Vittorio Emanuele III

 

Vittorio Emanuele III

Alcune motivazioni perché Umberto I di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna.

 

Durante il suo regno (1900-1946) Vittorio Emanuele III fu connivente e spesso attivo sostenitore di scelte sciagurate e funeste per l’intera Italia e per la Sardegna in particolare, per le conseguenze devastanti che quelle scelte comportarono. Per cui il giudizio della storia sulla sua figura è spietato e senza appello. Egli infatti è, in quanto re e dunque capo dello stato, responsabile o comunque corresponsabile della partecipazione dell’Italia alle due grandi guerre e del Fascismo.

Anche durante il suo regno, fin dall’inizio del Novecento, continua la repressione violenta nei confronti della protesta popolare e dei movimenti di opposizione.

 

1. Repressione poliziesca agli inizi del Novecento in Sardegna:

L’eccidio di Buggerru. La sommossa di Cagliari , Villasalto e Iglesias

Ricollegandosi al clima di repressione di fine secolo in Italia con la strage di Milano, nel romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scrive a proposito dell’eccidio di Buggerru: Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento.

Anche a Buggerru, allora importante centro minerario, l’esercito, come a Milano nel 1898, sparò sulla folla inerme. Il 4 settembre del 1904 nel paese di Buggerru giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all’esterno dell’Albergo dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.

A Cagliari due anni dopo nel 1806, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.

“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).

Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.

 

2. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale

La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.

Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis  lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.

Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.

Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna,  Editori Laterza, 2002, pagina 9).

Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.

E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.

La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopianoIl piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.

In cambio delle migliaia di morti,  – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta- Raspi –  non sfamava la Sardegna.

Sempre Carta Raspi scrive:”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni:le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904)

 

3. Vittorio Emanuele III e il Fascismo.

Una delle massime responsabilità storiche di Vittorio Emanuele III fu l’aver favorito l’avvento e l’affermarsi del Fascismo. In seguito alla cosiddetta Marcia su Roma infatti, incaricò Benito Mussolini di formare il nuovo governo. Avrebbe potuto far intervenire l’esercito per combattere e disperdere gli “insorti”, invece mentre le forze armate si preparavano a fronteggiare “le camicie nere”, –  con Badoglio fra i principali esponenti della linea, giustamente dura –, Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare il decreto di stato d’assedio di fatto aprendo la strada al fascismo.

Poco interessa oggi sapere se lo abbia fatto per viltà, opportunismo e calcolo politico: fu comunque il re a nominare Mussolini capo del Governo dando il via alla tragedia ventennale di quel regime.

Non tenendo conto che nelle ultime elezioni politiche del 1919 il movimento fascista, presentatosi nel solo collegio di Milano, con una lista capeggiata da Mussolini e Marinetti, raccolse meno di 5.000 suffragi sui circa 370.000 espressi, non riuscendo a eleggere alcun rappresentante.

Non tenendo conto che i due partiti democratici e di massa nelle stesse elezioni avevano trionfato: il Partito Socialista Italiano con il 32% dei voti e 156 seggi e il neonato Partito Popolare Italiano di don Sturzo con il 20% dei voti e 100 seggi.

Mussolini di fatto esautorerà la stessa monarchia che beata e beota si godeva il suo “impero” di sabbia con le conquiste imperiali, che evidentemente riteneva dessero lustro e prestigio alla stessa monarchia, non comprendendo che invece di volare stava precipitando e con essa l’intero popolo italiano e quello sardo in primis! Abbeverato di olio di ricino, internato nelle galere e esiliato al confino, condannato per ben quattro lustri ad ulteriore sottosviluppo.

Scrive Carta Raspi:”Mussolini più volte aveva fatto grandi promesse alla Sardegna e aveva pure stanziato un miliardo da rateare in dieci anni. Era stato tutto fumo, anche perché né i ras né i gerarchi e i deputati isolani osarono chiedergli fede alle promesse. Già sarebbero state briciole; ormai le aquile imperiali spaziavano nel mediterraneo e oltre tutto veniva inghiottito dalla Libia, poi dalla conquista dell’Abissinia e dalla guerra di Spagna. Solo all’inizio della seconda guerra mondiale Mussolini si ricordò della Sardegna, per attribuirle il ruolo di portaerei al centro del Mediterraneo occidentale”. (Raimondo Carta Raspi, op, cit. pagina 914).

In conclusione Vittorio Emanuele III non separò mai le sorti e le responsabilità della dinastia da quelle del regime: sul piano interno non si oppose alla graduale soppressione delle libertà garantite dallo Statuto e non si oppose neppure all’infamia delle leggi razziali e sul piano estero non si oppose alla seconda guerra mondiale.

 

4. Vittorio Emanuele e la seconda guerra mondiale

La seconda guerra mondiale rappresenterà l’evento più drammatico che mai si sia verificato nella storia dell’umanità.

Scrive lo storico Franco della Peruta facendo una analisi complessiva:”Il bilancio del conflitto appariva sconvolgente  perché la guerra, l’ecatombe più micidiale degli annali del genere umano, tre volte superiore a quella della grande guerra – aveva fatto 50 milioni di vittime fra militari e civili…Alle perdite umane si sommarono quelle materiali, in seguito ai gravissimi danneggiamenti che colpirono molte città della Cina, del Giappone e della Germania e alle distruzioni subite dall’unione sovietica, dove furono pressoché rase al suolo 1700 città e 70.000 villaggi”. (Franco Della Paruta, Storia del Novecento, Le Monnier, Firenze, 1991, pagine 249-250).

Anche la Sardegna pagò un grande tributo. Scrive a questo proposito lo storico sardo Natale Sanna: ”Durante l’ultima guerra la Sardegna, per la sua posizione strategica, le importanti basi navali e i circa quindici campi di aviazione in essa dislocati attirò l’attenzione dei comandi alleati. Dovette perciò subire, fin dai primi anni del conflitto, numerosi bombardamenti dapprima di lieve entità, ma poi, dopo lo sbarco americano nell’Africa settentrionale, frequentissimi e massicci. Furono danneggiati circa 25 comuni, fra cui Alghero, Carloforte, Carbonia, La Maddalena, Sant’Antioco, Palmas Suergiu, Setzu, Olbia, Oristano, Milis e, più gravemente degli altri, Gonnosfanadiga, dove si ebbero 114 morti e 135 feriti. Presa di mira fu soprattutto Cagliari. Le tristi giornate del 17, 26, 28 febbraio 1943 e quella del 13 maggio (per citare le più terribili) non saranno mai dimenticate dai Cagliaritani, che hanno visto la furia devastatrice venire dal cielo e distruggere la loro città, sventrando interi rioni, sconvolgendo le vie, lasciandosi dietro una scia di cadaveri e di feriti nelle strade e nelle macerie. Migliaia di morti (che alcuni fanno ascendere a 7.00 e il 75% dei fabbricati distrutti o resi inabitabili, furono il tragico bilancio di quei giorni. (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagine 487-488).

 

5. Vittorio Emanuele III e la fuga a Brindisi. 

Persa ormai la guerra e convinto ormai che il disastroso esito del conflitto potesse segnare non solo la fine del regime fascista ma anche quello della monarchia, Vittorio Emanuele arresta Mussolini (25 luglio 1943) e nomina nuovo capo del Governo il maresciallo Badoglio. Il giorno dopo l’Armistizio, il 9 settembre, insieme a Badoglio stesso abbandona Roma e fugge prima a Pescara e poi a Brindisi, nella zona occupata dagli alleati. L’ignominiosa fuga avrà conseguenze devastanti. E la Sardegna pagherà un altissimo tributo a questa fuga: 12.000 mila i soldati sardi IMI (fra i 750-800 mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’armistizio) verranno  rinchiusi nei lager nazisti. Per spiegare un numero così alto di militari sardi deportati occorre capire la situazione in cui si trovarono nei fronti di guerra (Grecia, Albania, Slovenia, Dalmazia) dopo l’8 settembre. Con la difficoltà di tornare in Sardegna e sbandati, –  non esistendo più una unità di comando e di direzione –  essi furono posti di fronte all’alternativa di aderire alla RSI (Repubblica sociale di Salò) o di diventare prigionieri dei tedeschi e dunque di essere imprigionati nei lager. Abbandonati da Badoglio, quasi nessuno aderì alla RSI e dunque il loro destino fu segnato.

Vittorio Emanuele II di Savoia

Vittorio Emanuele II di Savoia

Vittorio Emanuele II è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e  il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).

Nonostante gli smisurati elogi da parte di tutta la pubblicistica patriottarda, fu soprannominato il re galantuomo tesa ad esaltare le magnifiche sorti e progressive del Risorgimento italiano, la sua opera nei confronti della nostra Isola sia come ultimo re di Sardegna sia come primo re d’Italia, fu nefasta.

 

1. Vittorio Emanuele ultimo re di Sardegna.

Con Vittorio Emanuele II, dopo la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava radicato interamente sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni  con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo –  sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852).

Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione perfetta del 1847, la Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello.

Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo  della fusione  con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento ( si era presentato con il costume caratteristico dei sardi , con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia.  Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.

Il secondo episodio venne denunciato con una lettera  al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece,  erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.

 

2. Vittorio Emanuele I re d’Italia

Le cose per la nostra Isola con cambiano con l’Unità d’Italia. Se è possibile, anzi, si aggravano, ad iniziare dal campo fiscale.

 

a. Campo fiscale

Scrive a questo proposito Natale Sanna: ”La pesante contribuzione di guerra imposta dal Radestzky dopo le sfortunate campagna del 1948/49 e, soprattutto, la politica economica e militare del Cavour nel decennio di preparazione costrinsero il governo a un inasprimento della pressione fiscale. Mentre il Piemonte si avvantaggiava della politica di libero mercato e di rinnovamento, propugnata dai liberali, con l’incremento dei traffici, con la costruzione di strade e di linee ferroviarie, col progresso dell’agricoltura e col sorgere di industrie, la Sardegna, provincia periferica e priva di capitali, fu chiamata unicamente a contribuire con il suo danaro…Quando poi si decise di far pagare sul reddito fondiario si commise un’ingiustizia ancora più grave. Per le province piemontesi più povere (Valsesia, Domodossola) l’imposta fu fissata nell’1,32% del reddito, per le più ricche (Torino, Lomellina) nel 10% e per le medie del 6%.

Tutta la Sardegna fu equiparata alle più ricche e la sua aliquota fu fissata nel 10% (Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 439)

Le tasse che la Sardegna paga sono  dunque superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombreLa legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.

In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”.

Durante il suo regno fu istituita (1868) anche la tassa sul macinato, l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”. (Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440).

 

Campo politico generale

Si dirà comunque che l’Unità d’Italia fu un fatto positivo. Anche su questo occorre iniziare a fare “le pulci”. Positivo per chi?

Storici, intellettuali, scrittori e studiosi oggi in particolare ma anche nel passato esprimono dubbi e critiche, iniziando a demolire miti, monumenti nazionali (come lo stesso Garibaldi) e luoghi comuni. Iniziando a denunciare gli errori e gli orrori di quella politica militarista e di “conquista militare” che sono, fra l’altro all’origine dei problemi dell’Italia moderna.

 

a. Nascita dell’Italia o di due Italie, con una ridotta a “colonia”?

Nicola Zitara, all’inizio degli anni ’70, con alcuni intellettuali fra cui, Anton Carlo e Carlo Capecelatro che verranno poi chiamati nuovi meridionalisti, iniziò una revisione del “vecchio meridionalismo” e dell’intera “Questione meridionale” dissacrando quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista del Risorgimento; mettendo in dubbio e contestando le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e a  centro aveva sempre ritenuto, che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

Zitara e i nuovi meridionalisti ( cui oggi aggiungeremmo Pino Aprile) – in modo particolare, ripeto, Edmondo Maria Capecelatro e Antonio Carlo, quest’ultimo fra l’altro per molti anni docente incaricato di diritto del lavoro all’Università di Cagliari – ritengono che il Meridione con la Sardegna, sia diventata con l’Unità d’Italia una “colonia interna” dello Stato italiano e che dunque la dialettica sviluppo-sottosviluppo si sia instaurata soprattutto nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.

Si muovono in sintonia con studiosi terzomondisti come V. Baran e Gunter Frank che in una serie di studi sullo sviluppo del capitalismo tendono a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa.

Così come sosterrà anche Samir Amin, che soprattutto in La teoria dello sganciamento per uscire dal sistema mondiale,riprende alcune analisi che ha sviluppato nelle opere precedenti sui problemi dello sviluppo/sottosviluppo, centro/periferia, scambio ineguale.

 

Per Amin il sottosviluppo è l’inverso dello sviluppo: l’uno e l’altro costituiscono le due facce dell’espansione – per natura ineguale – del capitale che induce  e produce benessere, ricchezza, potenza, privilegi in un polo, nel ”centro” e degradazione, miseria e carestie croniche nell’altro polo, nella “periferia”.

Nel sistema capitalistico mondiale infatti i centri sviluppati (i Nord del Pianeta) e le periferie (i Sud) sottosviluppati sono inseparabili: non solo, gli uni sono funzionali agli altri. Ciò a significare che il sottosviluppo non è ritardo ma supersfruttamento. In questo modo Amin contesta la lettura della storia contemporanea vista come possibilità di sviluppo graduale del Sud verso i modelli del Nord, in cui l’accumulazione capitalistica finirà per recuperare il divario. A questo proposito ecco una

Breve bibliografia

  1. E. M. Capecelatro- A. Carlo, “Contro la Questione Meridionale”, Ed. Savelli, Roma 1972.
  2. P. A. Baran,  Il surplus economico e la teoria marxiana dello sviluppo, Feltrinelli, Milano,1975                            

    3.  Gunter Frank, “Capitalismo e sottosviluppo in America latina, Torino 1969.

    4. Samir Amin , Sulla Transizione,  Ed. Jaca-Book,   Milano, 1973

    5. Samir Amin , La teoria dello sganciamento, Ed. Diffusioni, Milano 1986.

     

    b. Unità d’Italia come “piemontesizzazione

A parte queste analisi, sia pure rigorose e credibili, è comunque assodato che l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis –  dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud –   il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.

C’è di più: si realizzerà un’unità biecamente centralista e accentrata, tutta giocata contro gli interessi delle periferie e delle mille città e paesi che storicamente avevano fatto la storia e la civiltà italiana. A dispetto del pensiero della gran parte degli intellettuali italiani che durante il “Risorgimento” e dopo furono federalisti e non unitaristi.

 

c. Unità d’Italia e peggioramento delle condizioni di vita  (nel Sud e nelle Isole)

La “Conquista militare” da parte del Piemonte del Sud Italia (la Sardegna era già stata “conquistata “ con la Fusione perfetta), comporterà gravi conseguenze sulle condizioni di vita dei lavoratori, in primis di quelli delle campagne meridionali.

Da quella scelta, da quella costosissima e sanguinosa operazione militare, deriveranno tutti i mali che affliggeranno nei secoli successivi l’Italia: il sottosviluppo del Meridione (con l’invasione piemontese e la riduzione del Sud a colonia interna e con il brigantaggio), il gravissimo deficit di democrazia (votava poco più dell’1% della popolazione) che condurrà a politiche sciagurate (come la partecipazione alla tragedia della Grande Guerra prima e al Fascismo poi).

 

d. Aumento debito pubblico

La politica del nuovo stato unitario, centralista e statalista – il cui capo di stato, ripetiamo è il re Vittorio Emanuele II – produrrà la devastazione dell’economia. Con il crollo della produzione agricola, quello delle esportazioni, un’industria (e solo al Nord!) che nasce assistita e fuori dai principi del libero mercato. Cui occorre aggiungere un colossale debito pubblico dovuto alle guerre e alle spese militari, oltre che al malgoverno.

Nel 1862, anno in cui fu presentato al Parlamento il primo bilancio del regno d’Italia, il debito nazionale era di tre miliardi di lire, all’inizio del 1891, il solo debito consolidato era di 13 miliardi di lire.

Questo immenso debito era prodotto dalle guerre e dalla politica militarista.

VIA Umberto I!

VIA Umberto I!
di Francesco Casula
Alcune motivazioni perché Umberto I di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna

Umberto I di Savoia, re d’Italia dal 1878 al 1900 fu responsabile (o comunque corresponsabile in quanto capo dello stato) delle scelte più devastanti e perniciose, che furono prese dai Governi, che operarono durante il suo regno, nei confronti della Sardegna. In modo particolare nel campo economico e fiscale,nel campo ambientale (con la deforestazione selvaggia), nel campo delle libertà civili e della democrazia, con leggi liberticide e una repressione feroce.

1. campo fiscale.
Le tasse che la Sardegna paga sono superiori alla media delle tasse che pagano le altre regioni italiane, talvolta persino superiori a quelle delle regioni più ricche. Scrive Giuseppe Dessì nel romanzo Paese d’ombre “La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.
In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”

a. tassa sul macinato
Durante il suo regno permarrà  l’imposta sul macinato (istituita nel 1868 ed abolita nel 1880), l’imposta più odiosa di tutte, “perché gravava sulle classi più povere, consumatrici di pane e di pasta e particolarmente dura in Sardegna, dove il grano veniva di solito macinato nelle macine casalinghe fatte girare dall’asinello”. (Natalino Sanna, Il cammino dei sardi, vol.III, Editrice Sardegna, pagina 440).
b. aggio esattoriale
Scrive lo storico Ettore Pais:”Nelle altre province del regno l’aggio esattoriale ha una media che non supera il 3%, in Sardegna non è minore del 7% e in alcuni comuni arriva persino a 14%” (F. Pais Serra, Antologia storica della Questione sarda a cura di L. Del Piano, Cedam, Padova, 1959, pagina245).
c. sequestro di immobili
A dimostrazione che la pressione fiscale in Sardegna era fortissima e comunque più forte che nelle altre regioni ne è una riprova il fatto che dal 1 gennaio 1885 al 30 giugno 1897 – anni in cui Umberto I è re – si ebbero in Sardegna “52.060 devoluzioni allo stato di immobili il cui proprietario non era riuscito a pagare le imposte, contro le 52.867 delle altre regioni messe insieme” (F. Nitti, Scritti nella Questione meridionale, Laterza, Bari, 1958,pagina 162). Ed ancora nel 1913 – regnante il figlio Vittorio Emanuele III, di cui vedremo – , la media delle devoluzioni ogni 1000.000 abitanti era 110,8 in Sardegna e di 7,3 nel regno, è sempre Nitti nel libro sopra citato a scriverlo.

2. Campo economico
In seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda. Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato.
La “Guerra delle tariffe con la Francia – scrive ancora Giuseppe Dessì in Paese d’ombre – aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti. Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa del Risparmio di Cagliari.
Mentre  Raimondo Carta Raspi annota: ”Nel solo 1883 erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Malauguratamente il protezionismo a beneficio delle industrie del nord e la conseguente guerra doganale paralizzarono per alcuni anni questo commercio e l’isola ne subì un danno gravissimo non più rifuso coi nuovi trattati doganali” (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 882)
Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda. Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – sostiene Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.
Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. Anche come conseguenza di ciò arrivano in Sardegna gli spogliatori di cadaveri.

3. Campo ambientale
L’Isola del «grande verde»,  che fra il XIV e XII secolo avanti Cristo fonti egizie, accadiche e ittite dipingevano come patria dei Sardi shardana è sempre più solo un ricordo. La storia documenta che l’Isola verde, densa di vegetazione, foreste e boschi, nel giro di un paio di secoli fu drasticamente rasata, per fornire carbone alla industrie e traversine alle strade ferrate, specie del Nord d’Italia. Certo, il dissipamento era iniziato già con Fenici Cartaginesi e Romani, che abbatterono le foreste nelle pianure per rubare il legname e per dedicare il terreno alle piantagioni di grano e nei monti le bruciarono per stanare ribelli e fuggitivi, ma è con i Piemontesi che il ritmo distruttivo viene accelerato. Essi infatti bruciarono persino i boschi della piana di Oristano per incenerire i covi dei banditi mentre i toscani li bruciarono per fare carbone e amici e parenti di Cavour, come quel tal conte Beltrami “devastatore di boschi quale mai ebbe la Sardegna”, mandò in fumo il patrimonio silvano di Fluminimaggiore e dell’Iglesiente.
Con l’Unità d’Italia infine si chiude la partita con una mostruosa accelerazione del ritmo delle distruzioni, specie con il regno di Umberto I a fine Ottocento. Scriverà Eliseo Spiga” lo stato italiano promosse e autorizzò nel cinquantennio tra il 1863 e il 1910 la distruzione di splendide e primordiali foreste per l’estensione incredibile di ben 586.000 ettari, circa un quarto dell’intera superficie della Sardegna, città comprese”. (La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006, pagina 161).
Mentre il poeta Peppino Mereu, a fine Ottocento, mette a nudo la “colonizzazione” operata dal regno piemontese e dai continentali, cui è sottoposta la Sardegna, proprio in merito alla deforestazione: Sos vandalos chi cun briga e cuntierra/benint dae lontanu a si partire/sos fruttos da chi si brujant sa terra, (I vandali con liti e contese/ vengono da lontano/a spartirsi i frutti/dopo aver bruciato la terra). E ancora: Vile su chi sas jannas hat apertu/a s’istranzu pro benner cun sa serra/a fagher de custu logu unu desertu (Vile chi ha aperto la porta al forestiero /perché venisse con la sega/e facesse di questo posto un deserto).
E Giuseppe Dessì, sempre nel suo romanzo Paese d’ombre scrive: La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno.  

4. Gli spogliatori di cadaveri
Gramsci in un articolo del 1919 sull’Avanti, censurato e scoperto tra Carte d’archivio decenni dopo e fortemente critico nei confronti della politica italiana postunitaria, scrive che : I signori di Torino e la classe borghese torinese ha ridotto allo squallore la Sardegna, privandola dei suoi traffici con la Francia ha rovinato i porti di Oristano e Bosa e ha costretto più di centomila Sardi a lasciare la famiglia per emigrare nell’Argentina e nel Brasile”.
Infatti in seguito alla rottura dei Trattati doganali con la Francia (1887) e al protezionismo tutto a beneficio delle industrie del Nord, fu colpita a morte l’economia meridionale e quella sarda: di qui lì emigrazione biblica.
Con la “guerra” delle tariffe voluta da Crispi, i prodotti tradizionali sardi (ovini, bovini, vini, pelli, formaggi) furono deprivati degli sbocchi tradizionali di mercato. Nel solo 1883 – ricorda lo storico Carta-Raspi – erano stati esportati a Marsiglia 26.168 tra buoi e vitelli, pagati in oro. Dopo il 1887 tale commercio crollerà vertiginosamente e con esso entrerà in crisi e in coma l’intera economia sarda.
Salgono i prezzi dei prodotti del Nord protetti: le società industriali siderurgiche e meccaniche fanno pagare un occhio della testa – annota Gramsci – ai contadini, ai pastori, agli artigiani sardi con le zappe, gli aratri e persino i ferri per cavalli e buoi.
Di contro crollano i prezzi dei prodotti agricoli non più esportabili: il vino, da 30-35 e persino 40 lire ad ettolitro, rende adesso non più di 6-7 lire. Discende bruscamente il prezzo del latte. E s’affrettano a sbarcare in Sardegna quelli che Gramsci chiama “Gli spogliatori di cadaveri” .
1° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono gli industriali caseari. I signori Castelli – scrive Gramsci – vengono dal Lazio nel 1890, molti altri li seguono arrivando dal Napoletano e dalla Toscana. Il meccanismo dello sfruttamento (ed è un lascito della borghesia peninsulare non più rimosso) è semplice: al pastore che privo di potere contrattuale, deve fare i conti con chi gli affitta il pascolo e con l’esattore, l’industriale affitta i soldi per l’affitto  del pascolo, in cambio di una quantità di latte il cui prezzo a litro è fissato vessatoriamente dallo stesso industriale.
Il prezzo del formaggio cresce ma va ai caseari e ai proprietari del pascolo o ai grandi allevatori non ai pastori che conducono una vita di stenti, aggravati dalle annate di siccità e dalle alluvioni:conseguenze e prodotti del disboscamento della Sardegna, opera  di un’altra categoria di spogliatori di cadaveri.
2° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono gli industriali del carbone – secondo Gramsci – che scendono dalla Toscana. Stavolta il lascito perla Sardegna è la degradazione catastrofica del suo territorio. L’Isola è ancora tutta boschi. Gli industriali toscani ne ottengono lo sfruttamento per pochi soldi.: a un popolo in ginocchio anche questi pochi soldi paiono la salvezza, scrive ancora Gramsci.
Così – continua l’intellettuale di Ales –L’Isola di Sardegna fu letteralmente rasa suolo come per un’invasione barbarica. Caddero le foreste. Che ne regolavano il clima e la media delle precipitazioni atmosferiche. La Sardegna d’oggi alternanza di lunghe stagioni aride e di rovesci alluvionanti, l’abbiamo ereditata allora.
Massajos ridotti in miseria dalla politica protezionista di Crispi e pastori spogliati dagli industriali caseari, s’affollano alla ricerca di un lavoro stabile nel bacino minerario del Sulcis Iglesiente. Dove troveranno altri  spogliatori di cadaveri.
3° categoria di spogliatori di cadaveri
Sono quelli che arrivano dalla Francia, dal Belgio e da Torino per un’attività di rapina delle risorse del sottosuolo. Ricordiamo  che il 9 settembre del 1848, ad appena otto mesi dalla Fusione perfetta, fu esteso alla Sardegna un Editto, già operante nella terraferma, che assegnava la proprietà delle miniere – e tutte le risorse del sottosuolo – allo Stato. Questo, per quattro soldi le darà in concessione a pochi “briganti”, in genere stranieri ma anche italiani.
“Essi si limiteranno – scrive Gramsci –  a pura attività di rapina dei minerali, alla semplice estrazione, senza paralleli impianti per la riduzione del greggio e senza industrie derivate e di trasformazione”
Certo, gli occupati nelle industrie estrattive passeranno da 5 mila (1880) a 10 mila (1890) ma in condizioni inumane di lavoro (11 ore consecutive) e di vita: La Commissione parlamentare istituita dopo i moti del 1906 scriverà: Si mangia un tozzo di pane durante il lavoro e per companatico mangeranno polvere di calamina o di minerale”.
Sempre nella relazione della Commissione parlamentare si dice testualmente:S’attraversano ancora oggi nel Sulcis Iglesiente villaggi nati allora, lascito della borghesia mineraria con intonaci scomparsi, pavimenti trascurati, filtrazioni di umidità, insetti immondi, annidati dappertutto.
Ad essere date in concessione non erano solo le miniere di carbone ma anche quelle di piombo, argento, zinco, rame.

5. Nel campo delle liberta e della democrazia. La “Caccia grossa” e i fatti di Sanluri.
Umberto I non fu solo connivente con la politica coloniale,autoritaria, repressiva e liberticida dei Governi di fine Ottocento, da Crispi in poi, ma un entusiasta sostenitore: appoggio le infauste “imprese” in Africa (con l’occupazione dell’Eritrea (1885-1896) e della Somalia (1889-1905), che tanti lutti e spreco di risorse finanziarie comportò: ben 6.000 uomini (morirono nella sola battaglia e sconfitta di Adua nel 1896 e 3.000  caddero prigionieri.
Fu altrettanto sostenitore del tentativo, di imporre leggi liberticide da parte del governo del generale Pelloux nel 1898, tendenti a restringere le libertà (di associazione , riunione ecc) garantite dallo Statuto. Sempre nel 1898 (8 e 9 maggio), “le truppe del generale Fiorenzo Bava Beccaris spararono sulla folla inerme uccidendo circa 80 dimostranti e ferendone più di 400” Franco della Paruta, Storia dell’Ottocento, Ed. Le Monnier, Firenze, 1992, pagina 461).
Ebbene il re Umberto, ribattezzato dagli anarchici Re mitraglia, forse per premiare il generale stragista per la portentosa “impresa” non solo lo insignì della croce dell’Ordine militare di savoia ma in seguito lo nominerà senatore!
Questo in Italia. In Sardegna l’anno seguente nel 1899 assisteremo alla “Caccia grossa”! Il capo del governo, il generale Pelloux – quello delle leggi liberticide che non passeranno solo per l’ostruzionismo parlamentare della Sinistra – invierà in Sardegna un vero e proprio esercito che, con il pretesto di combattere il banditismo,  nella notte fra il 14 e il 15 maggio arrestò migliaia di persone.
Ecco come descrive  la Caccia grossa Eliseo Spiga ”Lo stato rispondeva la banditismo cingendo il Nuorese con un vero e proprio stato d’assedio, senza preoccuparsi,,,di un’intera società che si vedeva invasa e tenuta in cattività come un popolo conquistato…Ed ecco gli arresti, a migliaia donne, vecchi e ragazzi…sequestrate tutte le mandrie e marchiate col fatidico GS, sequestro giudiziario…venduti in aste punitive tutti i beni  degli arrestati e dei perseguiti…Gli arrestati furono avviati a piedi, in catene, ai luoghi di raccolta, Un sequestro di persona in grande, per fare scuola”- ((La sardità come utopia, note di un cospiratore, Ed. CUEC, Cagliari 2006, pagina 162).
Ma la Sardegna, la repressione poliziesca durante il regno di Umberto I l’aveva conosciuta anche prima del 899, in particolare a Sanluri. In questo grosso centro del Campidano, in un clima di povertà, di incertezza e disperazione, il 7 agosto 1881, scoppiò una sommossa popolare contro il carovita e gli abusi fiscali, (SU TRUMBULLU DE SEDDORI ), sommossa repressa violentemente: ci furono 6 morti.
Il fatto suscitò notevole apprensione in tutta l’isola. e in gran parte della terra ferma, per i morti e per le gravi conseguenze giudiziarie .
L’8 novembre 1882 ebbe inizio il ” PROCESSO” giustamente chiamato della fame, perché venivano processati dei poveracci morti di fame: Tale processo per il numero degli imputati e per la sua durata, (terminò il 26 febbraio 1883) fu ritenuto uno dei processi più importanti dell’isola.
La sentenza fu molto pesante, soprattutto verso alcuni imputati giovanissimi: Venne condannato a 10 anni di reclusione Franceschino Garau Manca, detto “Burrullu” di anni 16, mentre Giuseppe Sanna Murgano di anni 19  ed Antonio Marras Ledda di anni 18 furono condannati a 16 anni di Lavori Forzati.

C’è da spostare una statua

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C’è da spostare una statua

di Francesco Casula

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”. Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che  a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sustraordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla a proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime  responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato “re mitraglia” e, non a caso. L’8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario al centro di  Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia “ricompensa” il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l’ingresso dell’Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l’avventura tragica del Fascismo – fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo – conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto – almeno per la Sardegna – è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, Ed. La Biglioteca dell’Identità, 2013, pagina 154) :” Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi. Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei

feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.
E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo”.

Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico) : “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui  diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché :De evidentibus non est disputandum”!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi? 

CARLO FELICE

 

FRANCESCO CILOCCO

Un grande eroe, martire e patriota sardo, morto per la libertà e l’indipendenza della Sardegna. Colpevolmente sconosciuto e dimenticato dagli stessi Sardi.

Assassinato dal dominio poliziesco e tirannico dei savoia, regnante come vice re CARLO FELICE

 Est ora de l’amentare!

 

di Francesco Casula

 

Patriota ed eroe nazionale sardo (Cagliari 1769 –Sassari 1802).

Figlio di Michele e fratello di Antonio, poi implicato nella Rivolta di Palabanda. Notaio della Reale Udienza. Repubblicano convinto, pur avendo combattuto contro i rivoluzionari francesi nel 1793, per difendere Cagliari e la Sardegna dalla loro aggressione e tentativo di conquista.

Fu seguace e amico di Giovanni Maria Angioy e, insieme a lui protagonista nelle lotte e nelle ribellioni antifeudali e nazionali dei Sardi contro il feudalesimo e il dominio tirannico e poliziesco dei Savoia.

Nel novembre del 1795, col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy, fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari. Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari.

“L’invio dei tre commissari, secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno, è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi, in tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari”(1).

Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri” (2).

Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo

 

aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale”(3).

Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Ciloccco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”(4)

AOsilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.

Una lotta cheassume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”(5).

I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano –  vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” (6).

Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze”(7).

Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche

 

 

 

del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosavoia, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la

qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.

Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno“l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.

A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco  e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono  con 500 uomini armati.

Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.

Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.

“Non sembra – scrive Bruno Anatra – che il Cilocco facesse parte del gruppo che nel corso dello stesso anno, seguì Angioy nella sua missione a Sassari e nella successiva, rapidamente abortita, spedizione su Cagliari. È certo invece che, appena la repressione da strisciante si fece palese, anche il Cilocco prese la via dell’esilio e raggiunse il gruppo giacobino sardo a Parigi. Di qui, nella convinzione dell’imminenza di una azione francese in direzione della Sardegna, nella primavera del 1799, gran parte di essi si trasferivano in Corsica. Del gruppo faceva parte il Cilocco che nel gennaio 1801 risulta fosse ad Ajaccio” (8).

 

 

E’ comunque certo che il 21 maggio del 1802 si trasferisce in Corsica, insieme a Mundula, Sanna Corda e altri. Con Sanna Corda in particolare  collabora per preparare il progetto di una insurrezione in Sardegna: che avrebbe dovuto contare questa volta  – dopo i tentativi sempre falliti di coinvolgere truppe francesi – esclusivamente sui Sardi ancora fedeli ad Angioy e comunque nemici giurati del feudalesimo e dei governanti piemontesi, per fondare una repubblica sarda indipendente.

Negli ultimi mesi del 1799 c’era stata la rivolta, sanguinosamente repressa, di Thiesi e Santulussurgiu, segno agli occhi di Cilocco che lo spirito antifeudale nel Logudoro era ancora vivo. E dunque si poteva dare un corso diverso alla storia della Sardegna. Nonostante la monarchia sabauda con i suoi scherani, avesse “già raso al suolo più di un villaggio, inaugurato la forca itinerante, tagliato molte teste, ingalerato a piacimento innocenti e sospetti, seviziato donne e frustato bambini”(9).

Essi inoltre contavano, per costituire una solida base di appoggio, sull’irriducibile banditismo dei, pastori galluresi. All’uopo presero contatto con un famigerato bandito e contrabbandiere, Pietro Mamia, e per suo tramite con i pastori del circondario di Aggius, prospiciente la sponda corsa. Fu una scelta imprudente e suicida:il Mamia farà il doppio gioco: interessato com’era più a ottenere la cancellazione dei suoi delitti da parte delle autorità galluresi che  alla proclamazione della repubblica sarda.

Il progetto prevedeva lo sbarco in Gallura che  avrebbe dovuto provocare la sollevazione della Sardegna. Un primo tentativo nel maggio 1802 fallì. Ripetuto in giungo con un manipolo di uomini, prevedeva lo sbarco del Sanna Corda ai piedi della torre di Longonsardo (l’attuale Santa Teresa di Gallura) e del Cilocco presso la torre dell’Isola Rossa. La spedizione ebbe un esito tragico: il Sanna Corda che aveva espugnato la torre e alzato la bandiera della libertà, inviando alle autorità galluresi lettere in nome della repubblica francese, fu attaccato da un piccolo corpo di spedizione inviato da La Maddalena e cadde combattendo sotto le mura della torre (19 giugno). Cilocco, tradito da Mamia, cui si era affidato soprattutto per la conoscenza dei luoghi, fu narcotizzato (con un vino oppiato) o, comunque sorpreso nel sonno e consegnato ai soldati inviati da Sassari il 25 luglio del 1802.

Secondo Giovanni Siotto Pintor invece, braccato per le campagne, con una taglia sul capo di 500 scudi, fu catturato da numerosi banditi, ecco cosa scrive in proposito “fu fermo da quattordici malandrini intesi a procacciarsi l’impunità, trascinato a d’orso d’asino insino a Sassari, flagellato orribilmente dal boia, afforcato”(10).

L’eroe sardo, fu così umiliato (fu infatti messo, sanguinante e pesto, su un asino e fatto entrare prima a Tempio e poi a Sassari, – dopo aver attraversato molti altri paesi sempre sul dorso di un asino – fra la folla accorsa a vedere lo spettacolo e una ciurma di giovinastri prezzolati che fischiavano e gridavano), colpito da una frusta, di doppia suola intessuta con piombo, a tal punto che non può rimanere né in piedi né coricato ma carpone. Una fustigazione deprecata persino da uno storico conservatore

 

 

 

 

come il Manno che scrive ”alla mano del manigoldo non fu lasciato l’arbitrio di quella naturale umanità che poteva sorgere anche nel cuore di un carnefice. Egli fu talmente aizzato da quei notabili andategli incontro, che il carnefice stesso ebbe a mostrarsene indispettito. Il barone maggiore soprannominato il Duca dell’Asinara, dal balcone del suo palazzo lanciava parole di crudele beffa contro l’infelice frustato…”

La supplica che gli venga comminata la pena del carcere perpetuo o il perpetuo esilio è respinta da Placido Benedetto di Savoia, Conte di Moriana, (fratello del re di Sardegna Carlo Emanuele IV). Cedendo – scrive Carta Raspi – ai suoi istinti sbirreschi.

Insieme all’altro fratello, Carlo Felice, vice re e re ottuso e famelico, (sarà soprannominato Carlo Feroce dal poeta e patriota piemontese Angelo Brofferio) l’infame Conte di Moriana ricorrerà  dopo il generoso tentativo del Cilocco e del Sanna Corda, a una repressione violenta e brutale nei confronti dei Sardi patrioti, anche vagamente sospettati di aver preso parte alla tentata insurrezione.

Il Cilocco fu quindi condannato a morte l’11 agosto del 1802, e il 30 pur disfatto per le torture subite, recuperata la propria lucidità, con animo forte – scrive il Martini – saliva sulla forca.

“Non gli fu neppure risparmiata la tortura della corda e delle tenaglie infuocate. Il corpo verrà bruciato e le ceneri saranno disperse al vento, la testa conficcata sul patibolo i beni confiscati” (11).

“Questo supplizio – ricorda Fabritziu Dettori in una bella ricostruzione della figura dell’eroe sardo – gli fu inferto con così zelo che dalle spalle e dalla schiena gli aguzzini riuscivano a strappargli la pelle a «lische sanguinanti». Sollevato sul patibolo semi vivo, fu impiccato e, da morto, decapitato. Il suo corpo fu bruciato e le ceneri sparse al vento. Ma la malvagità savoiarda, non sazia, sancì, in tributo alla causa antisarda, che la testa del Patriota sardo fosse rinchiusa dentro una gabbia di ferro ed esposta, a scopo intimidatorio, all’ingresso di «Postha Noba», mentre nelle altre «Porte» della città i lembi della sua carne completavano l’orrore. Il macabro monito rimase esposto per giorni e giorni…” (12).

”Giustizia sabauda e spettacolo per la popolazione sassarese che assistè in bestiale gazzarra alla fustigazione e alla impiccagione”(13), commenta amaramente Raimondo Carta Raspi.

Macabro ammonimento, aggiungo io, nei confronti dei Sardi, da parte dei più crudeli, spietati, insipienti, famelici e ottusi (s)governanti che la Sardegna abbia avuto nella sua storia, i Savoia e Carlo Felice in primis.

Cilocco aveva 33 anni. Un grande eroe e patriota sardo, sconosciuto e dimenticato, Est ora de l’amentare!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note bibliografiche

1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.

2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.

3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.

4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.

5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.

6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 156.

7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.

8. Bruno Anatra, Dizionario Biografico degli Italiani, Ed.Treccani,  Volume 25 (1981).

9. Eliseo Spiga, La sardità come utopia – Note di un cspiratore, Cuec, Cagliari 2006, pagina 105.

10. Giovanni Siotto Pintor, Storia civile dei popoli sardi dal 1798 al 1848, Casanova, Torino 1887, pagina 45.

11. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 159.

12. Fabritziu Dettori, Francesco Cilocco, un eroe dimenticato, in Sotziu Limba sarda, 10-5-2005.

13. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 847

Francesco Casula: perché spostare la statua di Carlo Felice

 

 

PESA SARDIGNA

Blog anticolonialista

 

Francesco Casula: perché spostare la statua di Carlo Felice

Abbiamo intervistato Francesco Casula, un noto storico sardo, sulle motivazioni della richiesta di rimozione della statua di Carlo Felice dal centro di Cagliari.

 

  • Da dove nasce la petizione “Spostiamo la statua di Carlo Felice”?

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Il promotore del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” è stato il professore universitario Giuseppe Melis Giordano. Io ho aderito subito e volentieri offrendo il mio contributo soprattutto dal punto di vista storico. Perché l’appello? Perché un popolo deve innalzare monumenti ai propri eroi non ai propri carnefici. E Carlo Felice tale è stato, per ammissione di tutti gli storici liberi.: un viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo “privato tesoro”, depositando i soldi nelle banche londinesi mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile. Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani”. Ai feudatari, da viceré, – scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi – diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di “carnefice e giudice dei suoi concittadini”. Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

  •  Qual’è stato storicamente il rapporto tra i sardi e i Savoia?

I savoia, letteralmente, odiavano i Sardi, Li disprezzavano. Di qui l’oppressione economica e fiscale, la repressione e il terrore: soprattutto da parte di Carlo .Felice. Il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi “je ne connais rien dans l’univers au-dessous (sotto) des molentes”, soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : “Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait”.

Purtroppo molti, troppi sardi, riversano nei confronti dei savoia simpatie e consensi. E persino entusiastiche acclamazioni:annotano alcuni storici. Sindrome di Stoccolma? O opera degli ascari locali? Propenderei per questa ipotesi, sulla scia di Pietro Martini che scrive:”Le acclamazioni furono poche e queste furono comprate o vennero dagli uomini del privilegio, del favore e della reazione”.

  • Savoia a parte, sembra che i sardi non abbiano nessuno a cui dedicare le vie e le piazze. Non abbiamo una nostra storia, dei nostri poeti, dei personaggi di spicco?

 La scuola italiana in Sardegna, da sempre, con una impostazione pedagogica, didattica e culturale coloniale e italocentrica, ha proibito, negato e  interrato, in primis la lingua sarda. E con essa la nostra ricca e variegata poesia e letteratura. Proprio in questi ultimi anni ho pubblicato due volumi su “Letteratura e civiltà della Sardegna” da cui emergono decine e decine di Autori, universalmente riconosciuti come poeti e romanzieri di altissimo valore, che la scuola ha cancellato:sic et simpliciter. Penso a Grazia Deledda, Lussu, Salvatore Satta; penso a Peppino Mereu  Montanaru, Cicitu Masala, Benvenuto Lobina.

Una scuola che ha cancellato omines e feminas de gabale, (penso a Eleonora d’Arborea ma anche a Marianna Bussalai) o intellettuali di livello europeo come Sigismondo Arquer; o eroi come Giovanni Maria Angioy e con esso Francesco Cilocco o Sanna Corda, vittime della violenta repressione dei Savoia e soprattutto di Carlo Felice. Un popolo libero e orgoglioso a questi personaggi deve dedicare le sue piazze, le sue vie, i suoi monumenti. Non agli oppressori.

  •  Qualcuno ha detto che la cancellazione sistematica della lingua e della memoria storica di un popolo sono da considerarsi un genocidio, a prescindere dalla presenza di omicidi di massa. I sardi stanno subendo un genocidio?

Sì è proprio così. Lo scriveva fin dagli anni ’70 Antonio Simon Mossa: “Un processo forzato di integrazione minaccia l’identità culturale, linguistica ed etnica”. Un vero e proprio genocidio sia pure – cito ancora Simon Mossa – “sotto ad innocente maschera della difesa di determinati interessi di classe o di casta, di privilegi, di antiche sopraffazioni … con i guanti di velluto anziché col bastone”.

Perché si commette genocidio, prosegue l’intellettuale algherese: “Non solo distruggendo fisicamente un popolo. Vi sono altri modi: assoggettandolo a schiavitù e a regime coloniale, assimilandolo per mezzo dell’integrazione: questo è il più moderno, il più subdolo perché incomincia con l’intorpidimento delle coscienze, ma il punto di arrivo è lo stesso: l’uccisione della coscienza comunitaria di un popolo e la distruzione della sua personalità”.

  • Perché la sinistra italiana (cioè quella sinistra che non mette in discussione il rapporto coloniale con l’Italia della Sardegna) non apprezza la lotta per cambiare la toponomastica degli indipendentisti e di alcuni intellettuali sardi?

La sinistra italiana – ma in genere il marxismo occidentale –  è stata storicamente statalista e centralista. Per la verità con dei maestri e teorici illustri come Engels: “Il proletariato – affermava nel 1847 – può utilizzare soltanto la forma della repubblica una e indivisibile” e “non solo ha bisogno dell’accentramento com’è avviato dalla borghesia, ma dovrà addirittura portarlo più avanti”. Per questo lo stesso Engels combatte il Federalismo “perché semplice espressione di anacronistici particolarismi provinciali”.  Fa eccezione l’austromarxismo. Ricordo che nel 1899 al Congresso socialista austriaco si sostenne che la “soluzione delle questioni nazionali faceva parte degli interessi del proletariato ed era compito del Movimento socialista ed operaio coltivare e sviluppare le specificità nazionali di tutti i popoli dell’Austria”.Peraltro in sintonia con il Marx più rivoluzionario che sosteneva: “un popolo che opprime un altro popolo non può mai essere libero” e a proposito della Questione irlandese affermava: “la vittoria della classe operaia inglese non può risolvere la Questione irlandese, sarà invece la soluzione della Questione irlandese a favorire e rendere possibile la vittoria della classe operaia”. Il PCI  si è sempre mosso in direzione opposta: non ha mai capito né voluto riconoscere il colonialismo interno né tanto meno sostenuto i diritti dei popoli: ad iniziare da quello dell’autodeterminazione e, dunque dell’indipendenza. Di qui la sua ostilità verso tutto quello che è sardo: ad iniziare dalla toponomastica.

 8-5-2016

 

https://www.change.org/p/sindaco-spostiamo-la-statua-di-carlo-felice-istesiemus-s-ist%C3%A0tua-de-carlo-felice

I trombettieri di Renzi. Ovvero i piscia tinteris e la zerbinocrazia

Francesco Casula

Il mal vezzo di salire nel carro dei vincitori e di adulare i potenti è un tratto peculiare della storia italiana. Ad iniziare da molti storici romani, cronachisti medievali, cortigiani rinascimentali, velinari fascisti. Lo storico Santo Mazzarino in tre monumentali volumi sul “Pensiero storico classico” (Ed. Laterza) sostiene alla luce di un enorme cumulo di documenti, di scoperte e di ritrovamenti archeologici che buona parte della storia romana – quella insomma che abbiamo studiato a scuola – è stata inventata spesso di sana pianta, dagli storici latini e dai cronachisti di quel periodo. E il tutto per esaltare i Cesari, e per mitizzare la virtus romana e il popolo eletto dagli dei per regere imperio populos. “Romanità” che, ohimè, ammorba ancora, mistificandola e falsificandola, la storia italiota, quella risorgimentale in specie. Non sono da meno in quanto a mancanza di rigore storico e a svarioni, o addirittura a veri e propri falsi, gli storici “cristiani” medievali: fra l’altro “inventarono” un documento secondo cui l’imperatore Costantino con un decreto avrebbe donato a Papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio. Con tale documento apocrifo volevano giustificare e legittimare il potere temporale dei papi e della Chiesa. Ci avrebbe poi pensato Lorenzo Valla, umanista brillante e colto, a demistificare e sbugiardare tale falso, con le armi finissime e scientifiche della filologia, della paleografia e dell’archeologia, con un celebre opuscolo ”De falso credita et ementita Constantini donatione” del 1440. Con il Rinascimento la gran parte degli scrittori e “intellettuali” diventano cantori e giullari dei Principi. Cortigiani. In tempi a noi più vicini, durante il fascismo, – pur con lodevoli ed eroiche eccezioni – specie i giornalisti, diventano semplici velinari. Durante il fascismo, bene in evidenza sotto la testata dell’Unione Sarda in prima pagina campeggiava la scritta:” Dove il Duce vuole”. Nell’Italia “democratica” la piaggeria e il servilismo nei confronti dei nuovi potenti continua da parte dei Media: in primis della Rai-Tv. In cui la censura permane, brutale. A farne le spese sono – ma è solo un esempio – due comici particolarmente urticanti e corrosivi: Dario Fo e Beppe Grillo. Dario Fo (premio Nobel per il teatro nel 1997) insieme a Franca Rame, nel 1962, è conduttore e autore dei testi del varietà Canzonissima. Le sue scenette sulla mafia e sulle fabbriche (in particolare quelle che parlano di incidenti sul lavoro) non piacciono ai vertici della RAI. I due sono costretti ad abbandonare la trasmissione. Beppe Grillo viene allontanato dalla televisione nel 1986. Durante un programma attacca duramente i socialisti (racconta che quando Craxi era andato in Cina accompagnato da decine di compagni di partito, Claudio Martelli, il suo vice, gli ha domandato: “Ma se sono tutti socialisti, a chi rubano?”). Con Berlusconi, attraverso il cosiddetto“decreto bulgaro”, gli strali della censura colpiscono soprattutto, insieme a due giornalisti di gran vaglia come Enzo Biagi e Michele Santoro, l’autore satirico Daniele Luttazzi. Gli è che i potenti hanno paura della satira perché niente è più irriverente ed eversivo del sorriso. Che può frantumare i bastioni della paura, rendendo ridicolo il potente. Il sorriso è infatti capace di scomporre gerarchie sociali e indebolire il sistema. Che viene sezionato e raccontato con le parole acuminate dell’ironia. Ecco perché il potere non tollera la satira e, quando può cerca di cancellarla. La satira per sua natura é beffarda e dissacrante, deve decostruire per poter modificare, é una lente di ingrandimento che può sminuire o enfatizzare o comunque disvelare ogni giustificazione, vanagloria, e presunzione che affligga personaggi come il ragazzotto di Firenze. Non a caso nell’era Renzi la satira è pressoché scomparsa. E non ha nemmeno avuto bisogno di censure e decreti. E’ bastata l’autocensura. Per cui oggi assistiamo al degrado e all’assoggettamento dei Media, ove la parola d’ordine pare sia “accondiscendenza sempre e comunque” e non solo nei riguardi del potere ma del pensiero dominante, in ordine a ogni tipo di vicenda: dalla cronaca al calcio allo spettacolo. All’opera un esercito di giornalisti (e intellettuali?) infeudati, cortigiani e adulatori:la “zerbinocrazia”, li chiama Marco Travaglio, i piscia tinteris e gli imbrutta paperi li chiamava il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala. In servizio permanente, nel tentativo (in parte riuscito) di cloroformizzare l’opinione pubblica, per assicurare consensi e voti a un sistema politico ed economico inetto e cialtrone o comunque mediocre e spesso ottuso e corrotto. Un sistema che – a leggere i giornali e guardare la TV – ci regalerebbe o comunque ci regalerà benessere e prosperità. Non avvedendosi che ci sta invece inabissando in un malessere viepiù insopportabile: con l’attentato alla Costituzione,. modificandola in senso autoritario, una legge elettorale liberticida, l’ulteriore precarizzazione del lavoro, la devastazione della scuola, la derubricazione della Questione meridionale e di quella sarda in specie, dall’Agenda del Governo. E il giornalista cane da guardia del potere? Almeno in Italia – salvo rarissime eccezioni – è scomparso. E’ diventato “cane da compagnia, o da riporto” per citare ancora Travaglio. E mi pare persino inutile consigliare allo stuolo dei velinari renziani di rileggersi Voltaire che nel suo “Del principe e delle lettere” ci esorta a meditare sul ruolo dell’informazione e dell’intellettuale in genere: “il suo campo – scrive – non può essere che quello della libertà…l’opera dell’intellettuale deve essere mantenuta separata dal potere, qualunque forma esso assuma, altrimenti significherebbe abdicare alla propria funzione di libertà”. Sullo stesso crinale si muove Varlan Shalamov, uno scrittore perseguitato dal regime sovietico che sostiene “ogni scrittura è sempre una scrittura contro il potere”. O Albert Camus, secondo il quale lo scrittore doveva essere la sentinella dei diritti dell’uomo e presidiare la dignità umana, dovunque fosse violata, facendo emergere – come sosteneva Gorky – ciò che è in ombra. – See more at: http://www.manifestosardo.org/i-trombettieri-di-renzi-ovvero-i-piscia-tinteris-e-la-zerbinocrazia/#sthash.AfGg85YS.T6KFxFhK.dpuf

Il fallimento della petrolchimica entra nella poesia sarda

Il fallimento della petrolchimica entra nella poesia sarda

16 ottobre 2015

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Francesco Casula

Dopo aver popolato interi studi e saggi economici-sociali, storico-politici e persino etno-antropologici il fallimento dell’industrializzazione petrolchimica in Sardegna è entrato prepotentemente anche nella letteratura e poesia sarda. Il più noto scrittore che ha preso a roncolate quell’ipotesi di sviluppo, che doveva creare lavoro e prosperità per la nostra Isola, è stato sicuramente Francesco Masala.

Nelle sue poesie come nei suoi romanzi. Canta in Innu nou contra a sos feudatarios (A sa manera de F. I. Mannu) :”Trabagliade, trabagliade/petrochimicos operajos/pro su pane tribulade/cun su ‘inari ‘e sa Rinaschida/ingrassan sos de Milanu/e a bois lassan su catramu./Trabagliade, trabagliade,/in sa chejas de petroliu/de Sarrok a Portoturre:/sa cadena de trabagliu/cun sa matta mesu piena/est trabagliu de cadena”.

Ma è soprattutto nel romanzo Il dio petrolio, tradotto in ungherese e in francese (con il titolo Le curè de Sarrok) eambientato proprio a Sarrok (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra), che Masala condurrà la critica più feroce e serrata a quel tipo di industria che avvelenerà e devasterà alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo anche a livello antropologico le popolazioni.

Personaggio emblematico è un sacerdote di un villaggio contadino (Arasolè) che viene trasferito nel nuovo polo di sviluppo industriale dove subisce l’inerrestabile inquinamento etnico, etico e religioso.

Il prete, Don Adamo, nonostante la chiesa nuova e il campanile nuovo, si sente nella sua chiesa come in una cattedrale nel deserto, a dispetto di ecclesia che vuol dire riunione, adunanza, gente riunita intorno al proprio parroco.

In essa vive in perfetta solitudinecontro natura: di qui i narcisismi, le immagini, le invenzioni di una donna: una giovane donna senza volto, simulacro mentale, feticcio sessuale, nelle cui ampie e gonfie mammelle immerge il suo volto fino a fargli mancare il respiro. In questo modo il prete pensa di vincere la sua desolata solitudine e non riceve aiuto né dalla fede, né dalla speranza, né dalla carità.

Ad Arasolè almeno era meno solo. La sua vita era strettamente legata a quella degli altri e si sentiva mezzo di comunicazione e messaggio in quanto i fatti della vita religiosa e della liturgia coincidevano con quelli della vita quotidiana, i cicli dell’uomo, della famiglia, della stagione.

E poi i pastori di Arasolè avevano ancora bisogno di Dio, perciò pregavano per l’acqua e il sole, il caldo e il freddo, la luce e il buio…gli operai di Sarrok invece non hanno più bisogno di Dio…Ormai c’è Lui.. Se c’è buio,Lui il petrolio fa luce. Se c’è freddo, Lui il petrolio aziona i termosifoni. Se c’è caldo avvia i condizionatori d’aria, se l’acqua non viene dal cielo, Lui la cava dal mare col dissalatore..

Un altro grande romanziere e poeta sardo, Benevenuto Lobina – di cui ricordo soprattutto il suo capolavoro bilingue, in due volumi, Po cantu Biddanoa – dedica alla industrializzazione petrolchimica e ai suoi artefici una fulminante poesia, Cuaddeddu Cuaddeddu. In cui immagina che un suo nonno, richiamato in vita da un terribile puzzo di sostanze chimiche decidesse di saltare a cavallo per andare a Cagliari a fare giustizia di tutti coloro che avevano favorito quello scempio economico e umano:Su chi primu appa a cassai/cun sa bella cambarada,/cuaddeddu, è su chi nada/ca ad donau a traballai/a su popullu famiu/in Sarroccu e in Portuturri/e chi si pònidi a curri/faid mort e pibizziu.

Sdegnato, ricorda poi le devastazioni ambientali che hanno causato con quel tipo di sviluppo : No a’ biu, cuaddeddu/cantu montis abruxaus,/cantu spina in is cungiaus/a infora de Casteddu?/Anti venas i arrius/alluau tottu impari/alluau anti su mari/e is tanas e is nius.

Oltre a quelle umane e sociali:Bidda’ mes’abbandonadas/a i’ beccius mesu bius/a su prant’ ’e is pippius/a pobiddas annugiadas/Oh, sa mellu gioventudi/sprazzinada in mesi mundu/scarescendu ballu tundu/scarescendu su chi fudi.

Sdegnato, con ironia e sarcasmo sferzante e financo con disprezzo individua e descrive i politici locali, ascari e mediatori del colonialismo italiano: Ddusu bisi: allepuccius/a ingiri’ ’e sa mesa/faccis prena’ de malesa/omineddus abramius./Ma appenas a bessiri/nd’ant ’e s’enna ’e s’apposentu/donniunu ad essi tentu/e tandu eus a arriri

Ascari e mediatori, insomma canes de istergiu ma di poco peso. Chi decide veramente est attesu : i ddi nau ca cussa genti/pinnigada in su corrazzu/non cumanda d’unu cazzu/funti conca’ de mollenti./Chi cumandada est’attesu/custus funti srebidoris/mancai sianta dottoris/funti genti senz’ ’e pesu.

Difficile non convenire, fotografa infatti una realtà di ieri ma anche di oggi: l’Autonomia come semplice simulacro.

Un altro poeta che, con dolore e sdegno, canta il fallimento petrolchimico, è Pinuccio Canu. Meno noto di Masala e Lobina è valente poeta in limba con due belle opere: Sa Rujada (2001), un racconto autobiografico in ottave e Contos chena tempus (2002) una silloge di racconti favolistici.

E’ nella poesia s’Eredidade di Ottana che denuncia la discrasia fra promesse e realtà: bos fattat bonu proe, malaittos/ca m’azis furriadu a remitanu/No fiant, tzertu, custos sos appiattos/da chi lassei tazos e cabbanu!

Infatti, dopo i primi anni di relativa sicurezza nel posto di lavoro, pur in un ambiente, fiagosu(malsano):Ponìa in su traballu med’afficcu/pro cant’in cussu logu fiagosu./Fattende non mi fia tzertu riccu/ma siguresa aìa e meda gosu; arriva la Cassa integrazione:ma pagu tempus sendenche coladu/su fumuderra torrat a cadone/Su sambene in su corpus s’est gheladu/ca postu m’ant in “cass’integrascione”.

Che dura anni e anni:Degh’annos m’ant lassadu pende pende/e pustis imboladu a muntonarzu./Su rimpiantu como m’est bocchende/ca non so prus nemmancu un’ervegarzu.

Si ritrova così senza il lavoro di operaio e senza le pecore. Senza identità. Costretto a bandidare. Di qui l’ulitmo malaittos,inviato ai responsabili del suo dramma. Un dramma dell’intera Sardegna.

 

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Cittadini italiani di nazionalità sarda

Cittadini italiani di nazionalità sarda

16 settembre 2015

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Francesco Casula

L’attrice sarda Caterina Murino, intervistata il 30 agosto scorso da una TV, alla domanda della conduttrice :”È vero che tu non ti consideri Italiana?” risponde:” assolutamente, non sono Italiana sono Sarda”.
In realtà l’affermazione della Murino può sorprendere solo chi si attarda a confondere Stato con Nazione. Noi infatti siamo cittadini italiani – sia pure obtorto collo e senza avere mai scelto di esserlo – ma di nazionalità sarda.
Oltretutto il “sentimento” della Murino è largamente presente fra i sardi. Ricordo che nel 2012, in un sondaggio (curato dall’Università di Cagliari e da quella di Edimburgo e finanziato dalla Regione sarda, circa l’atteggiamento dei Sardi nei confronti della propria identità) era emerso che il 27% si sente sardo e non italiano; il 38% più sardo che italiano; il 31% tanto l’uno che l’altro e solo il 3% più italiano che sardo e l’1% esclusivamente italiano.
Ma si tratta solo di un “sentimento”, di un “umore”? O, meglio, di un ri-sentimento e di un mal-umore nei confronti dello Stato italiano, storicamente ostile nei confronti dell’Isola? O sta maturando una nuova consapevolezza e coscienza della propria “diversità” e “specificità” e persino dell’essere “Nazione”? Io credo di sì. E viene da lontano.
La Sardegna, storicamente, è entrata, coattivamente, nell’orbita italiana – a parte la parentesi pisana e genovese nei secoli XI-XIII – solo agli inizi del 1700 quando viene ceduta al Piemonte, per un baratto di guerra. Per il resto ha avuto una etno-storia, peculiare e dissonante rispetto alla coeva storia italiana ed europea.
L’espressione “nazione sarda” comincia a ricorrere con frequenza e poi sempre più insistentemente in documenti (trattati e carte diplomatiche) che accompagnano le relazioni e i conflitti fra il Giudicato di Arborea e il regno d’Aragona.
L’uso del termine nazione sarda è comprovato dalle carte della corona di Arborea e sarà alla base di quel monumento storico, giuridico e linguistico della Carta de Logu.
La lotta sanguinosa fra naciò sardesca e naciò catalana non si può però considerare chiusa con la battaglia di Sanluri: infatti, affermatosi definitivamente il dominio aragonese a seguito della sconfitta dell’ultimo marchese di Oristano Leonardo Alagon, la contrapposizione fra naciò sarda e naciò catalana non scompare.
L’intellighenzia isolana, dal canto suo, se una parte rimane accecata di fronte agli splendori dell’impero spagnolo e da ascara si prostra servilmente ad esso ed evita con grande cura lo stesso termine di nazione sarda, il poeta Araolla alle lingue castigliana e catalana contrappose la lingua sarda con cui si inizia a delineare un embrionale coscienza del rapporto fra nazione e lingua. Che sarà ancor più forte nello scrittore Gian Matteo Garipa:”Totas sas nationes iscrien & istampan libros in sas proprias limbas naturales insoro…disijande eduncas de ponner in platica s’iscrier in sardu pro utile de sos qui non sun platicos in ateras limbas, presento assos sardos compatriotas mios custu libru”.
Invito a notare i termini, estremamente chiari e significativi: parla di lingua naturale – oggi diremmo materna – che tutte le nazioni, compresa la sarda, hanno il diritto-dovere di utilizzare per rivolgersi ai “compatrioti”, ovvero ai sardi, abitanti dunque della stessa “patria”.
Ma è soprattutto alla fine del ‘700, nel vivo dello scontro politico e sociale che prende sempre più corpo l’idea di nazione sarda. Ad iniziare dal triennio rivoluzionario che vedrà protagonista principale Giovanni Maria Angioy quando i Sardi, prendono coscienza di sé e del proprio essere “popolo” e “nazione”, prima quando si battono con successo contro l’invasione francese poi quando cacciano i piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794.
Il senso di “appartenenza” e di “nazione sarda” sarà fortemente presente nella stampa e negli scritti di quel periodo di grandi cambiamenti. Ancor più forte sarà il sentimento di “popolo sardo” e di “comunità nazionale” nell’Inno di Francesco Ignazio Mannu Su patriota sardu a sos feudatarios , in cui l’istanza dell’abolizione del giogo feudale si coniuga con un atteggiamento anticoloniale e un sentimento nazionale sardo.
E ancor più chiaramente tale “Identità sarda” emerge nel Memoriale di Angioy in cui l’Alternos cerca di cogliere e di interpretare i tratti distintivi, peculiari e originali della individualità sarda, cominciando dal quadro geografico e morfologico, proseguendo con cenni sugli usi, i costumi, le tradizioni, i rapporti comunitari. Con approdo dell’esperienza e della riflessione angioyna nell’esilio parigino a una repubblica sarda indipendente.
L’ingresso della Sardegna nella compagine statale unitaria, la conseguente imposizione dell’uniformismo centralistico da parte dello Stato italiano non porta alla completa omologazione o alla scomparsa di quella forte caratterizzazione individuale dell’Isola che viene messa in rilievo soprattutto nella memorialistica della seconda metà dell’Ottocento. Ma che soprattutto emergerà sul fronte nel primo conflitto mondiale con la Brigata Sassari.
A questo proposito infatti – scrive Lilliu – “Forse sarebbe utile approfondire l’analisi delle gesta belliche della Brigata Sassari nella penultima grande guerra, demitizzandola nel ruolo assegnatole dalla politica e dalla storiografia nazionalistica e fascista, di fedele e strenuo campione di amor patrio italiano. Resistendo sui monti del Grappa, guidati e formati ideologicamente da ufficiali, come Lussu, nei quali urgevano violentemente, sino a forme ritenute quasi di indipendentismo, le istanze dell’autonomia isolane, i fanti della Brigata, combattendo contro lo straniero austro-ungarico-tedesco, riassumevano tutti gli antichi combattimenti contro tutti gli stranieri conquistatori colonizzatori e sfruttatori della loro terra, comprendendo fra essi, forse gli stessi “piemontesi”, fondatori dello stato centralista e unitarista italiano. In tal senso, il momento della Brigata, può essere ritenuto una trasposizione in suolo nazionale della resistenza sarda di secoli”.

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La truffa dell’Unità d’Italia e il mito di Garibaldi.

La truffa dell’Unità d’Italia e il mito di Garibaldi.

di Francesco Casula

Il 4 luglio scorso ricorreva il 208° Anniversario della nascita di Garibaldi. Fortunatamente, ci sono state risparmiate le ondate patriottarde che negli anni scorsi avevano alluvionato giornali e media. Ma covano sicuramente sotto la cenere. Quando invece, quello che occorre è iniziare a far le bucce al “Risorgimento” italiano e alla conseguente “Unità”, senza essere tacciati di leghismo o, peggio, di essere etichettati come clericali, filoborbonici e dunque arretrati, regressivi e premoderni..

A questo proposito voglio ricordare – anche perché mi sembra molto illuminante – un curioso episodio. Negli anni ’70 escono una serie di saggi, prevalentemente di giovani intellettuali e storici meridionali ( Nicola Zitara, Edmondo Maria Capecelatro, Antonio Carlo e altri).

Nei loro saggi attraverso una puntuale e rigorosa analisi socio-economica del Meridione preunitario, sostengono e dimostrano con dati e numeri inoppugnabili, (per esempio sull’industria agro-alimentare ma anche siderurgica nel Napoletano ma non solo) che al momento dell’Unità il divario Nord-Sud non esistesse (o comunque non fosse determinante) sicché a determinare il sottosviluppo del Sud sia stata l’azione politica dello Stato unitario, In altre parole sostengono che la dialettica svilupposottosviluppo si sia instaurata nell’ambito di uno spazio economico unitario – quindi a unità d’Italia compiuta – dominato dalle leggi del capitale.

Tale tesi –  che si ricollega fra l’altro a una serie di studi sullo sviluppo ineguale del capitalismo, in modo particolare di Paul A. Baran, di Andre  Gunter-Frank e Samir Amin  – tende a porre in rilievo come la dialettica sviluppo-sottosviluppo non si instauri fra due realtà estranee o anche genericamente collegate, ma presuma uno spazio economico unitario in cui lo sviluppo è il rovescio del sottosviluppo che gli è funzionale: in altri termini lo sviluppo di una parte è tutto giocato sul sottosviluppo dell’altra e viceversa e dunque il sottosviluppo del Sud è il risultato dello sviluppo capitalistico e non della sua assenza.

Zitara, Capecelatro e Antonio Carlo furono accusati e tacciati di “nostalgie borboniche”. Perché? Per le differenti analisi – parzialmente anche rispetto a Gramsci –  sulla Questione Meridionale?

No: semplicemente perché avevano osato dissacrare quanto tutti avevano divinizzato: il movimento e il processo, considerato progressivo e progressista, del Risorgimento. Avevano osato mettere in dubbio e contestare le magnifiche sorti e progressive dello Stato unitario, sempre celebrato da chi a destra, a sinistra e a centro aveva sempre ritenuto che tutto si poteva criticare in Italia ma non l’Italia Unita e i suoi eroi risorgimentali.

Come spiegare diversamente – ma è solo un esempio – l’atteggiamento nei confronti di Garibaldi? Durante il ventennio fu santificato ed eletto “naturalmente” come padre putativo di Mussolini e del regime e dunque fu “fascista”.  Dopo il fascismo, prima nel ’48, alle elezioni politiche, la sua icona fu scelta come simbolo elettorale del Fronte popolare e dunque divenne socialcomunista. Negli anni 80 fu osannato da Spadolini – e dunque divenne repubblicano – “come il generale vittorioso, l‘eroico comandante, l’ammiraglio delle flotte corsare e l’interprete di un movimento di liberazione e di redenzione per i popoli oppressi”. Fu poi celebrato da Craxi – e dunque divenne socialista – “come il difensore della libertà e dell’emancipazione sociale che univa l’amore per la nazione con l’internazionalismo in difesa di tutti i popoli e di tutte le nazioni offese”. Infine fu persino rivendicato da Piccoli che lo fece dunque diventare  democristiano.

    Ecco, è proprio questo unanimismo, questa unione sacra – destra, sinistra centro, tutti d’accordo –  intorno al Risorgimento e ai suoi personaggi simbolo, che non convince. E’ questa intercambiabilità ideologica dei suoi “eroi” che rende sospetti. Ecco perché bisogna iniziare a fare le bucce al Risorgimento, ecco perché occorre iniziare a sottoporre a critica rigorosa e puntuale  tutta la pubblicistica tradizionale – ad iniziare dunque dai testi di storia – intorno a Garibaldi, liquidando una buona volta la retorica  celebrativa del Risorgimento. Per ristabilire, con un minimo di decenza un po’ di verità storica occorrerebbe infatti, messa da parte l’agiografia e l’oleografia patriottarda italiota, andare a spulciare fatti ed episodi che hanno contrassegnato, corposamente e non episodicamente, il Risorgimento e Garibaldi: Bronte e Francavilla per esempio. Che. non sono si badi bene, episodi né atipici né unici né lacerazioni fuggevoli di un processo più avanzato. Ebbene, a Bronte come a Francavilla vi fu un massacro, fu condotta una dura e spietata repressione nei confronti di contadini e artigiani, rei di aver creduto agli Editti Garibaldini del 17 Maggio e del 2 Giugno 1860 che avevano decretato la restituzione delle terre demaniali usurpate dai baroni, a chi avesse combattuto per l’Unità d’Italia. Così le carceri di Franceschiello, appena svuotate, si riempirono in breve e assai più di prima. La grande speranza meridionale ottocentesca, quella di avere da parte dei contadini una porzione di terra, fu soffocata nel sangue e nella galera. Così la loro atavica, antica e spaventosa miseria continuò. Anzi: aumentò a dismisura. I mille andarono nel Sud semplicemente per “traslocare” manu militari, il popolo meridionale, dai Borboni ai Piemontesi. Altro che liberazione!

 Così l’Unità d’Italia si risolverà sostanzialmente nella “piemontesizzazione” della Penisola e fu realizzata dal Regno del Piemonte, dalla Casa Savoia, dai suoi Ministri – da Cavour in primis – dal suo esercito in combutta con gli interessi degli industriali del Nord e degli agrari del Sud – il blocco storico gramsciano – contro gli interessi del Meridione e delle Isole e a favore del Nord; contro gli interessi del popolo, segnatamente del popolo-contadino del Sud;  contro i paesi e a vantaggio delle città, contro l’agricoltura e a favore dell’industria.