SARDEGNA COME LA NAMIBIA?

SARDEGNA COME LA NAMIBIA?

di Valeria Casula

mi inserisco un po’ in punta di piedi in questo gruppo che seguo con interesse non perché abbia contributi storici con cui arricchire i contenuti del gruppo, ma perché ho piacere e desidero condividere con voi le ragioni che mi hanno spinto non solo ad aderire ma a sostenere attivamente, per quel che posso, l’iniziativa per la rimozione della statua di Carlo Felice.

Tali ragioni non risiedono tanto nel fatto che mio padre figuri fra i promotori, lui ha promosso decine se non centinaia di iniziative analoghe che non mi hanno mai visto al suo fianco come sostenitrice, al limite mi sono limitata ad aderirvi personalmente, ove le condividessi.

La ragione per cui quella statua mi umilia risiede nel mio vissuto personale, quando nell’ormai lontano 2000 con un paio di amiche partimmo per un magnifico viaggio in Namibia.
Sapevamo poco di quel paese prima della partenza, solo poche date lette in aereo prima di atterrare sulla guida turistica: colonia tedesca dal 1884 al 1915 (in cui vive ancora una minoranza tedesca), poi sotto il Sud Africa e indipendente dal 1990.

Trascorremmo la prima serata a Windhoek, la capitale e l’impatto fu subito forte in quanto notammo che l’apartheid, formalmente abolita anche in Sud Africa da oltre 5 anni, costituiva di fatto ancora una realtà: i locali tedeschi riportavano la scritta “Right of admission reserved” ed i locali dei nativi erano di fatto esclusivamente frequentati dai neri. I nomi di moltissime strade e piazze erano tedeschi, tutto evocava la Germania.
Ciò che mi stupì maggiormente fu vedere i ragazzi neri che allegramente passeggiavano nel centro della città indifferenti ad uno dei principali monumenti, il Reiterdenkmal, monumento equestre in onore dei soldati delle Schutztruppe caduti durante le guerre Herero.
Mi dissi: “Ma come fanno a restare tanto indifferenti? Perché non hanno ancora demolito quella statua? Perché ora che son liberi non erigono monumenti ai loro eroi, a chi ha dato la vita per liberare la Namibia? ” Provai pena e compassione per quelle persone che, benché ormai libere, rimanevano ancora schiave, in regime di apartheid, tanto schiave da non “permettersi” neanche di rimuovere le onorificenze ai loro carnefici.
Il viaggio proseguì alternando bellezze naturalistiche a pseudo monumenti prima il fortino tedesco, poi il cimitero in cui sono sepolti i tedeschi caduti durante la rivolta herero del 1904, di cui ricordo ancora il numero e le parole della guida richiesta da noi locale, in realtà tedesca, “123, one two three, it’s easy to remember!” (troppo pochi! pensai).
Con il cimitero monumentale toccammo il fondo e chiedemmo alla guida di modificare il tour, non eravamo affatto interessate a monumenti e simboli del colonialismo, pertanto iniziò anticipatamente il nostro safari.
Il safari, per me il primo, fu magnifico: ricordo tramonti mozzafiato ad osservare i branchi di elefanti che si abbeveravano dalla pozza, maestose giraffe, branchi di zebre, vedemmo persino il leone!

Nonostante tanta bellezza quel viaggio mi lasciò un forte vuoto: di quel paese avevo visto lo splendore della sua natura, il mare con i suoi delfini, la baia delle foche, il deserto, la savana con maestosi animali, tuttavia non ero riuscita a conoscere nulla degli uomini e delle donne che abitavano quel luogo, della loro vita, delle loro usanze, del loro rapporto con quella natura strepitosa.

Quell’estate, come ogni anno trascorsi la restante parte delle ferie nella mia Sardegna. Tornata a Cagliari, come accade quando si torna da luoghi lontani la guardai con un certo senso di estraneità, mantenendo ancora lo spirito del visitatore.
Una sera decisi di prendere un aperitivo all’aperto, risalii a piedi il Largo Carlo Felice per incontrarmi con gli amici in uno dei bar all’aperto della splendida Piazza Yenne. Mentre sorseggiavo il mio drink notai, come non avevo mai notato in tanti anni, l’incombente presenza della statua di Carlo Felice che strideva con la nostra gioia e spensieratezza di una serata fra amici in modo molto più violento di quanto non mi era apparso stridere qualche settimana prima il monumento ai soldati delle Schutztruppe. Quella statua era lì da due secoli e nessun sardo aveva mai provato o era mai riuscito a rimuoverla. Quella statua era lì da due secoli ed io ero tanto ormai abituata a vederla che mi era diventata indifferente.
Ora per la prima volta quella statua mi suscitava delle emozioni, mi suscitava una pena verso me stessa cento volte superiore a quella provata per i giovani Namibiani che avevo visto qualche settimana addietro passeggiare in prossimità del Reiterdenkmal e provai un profondo senso di umiliazione.

Nei giorni successivi persi lo sguardo del visitatore e ritornai ad assuefarmi alla mia città, smisi di stupirmi sia nei confronti delle sue bellezze che di Carlo Felice, rassegnata all’idea che lì avevo sempre visto quel monumento e lì l’avrei per sempre rivisto.

Quando il 28 aprile sono venuta a conoscenza dell’iniziativa non ho potuto non pensare al Reiterdenkmal di Windhoek e in me si è acceso il desiderio e la speranza, ormai persa, di poter finalmente ammirare al posto di Carlo Felice un uomo o una donna simbolo della nostra liberazione e non della nostra sottomissione.

Queste le ragioni del mio accorato appello a sottoscrivere la petizione relativa alla rimozione della statua di Carlo Felice, appello che rivolgo non solo ai Sardi ma a chiunque nel mondo, perché ritengo che non sia solo una questione dei Sardi ma sia un diritto universale quello di erigere onorificenze agli eroi e non agli oppressori, a Cagliari come a Windhoek; perché se i namibiani promuovessero una petizione per sostituire il Reiterdenkmal di Windhoek con un monumento in onore dei loro eroi io sarei fra i primi firmatari, anche se namibiana non sono.

Non si tratta di rimuovere la storia, si tratta leggerla correttamente, assegnando onorificenze ai personaggi che le hanno meritate.

Io non so se la storia della Sardegna sia stata più gloriosa della storia di altri luoghi o di altri popoli, quello che so per certo è che di essere Sarda non mi sono mai dovuta vergognare, perché è una storia in cui non siamo mai stati carnefici, non abbiamo mai conquistato, dominato e sottomesso alcun popolo. E per quanto possa provare un po’ di disagio nei confronti di una certa remissività che il popolo Sardo ha mostrato in alcuni periodi della sua storia, tale disagio è infinitesimamente inferiore alla vergogna che ho provato nel citato viaggio per il fatto di essere europea.
Europea bianca davanti ai visi di splendidi bambini neri dallo stomaco vuoto che venivano portati dalle scuole del villaggio nel nostro lussuoso lodge a darci il benvenuto con le loro allegre canzoni mentre noi ci accingevamo a consumare le abbondanti libagioni davanti a tavole riccamente imbastite.

Inutile dire quanto questo senso indescrivibile di vergogna mi provocasse un tale groppo alla gola da impedirmi di deglutire un solo boccone del ricco pasto!

La giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro

Foto

di Valeria Casula

 

Il 28 aprile ricorre la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, istituita dall’’Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali a livello globale.

Spesso le dimensioni del fenomeno infortunistico in Italia sono note solo agli addetti ai lavori, vale a dire a chi come me si occupa nelle organizzazioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, eppure il fenomeno è assolutamente rilevante e investe tutte le aziende.

Dal 1951 al 2015 le vittime sul lavoro in Italia sono state superiori alle vittime civili italiane della seconda guerra mondiale (oltre 160.000 a fronte di 153.147 vittime civili del secondo conflitto mondiale) e gli infortuni oltre 70 milioni.

Ora, è pur vero che la seconda guerra mondiale è durata 6 anni a non 64, tuttavia il rapporto di 1 a 10 risulta comunque abnorme.

L’andamento infortunistico mostra una forte contrazione passando da oltre 4000 indicenti mortali l’anno negli anni ’60 a circa 1000 attuali (compresi quelli in itinere), grazie non solo all’evoluzione delle misure tecniche (macchinari e attrezzature intrinsecamente più sicuri), ma anche alle misure gestionali (modalità operative e processi, formazione, informazione e addestramento su corretto utilizzo di materiali e attrezzature e processi, sorveglianza sanitaria, …).

Occorre tuttavia uno sforzo continuo e maggiore per abbattere lo zoccolo duro degli infortuni, perché non è accettabile che si continui a morire, ammalarsi o farsi male di lavoro.

Tralascio il lavoro nero, ignominia di un paese civile, la cui incidenza infortuni e malattie professionali, benché sfugga in parte alle statistiche, è estremamente elevata, non solo perché coinvolge i settori a più elevato rischio “intrinseco”  (es. edilizia, agricoltura) ma soprattutto perché tale rischio non è mitigato attraverso le misure tecniche e gestionali sopra citate.

Mi riferisco ad aziende degne di questo nome, aziende che utilizzano attrezzature a norma, che formano, informano, addestrano e sottopongono a sorveglianza sanitaria i propri lavoratori, insomma aziende che ottemperano alla normativa vigente in materia antinfortunistica; ebbene, anche tali aziende hanno difficoltà a contrarre ulteriormente il fenomeno infortunistico.

Tali difficoltà sono dovute ad un orientamento culturale sia manageriale che diffuso a vari livelli delle organizzazioni che vede la sicurezza confliggere con gli obiettivi economici e operativi d’impresa e individuali, unita ad un certo “fatalismo” secondo cui l’infortunio è inevitabile.

Da un lato infatti ci sono le aziende (per fortuna non tutte!) che considerano la sicurezza come un mero costo, che non hanno ancora capito nel 21esimo secolo che non è solo un dovere etico e morale salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma è anche un dovere economico verso l’azienda stessa e verso la collettività, visto che l’INAIL stima che il costo complessivo di infortuni e malattie professionali nel nostro paese ammonta a quasi 50 miliardi di euro (oltre il 2% del PIL, a carico sia delle aziende che della collettività) e che le spese in sicurezza hanno un ritorno economico per le aziende pari al doppio del capitale investito.

Dall’altro c’è la cultura diffusa che “se tanto ti deve capitare ti capita e non puoi farci niente”, che “si sa che nel nostro lavoro ogni tanto ci si fa male”, che “sì, lo so che dovrei agganciare l’imbragatura ma sono di fretta, tanto scendo subito e sto attento”, che “noi dobbiamo pensare a far andare avanti il business, e non abbiamo tempo da perdere con queste cose”, che “lascia stare, non stare a segnalare che quel dispositivo fa uno strano rumore, tanto non sarà niente di ché”.

Inutile dire che davanti a comportamenti e affermazioni di questo tipo tutti noi, a prescindere dal ruolo che ricopriamo in un’organizzazione, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di intervenire e/o segnalare.

Questa cultura è il principale nemico da sconfiggere per abbattere gli infortuni, non solo sul lavoro ma in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Basti pensare a tutti i comportamenti insicuri frutto di questa cultura che spesso o talvolta adottiamo in auto, quando per fretta o per “assuefazione” al pericolo superiamo i limiti di velocità, usiamo il telefonino alla guida o pur di non sentire le lamentele del pargolo diciamo “e va bene puoi slacciarti la cintura, tanto siamo quasi arrivati!”, ma anche quando non indossiamo il casco sulle piste di scii, in bicicletta o addirittura in moto.

Qualsiasi infortunio produce effetti non solo sulla persona che lo subisce ma su tantissime persone che lo circondano, la compagna/il compagno, i figli, i genitori, gli amici, i colleghi. Se poi si tratta di un infortunio grave l’effetto è devastante e compromette l’esistenza stessa oltreché dell’infortunato anche dei propri cari che dovranno prestare assistenza e comunque modificare abitudini e consuetudini.

In questa giornata vorrei ribadire con rinnovata determinazione che LA SFORTUNA NON ESISTE, che tutte le aziende che si sono impegnate seriamente su questo fronte hanno drasticamente ridotto il fenomeno infortunistico finanche a dimezzarlo in pochi anni, a dimostrazione che attraverso una cultura della sicurezza che sui traduce in comportamenti e ambienti sicuri GLI INCIDENTI SUL LAVORO POSSONO ESSERE EVITATI!

Referendum trivelle. Perché andare a votare e votare sì

Referendum trivelle. Perché andare a votare e votare sì

CAGLIARI – Perché prorogare la durata delle concessioni per la coltivazione di idrocarburi non sia a priori né giusto né sbagliato, perché andrò a votare, perché voterò sì e perché votare non basta.

Si tratta del quesito referendario più complesso che mi sia trovata ad affrontare e del tema su cui è stato maggiormente difficile raccogliere informazioni serie che potessero orientare una decisione.

Se ne parla tanto ma al di là degli slogan ho trovato poche risposte alle mie domande. Ringrazio tuttavia la rete in cui, spesso nei commenti dei commenti di un post, ho trovato qualche indicazione, qualche fonte che mi ha consentito di prendere una decisione.

Ma veniamo ai vari punti:

Perché prorogare la durata delle concessioni per la coltivazione di idrocarburi non sia a priori né giusto né sbagliato ovvero, qual è la durata corretta di un titolo minerario?

Su questo punto la risposta è solo una: dipende. Dipende dal bilancio fra costi e benefici sociali marginali che tale attività genera nella sua “vita residua”. I benefici sociali sono quelli di più immediata percezione, ovvero l’impatto occupazionale diretto, indiretto e indotto associato a quell’attività, il patrimonio di conoscenze e competenze che genera l’attività economica, le royalty corrisposte. I costi sociali sono rappresentati dalla riduzione di valore del bene ambientale su cui insiste l’attività. Tale valore ha due componenti principali: il valore di utilizzo (use value) e il valore di non-utilizzo (non-use value)

La riduzione del valore di utilizzo include sia il valore generato da attività inibite dall’attività estrattiva (tipicamente per le attività offshore pesca e turismo) non solo durante la vita utile del giacimento ma sino a completo ripristino delle condizioni ambientali precedenti (direct use value), sia la riduzione di valore relativo al buon funzionamento dell’ecosistema marino e costiero e alla sopravvivenza degli organismi in esso presente anche se privi di valore economico (indirect use value), sia infine la riduzione di potenziali utilizzi futuri del bene ambientale (Option value).

Il valore di non-utilizzo (valore culturale, religioso, estetico, di esistenza) che riguardano sostanzialmente il valore intrinseco del bene a prescindere dal suo utilizzo. Questa ultima componente di valore è stata considerata per la prima volta nella quantificazione del danno ambientale dell’incidente di Exxon Valdez del 1989.

Tali valutazioni, per le quali esistono metodologie consolidate da diversi decenni e che traducono i diversi valori in valori monetari al fine di renderli comparabili, sono quelle che dovrebbero guidare le scelte del decisore pubblico e del potere legislativo di un paese civile, temo invece che le scelte del legislatore siano guidate da valutazioni di altra natura.

Perché andrò a votare

Andrò a votare non tanto e non solo perché lo ritengo un dovere civico, ma anche e soprattutto per riportare in cima all’agenda dei decisori pubblici il tema energetico in questo paese. Un’alta percentuale di votanti, quale che sia il loro voto, dà un messaggio chiaro e univoco: occorre affrontare la questione energetica, occorre avere una visione che traguardi 20-30 anni in questo paese, occorre darsi una missione degli obiettivi e, finalmente, un piano energetico nazionale di lungo periodo.

A Parigi lo scorso dicembre l’Italia, insieme ad altri 186 paesi si è impegnata a fornire il suo contributo per il mantenimento dell’innalzamento termico complessivo massimo entro i 2°C con l’obiettivo di rimanere entro 1,5°.

Per assicurare questo risultato occorre eliminare quasi tutte le emissioni di gas serra e compensare quelle non eliminabili con iniziative che li assorbano. Si stima che per contenere l’innalzamento entro 1,5°C la riduzione di CO2 (uno dei principali gas serra) debbano arrivare a zero nel periodo  2045-2060. Il 2045 non mi sembra poi tanto lontano, cosa aspettiamo a definire come ci si arriva?

Perché voterò sì

Voterò sì perché in assenza di spiegazioni e stime sulla durata della vita residua dei giacimenti in questione me le sono date da sola.

Dall’analisi dell’andamento della produzione di idrocarburi nelle piattaforme relative alle concessioni entro le 12 miglia si evince che questa si sia fortemente ridotta negli ultimi 10-15 anni,  sino a scendere al di sotto del 30% della produzione massima per le concessioni non scadute, del 10% per quelle scadute per le quali è già stata richiesta proroga e del 20% per quanto riguarda la produzione di olio.

Insomma sembrerebbe che si tratta di giacimenti già sostanzialmente a fine vita. Ma allora che senso ha la modifica legislativa della legge di stabilità che prevede che “I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento”?  Chi e come decide che il giacimento possa considerarsi esaurito? E’ sufficiente estrarre una goccia o sono definiti altri criteri?

Da un’analisi di Greenpeace su dati MISE risulta che delle 88 piattaforme operanti entro le 12 miglia

-35 non sono di fatto in funzione (6 “non operative”, 28 “non eroganti”, 1 di supporto a piattaforme “non eroganti” 

-29 considerate “eroganti” producono sotto la franchigia che esenta i petrolieri dal pagamento delle royalties   

Allora un governo serio anziché procrastinare la fase di dismissione di ciò che non serve più, dovrebbe definire le modalità gestione del decommissioning off shore (smantellamento? Riutilizzo ad es. per eolico offshore? Altro?). Si tratta di attività onerose che le compagnie petrolifere non hanno nessun interesse ad anticipare mentre hanno forti interessi a prorogare.

Perché votare non basta

Votare non basta perché, come stigmatizzano i detrattori del referendum, recarsi al seggio con il Suv non fa che sottolineare le nostre contraddizioni.

Perché anche se lasciamo l’auto nel garage e andiamo a votare in bicicletta dobbiamo essere consapevoli che quell’auto ha già emesso circa la metà delle sostanze tossiche associate al suo intero ciclo di vita nel momento stesso in cui l’abbiamo acquistata, nella fase di produzione.

Perché anche se stiamo attenti a non far scorrere acqua in eccesso quando riempiamo la moka, dobbiamo sapere che per la tazzina di caffè che poi beviamo sono stati comunque utilizzati 140 litri di acqua.

Perché quando indossiamo i jeans dobbiamo sapere che la loro impronta idrica non è tanto legata ai lavaggi in lavatrice ma soprattutto alla loro produzione (11.000 litri di acqua), allora è forse meglio comprarne un paio in meno e tenere la vecchia lavatrice. 

Perché se cambiamo le lampadine per contribuire alla riduzione di gas serra e poi portiamo a tavola 1 kg di carne di manzo dobbiamo essere consapevoli del fatto che: stiamo producendo 26 kg di CO2 equivalente (contro 1,7 kg prodotti da 1 kg di legumi), consumando oltre 19.000 litri di acqua (contro i 2.700 necessari per 1 kg di legumi) e impegnando 127 m2 di territorio (contro 18 m2 utilizzati da 1 kg di legumi).

Perché la fonte energetica più pulita che ci sia è il risparmio energetico non solo e non tanto nei consumi diretti (quelli indicati nelle nostre bollette) ma anche e soprattutto dei beni che acquistiamo.

In sintesi perché dopo aver votato occorre ripensare profondamente il nostro modello di sviluppo e i nostri consumi. 

Io sono dotata di auto, bevo caffè al mattino anziché il più eco-compatibile the, posseggo diversi paia di jeans e sono onnivora. Spero però che grazie a questa consapevolezza, maturata anche a seguito dei nuovi approfondimenti che ho svolto in occasione di questo referendum, le mie abitudini cambino, e cambino radicalmente, perché è un mio dovere, oltre che un mio desiderio, lasciare in eredità a mio figlio Antonio un mondo se non migliore, almeno equivalente a quello che ho ereditato io!

Valeria Casula (ingegnere ambientale)