opportunamente il Carta-Raspi (12): ”Ai Sardi non era concesso più di quanto ricevevano dall’iniziativa sovrana, cioè nulla”. E ancora: “Ora più che mai l’avversione contro i Piemontesi non è più solo questione di impieghi e cariche. I Sardi volevano liberarsene non solo perché essi simboleggiavano un dominio anacronistico, avverso all’Autonomia e contrario allo stesso progresso dell’Isola, ma pure e forse soprattutto per esserne ormai insopportabile l’alterigia e la sprezzante invadenza”. E’ dentro questo corposo contesto storico che occorre situare lo “scommiato” dei Piemontesi, contesto anche psicologico e culturale. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1) Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Editore Laterza, 1984 2) Raimondo Carta-Raspi, Storia della Sardegna, Mursia editore, 1971 3) Ibidem 4) Federico Francioni, Giovanni Maria Angioy nella storia del suo tempo, Della Torre ed. 1985. 5) S. Pola, I moti delle campagne di Sardegnadal 1793 al 1802, Sassari, 1923 6) A. Boi, Gioachino Mundula tribuno sassarese, in “La Nuova Sardegna”18 Maggio 1952 7) A. Cabras, Il visconte di Flumini e gli avvenimenti sardi dal 1793 al 1812, Cagliari 1960 8) Francesco Muroni e il problema dell’eversione feudale, Sassari, 1984 9) Federico Francioni, Storia dell’idea di “nazione sarda” in La Sardegna, vol.2° a cura di Manlio Brigaglia 10) Natale Sanna, Il Cammino dei Sardi, volume terzo, editrice Sardegna 11) Girolamo Sotgiu, L’insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, AmjD editore 12) Carta-Raspi ibidem 2° CAPITOLO La cacciata dei Piemontesi Il fatto. Ecco come viene descritto da quattro storici sardi Carlino Sole(1) In La Sardegna sabauda nel ‘700, Chiarella editore, pagg.216-220 “L’esasperazione toccò il colmo quando, conosciutosi nell’aprile del 1794 il parere del governo sulle «cinque domande», i funzionari piemontesi assunsero un atteggiamento ancor più sprezzante e presero a beffeggiare con ogni sorta di motteggi i Sardi, che a loro dire uscivano scornati e derisi dal diniego governativo. Non era un mistero che nelle loro conventicole, e persino nel palazzo viceregio, si cantassero per dileggio versi di questa fatta: Tirilì, tirilì, crepino i Sardi, i Piemontesi restiamo qui; tirilì, tirilà, crepino i Sardi, i Piemontesi restiamo qua. Ad attizzare il fuoco contribuivano le lettere incendiarie del deputato Pitzolo; questi scriveva da Torino che non si doveva avere alcuno scrupolo nel ricorrere a mezzi estremi per dare agli Stamenti umiliati la più ampia soddisfazione. Si giunse così alla famosa giornata del 28 aprile, altrimenti conosciuta come vespro sardo, che segnò la sollevazione generale del popolo cagliaritano, e poi quella delle altre città, contro i Piemontesi. Anche se gli Stamenti si affrettarono poi in un Manifesto giustificativo a dimostrare che si era trattato di un «mero accidente», in realtà essa fece seguito a una congiura preparata dai notabili cittadini d’accordo con i capi delle maestranze artigiane e con i sindaci dei tre sobborghi popolari di Stampace, Marina e Villanova. La rivolta sarebbe dovuta esplodere il 4 maggio, in occasione della solenne processione per il ritorno in città della statua di S. Efisio; ma poiché il governo viceregio, avuto sentore della trama, aveva manifestato il fermo proposito di fronteggiare ogni possibile emergenza con la forza delle armi, i congiurati si videro costretti ad anticipare la rivolta. La mattina del 28 aprile il Balbiano, senza consultare preventivamente la Reale Udienza, che sicuramente lo avrebbe dissuaso, ordinò l’arresto di uno dei presunti capi della congiura, l’avvocato Vincenzo Cabrar, uomo rispettato da tutti per senno e dottrina, ma reputato dal governo come il principale ispiratore dell’avversione ai Piemontesi. Col Cabras fu arrestato anche il genero avv. Bernardo Pintor, mentre il fratello di questi, Efisio Luigi, notissimo avvocato del foro cagliaritano, evitò per puro caso la cattura. I familiari degli arrestati corsero per il popoloso quartiere di Stampace chiamando a raccolta quanta più gente potevano. Il tumulto si estese agli altri quartieri ed in breve una gran folla vociante fece ressa davanti alle porte del «Castello» chiedendo il rilascio dei prigionieri. Le porte furono incendiate, le guardie sopraffatte e le vie strette del «Castello» invase da quella turba sfrenata. Vi fu una parvenza di opposizione da parte delle truppe della guarnigione, ma quando una palla colpì a morte il comandante di un reparto, il resto dei soldati si arrese al popolo. Il viceré, intanto, aveva trovato scampo nel vicino palazzo arcivescovile.Se era intenzione dei promotori della congiura che il moto si risolvesse con l’arresto dei più alti funzionari piemontesi, l’intervento popolare impresse agli avvenimenti un corso diverso, perché, una volta sfrenatasi la licenza della plebe, riuscì difficile contenerne il dilagare. Ciò che all’inizio era stato uno spontaneo ed indistinto impulso tendente ad ottenere giustizia in favore di due cittadini onorati, divenne via via un chiaro sommovimento di rivolta contro il governo costituito, col preciso e dichiarato intento di «buttare a mare» tutti i Piemontesi, senza eccezioni di sorta. Fu come una parola d’ordine passata di bocca in bocca, e la «caccia al piemontese» divenne generale. I cronisti narrano che in caso di diniego o di dubbio la prova inconfutabile per rivelare la originaria identità degli arrestati era data dal modo come questi ripetevano la parola dialettale «cixiri» (cece), che ai subalpini riusciva impossibile pronunciare col suono dolce della x caratteristico della cadenza locale. Si ripeteva, sebbene in modo incruento, ciò che era avvenuto in Sicilia nel 1282 in occasione dei famosi «vespri». Dal viceré al più modesto degli impiegati, dal generale comandante in capo al più umile dei subordinati, tutti furono posti sotto vigile custodia in attesa di essere imbarcati. L’unica eccezione fu fatta, oltre che per le donne, per l’arcivescovo Melano, anch’egli piemontese, il quale, anzi, ebbe dal popolo molte attestazioni di stima e di venerazione e fu lasciato al suo posto, benché poi, venutosi a trovare in una specialissima posizione, non potesse più presiedere lo Stamento ecclesiastico in veste di «Prima Voce».L’imbarco dei Piemontesi – se ne contarono 514 – avvenne pacificamente il 30 aprile. Il viceré e i più ragguardevoli funzionari furono accompagnati al porto dai maggiorenti della città e fatti segno durante il tragitto all’ossequio dei più moderati; ma contemporaneamente sullo spiazzo della darsena il popolo si abbandonava a festose manifestazioni danzando i balli tradizionali e levando grida di giubilo. L’esempio di Cagliari fu presto seguìto dalle altre città, e nel breve giro di pochi giorni tutti i Piemontesi furono espulsi dal resto dell’Isola. Nel Manifesto giustificativo reso pubblico subito dopo dagli Stamenti la «emozione popolare» del 28 aprile fu presentata come un avvenimento conforme agli interessi della Sardegna e dello stesso sovrano e tale da aprire «un’epoca di contentamento ai sudditi sardi». Essa diede invece l’avvio a più gravi torbidi e a profondi sconvolgimenti politici e sociali in tutta l’Isola. Il bando dato pacificamente ai Piemontesi non rappresentava un fatto costituzionalmente rivoluzionario, ma solo una manifestazione di forza tendente a riaffermare e rendere effettivamente operante l’Autonomia del regno sancita dagli antichi ordinamenti. Invece la posizione assunta dagli Stamenti fu indubbiamente rivoluzionaria ed apertamente innovatrice rispetto ai dettami della vecchia costituzione. Questa prescriveva che in assenza o per impedimento del viceré il governo fosse assunto temporaneamente dalla Reale Udienza, il massimo organo giurisdizionale dell’amministrazione viceregia: essa doveva esercitare il potere in nome del re e con le stesse amplissime facoltà riservate al viceré. Per contro nelle cose di governo nessuna autorità era riconosciuta agli Stamenti, che erano corpi rappresentativi unicamente

                                 

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abilitati a concedere al sovrano il prescritto «donativo», a richiedere in cambio di tale elargizione grazie e privilegi e a dargli consulta se richiesti. In realtà però gli Stamenti sovvertirono le istituzioni attribuendosi il diritto di partecipare al governo con una speciale delegazione e pretendendo addirittura di esercitarne la direzione facendo acclamare come presidente la «Prima Voce» dello Stamento militare. In questo atto rivoluzionario si può configurare, secondo autorevoli studiosi di diritto costituzionale, una vera e propria usurpazione di poteri, più che uno sconfinamento del potere legislativo, che i tre ordini non avevano né potevano avere, in quello esecutivo. Ma la delegazione stamentaria per circa due anni, anche dopo l’arrivo in Sardegna del nuovo viceré, il debole ed irresoluto marchese Filippo Vivalda, regolò di fatto il governo della cosa pubblica arrogandosene quasi l’esclusività ed esercitando in vario modo una forte pressione sull’organo legittimamente investito dei poteri. Tuttavia sulla Reale Udienza e sugli stessi Stamenti cominciava ad avere il sopravvento l’elemento popolare, il quale, se pur si rendeva conto del peso della sua forza numerica, non aveva però altrettanta consapevolezza dei fini da raggiungere, manovrato com’era da poco scrupolosi e male improvvisati tribuni. Fra questi primeggiava quel Vincenzo Sulis che l’anno precedente si era distinto nelle principali azioni guerresche contro i Francesi. Nato da umile condizione, dopo una giovinezza burrascosa era riuscito a farsi una nuova reputazione dandosi a fortunate speculazioni commerciali e conseguendo il titolo di notaio. Nel pieno vigore di una vitalità straordinaria, aveva preso a signoreggiare sulle masse facendo leva sulla sua eloquenza animata e passionale e sul fascino di una personalità fuori del comune. da Raimondo Carta-Raspi(2) in Storia della Sardegna, Mursia editore, pagg.793-798 “Ma durante l’anno trascorso non era stato superato, come forse si credeva a Torino, il periodo cruciale dopo gli avvenimenti in difesa dell’isola, sí che tutto sarebbe dovuto rientrare nella supina normalità. Al contrario, specialmente i Cagliaritani e gli abitanti dei piú prossimi villaggi, ai quali la resistenza alle truppe francesi aveva dato un improvviso intuito della

Studi Angioyultima modifica: 2009-05-14T11:31:00+02:00da zicu1
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