G.M. Angioy

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Ricerca dell’Ufficio Studi G.M.Angioy   ( Prima parte)
“Autonomia e Riscatto, i principi libertari ed identitari di G.M. Angioy a 210 anni dal moto popolare”

col patrocinio della Regione Sardegna – Assessorato dello Spettacolo e Attività Culturali
L.R. n 1 art. 60 del 22.01.1990

a cura di Nicoletta Rossi e Stefano Meloni

Relazioni estratte dalla ricerca del Prof. Francesco Casula e Giampiero Marras

  • Premessa: le Radici Autonomistiche e identitarie

  • 1)Le radici dell’Autonomia e la costante resistenziale secondo Lilliu:
    dalla lotta contro Cartagine (sec.VI) alla Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale;
  • 2)Le radici dell’Autonomia secondo Maria Rosa Cardia: dal triennio rivoluzionario degli anni 1793-96 al movimento autonomistico operaio, sindacale, cooperativo e cattolico del ‘900, al Sardismo degli anni ’20 e del dopoguerra;
  • 3)Le radici identitarie e della “nazione sarda” secondo lo storico sassarese Federico Francioni;
  • Riferimenti bibliografici
  • 1° Capitolo – Contesto storico (politico, sociale e culturale) in cui si situa il triennio rivoluzionario (1793-96) e l’opera angioyna.
  • Riferimenti bibliografici
  • 2° Capitolo – La cacciata dei Piemontesi
    – Carlino Sole
    – Raimondo Carta-Raspi
    – Girolamo Sotgiu
    – Natale Sanna
  • Significato storico e simbolico
  • 3° Capitolo – Governo della Reale Udienza, contraddizioni del post-“commiato” e la figura di G. M. Angioy
  • Riferimenti bibliografici
  • Come gli storici valutano l’Angioy
  • Angioy nell’immaginario collettivo, nella memoria e nella cultura popolare sarda
  • Articoli su giovanni Maria Angioy
  • Documentazione
  • Premessa: le Radici Autonomistiche e identitarie 1) Le radici dell’Autonomia e la costante resistenziale secondo Lilliu: dalla lotta contro Cartagine (sec.VI) alla Brigata Sassari nella Prima guerra mondiale Le radici dell’Autonomia e dell’Identità sono da ricondurre alla storia sarda e segnatamente a quella che Giovanni Lilliu, il grande storico e archeologo sardo, accademico dei Lincei, chiama “costante resistenziale”. Essa così viene sintetizzata dallo stesso Lilliu: “Quell’umore esistenziale del proprio essere sardo, come individui e come gruppo che, in ogni momento, nella felicità e nel dolore delle epoche vissute, ha reso i Sardi costantemente resistenti, antagonisti e ribelli, non nel senso di voler fermare, con l’attaccamento spasmodico alla tradizione, il movimento della vita e della loro storia, ma di sprigionarlo il movimento, attivandolo dinamicamente dalle catene imposte dal dominio esterno” (1). Secondo Lilliu la “resistenza” dei Sardi ha una precisa data: quando, dopo lunghe lotte, Cartagine cacciò i Sardi indigeni alla fine del secolo VI, sui monti del centro isolano, nelle Barbagie, come poi ebbero a chiamarle i Romani. Ma ecco come argomenta e racconta la “costante resistenziale” dei Sardi nella loro storia millenaria ma soprattutto durante il periodo della dominazione cartaginese e romana : ”Antagonistica fu la civiltà dei Nuraghi in ogni tempo. Ma soprattutto in due periodi fu più accanito e drammatico lo scontro di cultura, più dura e decisiva la battaglia fra i fronti di civiltà: al tempo della guerra dei Cartaginesi prima e contro i Romani poi: difatti la natura antagonistica portò i Sardi a conservare la loro tradizione culturale per tutto o quasi l’arco di tempo corrispondente all’attività nell’Isola di quei popoli estranei, resistendo dapprima (dal VI al II sec. a.c.) con le armi e, in seguito, con la rivolta passiva, morale e psicologica derivata dalla coscienza, ancora oggi radicata fra gli isolani, di essere stati e di essere qualcosa di speciale e di individuale per stirpe e cultura……” ( 3 ) Dopo una prima vittoria sui Cartaginesi del generale Malco (545-535) secondo Lilliu il fronte nazionale protosardo dovette soccombere ad Asdrubale e Amilcare quando dopo 25 anni di operazioni militari verso il 509 a.c. “la resistenza” fu stroncata, domata e sospinta “dalle pianure e dalle colline nelle zone montagne dell’interno, solitarie, sterili e disperate ( Iustin.XIX,1). Si può capire che l’abbandono forzato di terre che la letteratura storica greco-romana ci presenta piena di monumenti d’ogni genere e fonte di benessere materiale e civile, provocò una cesura culturale, una crisi di civiltà fra le popolazioni nuragiche. E la marcia patetica dalle “ ( Diod.,IV,29-30-V,15) dove gli antichi pastori e agricoltori- guerrieri lasciavano i castelli distrutti, le case fumanti, i templi profanati e le tombe dei loro morti incustodite, verso le rocce, le caverne e i boschi paurosi del centro montano, fu non soltanto una ritirata di uomini, donne e fanciulle perseguiti come vinti dal vincitore straniero e sospinti verso una carcere, quasi verso un enorme campo di concentramento naturale, ma fu anche e soprattutto la capitolazione di un’intera civiltà protesa in uno sforzo decisivo e vicina al suo pieno traguardo storico. Con la sconfitta fu pure incrinata la compattezza etnico- sociale dei Sardi della civiltà nuragica e ne risultò la prima grande divisione politica: da una parte l’Isola montana- dei Sardi ancora liberi seppur costretti in una sorta di riserva dai conquistatori, come lo furono nel secolo XIX gli Indiani americani di Capo Giuseppe, chiusi in una riserva dell’Idaho dai bianchi del generale Miles – che continuò a esprimere una cultura genuina e autentica di pastori, per quanto impoverita e decaduta; dall’altra i Sardi più deboli, arresisi agli invasori, diventati per calcolo o per paura furono degradati al livello di servi della gleba e confusero il loro sangue e la loro civiltà mescolandosi ai mercenari libici, schiavi gli uni e gli altri del comune padrone cartaginese. Per i sardo- punici ( o sardo- libici) a cultura mista, i sogni di grandezza, già nel V secolo a.c. erano finiti nel nulla e la libertà era diventata una parola senza senso. Le madri facevano figli per essere assoldati a poco prezzo negli eserciti di Cartagine. Come le antiche “pianure iolaèe” germinavano biade e gli altopiani erbosi dei primitivi pastori ingrassavano greggi per arricchire il mercato internazionale dell’invasore e aumentarne l’insaziabile brama del potere economico e politico. Per i Sardi autentici del centro montano, a cultura tradizionale senza alcun compromesso, la libertà rappresentava ancora un valore e il suo prezzo li ripagava dei sacrifici materiali e dell’avvilimento morale in cui li aveva cacciati l’avverso destino. Schiavitù e libertà segnavano ormai una netta linea di confine fra le due parti dei Sardi: quella conformista e quella ribelle, la prima accomunata forse alla seconda al padrone nel disprezzo e nell’odio. Ed il padrone noncurante e forse lieto della divisione prosperava sulla contesa delle due Sardegne” “Il secondo grosso urto fra la civiltà nuragica e quella straniera – scrive ancora il Prof. Lilliu – dopo deboli e occasionali scontri fra sardi dei monti e cartaginesi fra il V e il III secolo, avvenne con la conquista dell’Isola dai Romani intorno al 238 a.c. I protagonisti furono le tribù del centro e della regione alpestre, Corsi, Iolei e Balari, e cioè i discendenti dei fuggiaschi della grande ritirata del VI secolo a.c., conservatisi in stadio di autentica cultura nuragica. I Sardi a cultura mista, restarono fuori dalla mischia, limitandosi a servire senza difficoltà il nuovo padrone. L’occupazione romana delle città costiere nel 238 a. c. si svolge senza combattimento (Zonara,VIII,12, P,I,4000) senza alcuna resistenza da parte dei Sardo- punici o Sardo- libici. Ma i reiterati trionfi dei consoli romani segnati dal 235 al 232 a.c. stanno ad indicare che la penetrazione romana verso l’interno, trovava l’ostacolo sanguinoso delle tribù locali di tradizione nuragica. Si risvegliava la natura “antagonista” dei guerrieri- pastori, non mai sopita del resto, al primo duro contrasto di civiltà. La lotta sardo romana fu epica, anche perché l’intento del nuovo padrone, era quello di operare una trasformazione radicale di struttura “civile e morale”, cosa che non avevano fatto i Cartaginesi, soddisfatti della sicurezza strategica ed economica, senza preoccupazioni “missionarie”. La reazione degli indigeni fu pronta in ogni momento, violenta nei periodi di maggiore emergenza, fatta di battaglie aperte e di insidie nascoste, con mezzi chiari e nella clandestinità. La lunga guerra di libertà dei Sardi, ebbe fasi di intensa drammaticità ed episodi di grande valore, sebbene sfortunata: le campagne in Gallura e nella Barbagia nel 231, la grande insurrezione nel 215 (guidata per terra dal latifondista sardo- punico Amsicora e appoggiata sul mare dalla flotta cartaginese di Asdrubale il Calvo), la strage di 12.000 iliensi e balari nel 177 e di altri 15.000 nel 176, le ultime resistenze organizzate nel 111 a.c., sono testimonianza di un eroismo sardo senza retorica (sottolineato al contrario dalla retorica dei roghi votivi, delle tabulae pictae, dei trionfi dei vincitori). Noi che abbiamo seguito dall’inizio l’origine e lo svolgersi della civiltà nuragica, che abbiamo cercato di individuarne nella vocazione antagonistica e nell’attitudine di conservazione attiva e vitale dei caratteri fondamentali, possiamo ora apprezzare nel vero senso, il valore di questi avvenimenti di storia politica strettamente legati alle vicende finali – e in definitiva al tramonto – di una cultura del mondo antico che ebbe una coerenza morale e uno stile di vita schietto e libero, non privo di insegnamenti, posto che se ne vogliano riconoscere nel passato” (4) Ma il Professor Lilliu non si limita ad applicare la categoria storiografica della “costante resistenziale” alla dominazione cartaginese e romana: essa infatti avrebbe caratterizzato l’intera storia della Sardegna. Così infatti scrive: ” Potremmo forse interpretare, meglio che con i documenti diplomatici, certe fiere per quanto modeste e molto limitate, espressioni di resistenza, del periodo giudicale, a mio avviso troppo esaltato come momento di autonomia sarda…. Si dica lo stesso dei movimenti resistenziali angioyni della fine del ‘700 e di quelli a sfondo “comunistico” del “su connotu” nel secondo ventennio dell’800, nei quali la componente “ popolare” (da distinguersi da quella “borghese” integrata nella rivoluzione “esterna” delle culture “maggiori” e della francese in specie) si muoveva nella direttrice dei valori resistenziali della cultura propria “minore”, senza una precisa e organica alleanza, anzi con sospetti e conflitti, identificando ancora una volta, “i borghesi rivoluzionari” con lo straniero padrone”. E continua “Forse sarebbe utile approfondire l’analisi delle gesta belliche della Brigata Sassari nella penultima grande guerra, demitizzandola nel ruolo assegnatole dalla politica e dalla storiografia nazionalistica e fascista, di fedele e strenuo campione di amor patrio italiano, di custode bellicoso della Nazione Italiana. Resistendo sui monti del Grappa, in uno spazio geografico che gli ricordava il proprio, guidati e formati ideologicamente da ufficiali (come E. Lussu) nei quali urgevano violentemente, sino a forme ritenute quasi di indipendentismo, le istanze dell’autonomia isolane, i fanti della Brigata, combattendo contro lo straniero austro-ungarico-tedesco, riassumevano tutti gli antichi combattimenti con tutti gli stranieri conquistatori colonizzatori e sfruttatori della loro terra, comprendendo fra essi, forse gli stessi “piemontesi” fondatori dello stato, centralista e unitarista italiano. In tal senso, il momento della Brigata, può essere ritenuto una trasposizione in suolo nazionale della resistenza sarda di secoli”.(5) C’è di più: a parere di Lilliu la resistenza persiste e continua: “Ai Sardi spetta ancora il compito di attivare la costante resistenziale, chè non ne mancano i motivi”. Occorre “resistere” e reagire all’industrialismo con i suoi schemi e comportamenti di colonizzazione estranei ed esterni al tessuto economico sardo, distruttore dell’ambiente, fallimentare dal punto di vista economico e occupazionale, devastante per la civiltà sarda, come occorre resistere all’assimilazione e alla acculturazione esterna, da qualunque parte essa venga e in qualsiasi modo si presenti: In tempi antichi sotto l’aspetto dell’egemonia armata della borghesia mercantile fenicio-punica e dell’imperialismo militare romano; oggi con l’etichetta e le persuasioni o le repressioni del sistema neocapitalistico industriale internazionale e dei vassalli italiani continentali del triangolo nordista”.(6) In connivenza e con la complicità degli ascari locali, aggiungo io. Se è interessante e suggestiva – e a mio parere assolutamente condivisibile la categoria storiografica della “costante resistenziale” – ancor più lo è la spiegazione che il grande archeologo di Barumini dà della “resistenza sarda”. A questo proposito scrive che occorre “moderare i metodi di ricerca della storiografia tradizionale della storia politico-diplomatica che è piena di falsità (è la storia dei vincitori, storia di parte), ed anche quello della storiografia marxista che vuole ridurre la spiegazione della resistenza sarda, nelle forme che abbiamo specificato, soltanto a ragioni economiche- sociali, in una contrapposizione di classi, senza riguardare le profonde cause della , cioè le cause etniche- etiche, intime alla convinzione nei Sardi dei valori della propria cultura “minore”. In definitiva si tratta di tener conto dell’importanza determinante dell’elemento “popolo” (e non dell’elemento “ classe”) nella grande contesa sarda tra le due culture, dove sta il nocciolo vero della resistenza costante, della conflittualità permanente”.(7 ) 2) Le radici dell’Autonomia secondo Maria Rosa Cardia: dal triennio rivoluzionario degli anni 1793-96 al movimento autonomistico operaio, sindacale, cooperativo e cattolico del ‘900, al Sardismo degli anni ’20 e del dopoguerra. Un altro storico di vaglia, Maria Rosa Cardia, studiosa e docente di Storia della Istituzioni all’Università di Cagliari pur non attaccando la categoria storiografica di Giovanni Lilliu, se ne distanzia e individua le radici dell’Autonomia segnatamente negli ultimi due secoli. Ecco cosa scrive: ”Le aspettative che caratterizzarono la vicenda dello Statuto affondavano le radici in una aspirazione autonomistica antica, una costante nella storia della Sardegna, volta più alla integrazione che alla separazione, ma certamente basata sulla difesa della propria identità culturale e politica. Una richiesta irrinunciabile di libertà e di diritti di autonomia, portata avanti attraverso i secoli tra contrasti e lacerazioni, tra generose illusioni e interessati conformismi. Lo Statuto è l’erede di questo patrimonio di memoria storica. Nei suoi articoli si avverte l’eco dell’autonomismo sardo dell’Ottocento e del Novecento, di quella travagliata riflessione sulla questione sarda, avviata dal diffuso pentimento per la fusione con gli Stati di terraferma nel 1847 e la rinuncia agli antichi istituti autonomistici. Nel patto costituzionale stipulato fra la Sardegna e l’Italia giungono a maturazione le coraggiose battaglie sostenute da ceti e forze diverse dell’Isola in questo secolo: dal movimento antiprotezionista, al movimento operaio, sindacale e cooperativo, all’autonomismo cattolico, al tributo di sangue di una generazione di Sardi nella grande guerra, all’ideologia di riscatto espressa dal movimento dei reduci, alla riforma federalista avanzata dal sardismo, divenuta patrimonio di massa nel primo dopoguerra, fino alla brusca interruzione causata dai vent’anni di regime fascista. Le disposizioni statutarie cercarono di rispondere a tutte queste istanze e di disegnare un’autonomia capace di coniugare l’identità con l’integrazione,continua

G.M. Angioyultima modifica: 2009-05-14T10:20:00+02:00da zicu1
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