IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA

IL NATALE NELLA CULTURA E NELLA TRADIZIONE SARDA
di Francesco Casula
Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro in campagna. Il Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito, quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte ’e xena (notte della cena). In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle attività di ciascuna famiglia e, quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”, ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo». Proprio accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo. Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli aneddoti di vita narrati dagli anziani. In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù, cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di Natale”, Sa Miss ’e pudda, ovvero la “messa del primo canto del gallo”. In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa. Ne è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando, all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci, ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio secolare per scongiurare questi eccessi». In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si sono sposate nell’anno moribondo.
 
 
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IL NATALE NELLA TRADIZIONE SARDA

 Di Francesco Casula
Nella tradizione sarda, quando la civiltà industriale e commerciale ancora non aveva soppiantato quella contadina e agropastorale, il Natale costituiva un importante e significativo momento di aggregazione, ideale per ribadire e talvolta ripristinare la coesione del nucleo familiare temporaneamente incrinata dai vincoli derivanti dal lavoro in campagna. Il Natale basato sul messaggio di fede e speranza, si contrapponeva positivamente alla solitudine degli altri periodi dedicati alla produzione del reddito, quando, per molti mesi all’anno, il capo famiglia era costretto a vivere in freddi ricoveri di montagna, lontano dalla propria casa e dai propri cari. Il momento cardine che sanciva la ricomposizione di ciascuna famiglia e la ripresa dei contatti umani, era proprio la notte della Vigilia, definita dalla tradizione Sa notte ’e xena (notte della cena). In quest’occasione, il caminetto rappresentava il centro delle attività di ciascuna famiglia e, quindi, il punto di emanazione del calore necessario a mitigare le fredde temperature invernali. Per questo motivo, era consuetudine predisporre per le festività natalizie, un grosso ceppo appositamente tagliato e conservato Su truncu ’e xena o cotzina ’e xena. Un’atmosfera descritta in “Miele Amaro”, ripensando alla sua Orotelli, da Salvatore Cambosu: «Certo, ci vuole proprio un villaggio perché un bambino come Gesù possa nascere ogni anno per la prima volta. In città non c’è una stalla vera con l’asino vero e il bue; non si ode belato, e neppure il grido atroce del porco sacrificato, scannato per la ricorrenza. In città è persino tempo perso andar cercando una cucina nel cui cuore nero sbocci il fiore rosso della fiamma del ceppo». Proprio accanto al piacevole tepore emanato dal fuoco l’intero gruppo familiare consumava i prodotti tipici sardi della tradizione pastorale come l’agnello o il capretto arrosto con annesse frattaglie (su trataliu e sa corda), formaggi sardi e salsicce sarde ottenute da su mannale, il maiale allevato in casa. Secondo questa consuetudine i preparativi per la cena iniziavano già nei giorni precedenti la Notte Santa. Al riguardo, la tradizione orale racconta come in quella circostanza il consumo di tutte le pietanze preparate diventasse un obbligo. E proprio per questo motivo, spesso e volentieri, si ammonivano i bambini a mangiare abbondantemente, altrimenti una terribile megera chiamata “Maria Puntaborru” (in alcuni paesi del Campidano) o “Palpaeccia” (in molti paesi dell’interno), avrebbe tastato il loro ventre durante il sonno e se questo fosse risultato vuoto, avrebbe infilzato la loro pancia con uno spiedo appuntito oppure messo sul loro stomaco una grossa pietra per schiacciarlo. Dopo la cena si era soliti intrattenersi ascoltando le storie e gli aneddoti di vita narrati dagli anziani. In alternativa, il momento d’attesa era trascorso facendo ricorso a giochi tradizionali come su barrallicu, arrodedas de conca de fusu, punta o cù, cavalieri in potu, tòmbula, matzetu e set’è mesu in craru. Con l’avvicinarsi della mezzanotte, i rintocchi delle campane avvisavano la popolazione dell’imminente inizio della “Messa di Natale”, Sa Miss ’e puddu, ovvero la “messa del primo canto del gallo”. In tale circostanza tutte le chiese venivano addobbate con una gran quantità di ceri. L’atmosfera natalizia e l’alta concentrazione di gente che assisteva alla solenne funzione (ad eccezione delle donne in lutto che la notte restavano a casa e partecipavano alla prima orazione del giorno dopo) diventavano spesso fonte di baccano durante lo svolgimento delle sacre funzioni religiose e, in alcuni casi, capitava addirittura di udire archibugiate in segno di giubilo provenienti dal portone o, talvolta, dall’interno della chiesa stessa. Ne è testimonianza ciò che accadde in occasione del Natale del 1878, quando, all’ora dell’elevazione dell’ostia, uno dei barracelli presenti al rito sparò una schioppettata nel presbiterio, cosicché il parroco sbigottito dovette affrettarsi a finire le funzioni religiose prima dell’ora stabilita. A tal proposito la Chiesa, già dal lontano passato, aveva sempre lamentato il perpetuarsi di questi inconvenienti, tant’è che i Sinodi di Cagliari degli anni 1651 e 1695, ad esempio, davano indicazioni ben precise al Clero locale, affinché: «… si vietino il chiasso e la gran confusione che si creano in chiesa in occasione delle grandi feste e … le notti di Natale, Giovedì e Venerdì Santo, … non si permetta il lancio di noccioline, nocciuole, dolci, ecc., … né si sparino archibugiate all’interno della chiesa, anche se per festeggiare il Santo. E se sarà necessario si invochi l’aiuto del braccio secolare per scongiurare questi eccessi». In Barbagia non mancano tradizioni specifiche riferibili alle feste natalizie e di fine anno. A Bitti fino all’Epifania Su Nenneddu (un’antica piccola statua di Gesù Bambino) viene accolto di casa in casa (emigrati compresi) con canti e preghiere. Ancora a Bitti il 31 dicembre al termine del Te Deum il parroco si affaccia alla finestra della chiesa per lanciare Sas Bulustrinas, monetine e caramelle che scatenano la caccia dei bambini. Bimbi protagonisti anche a Orgosolo nella mattinata di San Silvestro quando viene ancora riproposta Sa candelarìa: gruppi di bambini girano di casa in casa per ricevere piccoli regali tra cui un pane tipico preparato per l’occasione. La notte tocca poi agli adulti che fanno visita alle coppie che si sono sposate nell’anno moribondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

THIESI: Lotte antifeudali e s’Annu de s’atacu

 

THIESI: Lotte antifeudali e s’Annu de s’atacu

di Francesco Casula

L’Amministrazione comunale di Thiesi, in occasione della giornata in ricordo de “S’annu de s’atacu”, mi ha invitato a presentare il mio libro CARLO FELICE E I TIRANNI SABAUDI.

Andrò con piacere e interesse perché Thiesi ha un ruolo centrale e da protagonista nelle lotte antifeudali che si combatteranno in Sardegna, alla fine del Settecento. Ad iniziare dal 1795, quando il notaio Francesco Cilocco, (col notaio Antonio Manca e con l’avvocato Giovanni Falchi, seguaci dell’Angioy) nel mese di novembre

fu inviato dagli Stamenti nel Capo di Sopra, per la pubblicazione e diffusione, nei villaggi, del pregone viceregio del 23 ottobre che contraddice la circolare del governatore di Sassari Santuccio del 12 dello stesso mese, che ordinava di sospendere tutti gli ordini provenienti da Cagliari.

Un vero e proprio tentativo “secessionista” del governatore stesso e dei baroni. che avevano la loro roccaforte proprio a Sassari. “L’invio dei tre commissari, –- secondo la Storia dei torbidi, ripresa dal Manno – è preceduta da una riunione a Cagliari alla quale prendono parte, oltre ai «capi cagliaritani della congiura» anche gli avvocati Mundula e Fadda di Sassari e altri «innovatori» sassaresi. In tale riunione si stabiliscono le linee d’azione per il futuro: mobilitazione dei villaggi del Logudoro, assedio di Sassari, arresto dei reazionari, loro traduzione a Cagliari” 1.

Nonostante il viceré, venuto a conoscenza del piano, cerchi di dissuadere Cilocco dal pubblicare e diffondere il pregone, il Nostro non solo lo pubblica e lo diffonde ma diviene l’anima dei moti, insieme agli altri due commissari, Manca e Falchi, riuscendo a coinvolgere e mobilitare nella sua battaglia antifeudale non solo il popolo (contadini e villici in genere), particolarmente colpito dalla scarsità dei raccolti negli anni 1793-95, ma anche settori della piccola nobiltà e del clero: di qui la partecipazione alle lotte antifeudali di numerosi sacerdoti come i parroci Gavino Sechi Bologna (rettore di Florinas), Aragonez (rettore di Sennori), Francesco Sanna Corda (rettore di Torralba) e Francesco Muroni, (rettore di Semestene) che “conoscevano le miserie e talvolta subivano le stesse angherie dai baroni e dai loro ministri”2 .

Annota inoltre lo storico Girolamo Sotgiu che “direttamente investiti dalla massa degli zappatori affamati, i proprietari coltivatori, che costituiscono l’altro cardine della società rurale, sollecitavano anch’essi la fine del sistema feudale. Anche i proprietari coltivatori erano notevolmente aumentati come aumentata era la produzione complessiva. Ma a questo aumento della produzione non aveva fatto riscontro un aumento del benessere, proprio per gli impedimenti posti dal sistema feudale” 3

Di qui la lotta antifeudale e antibaronale ma anche di liberazione nazionale . Racconta Francesco Sulis che “Il Cilocco nel villaggio di Thiesi intesosi con Don Pietro Flores amico dell’Angioy, da un terrazzo della Casa Flores eccitò quelli popolani a insorgere contro i feudatari; e di subito essi tennero l’invito, ed a furia, con tutta sorta di stromenti percotendo le mura del palazzo feudale, lo rovinarono e l’adequarono al suolo”4.

A Osilo, Sedini e Nulvi, tre centri dell’Anglona i vassalli si rifiutarono di pagare i diritti feudali. Mentre a Ittiri, Uri, Thiesi, Pozzomaggiore e Bonorva e ad Ozieri e Uri i contadini s’impossessarono dei granai dei feudatari.

Una lotta che assume però anche caratteri più squisitamente politici, prefigurando in qualche modo un nuovo ordine e una nuova organizzazione sociale, attraverso una trasformazione non violenta dell’assetto esistente. Sempre a Thiesi infatti, il 24 novembre davanti al notaio Francesco Sotgiu Satta le ville di Thiesi, Bessude e Cheremule, del marchesato di Montemaggiore, appartenente al duca dell’Asinara, con sindaci, consiglieri, prinzipales, capi famiglia, firmano il primo atto confederativo, cui seguirono nei mesi successivi altri patti d’alleanza. E con esso giurano di non riconoscere più alcun feudatario, ma anche di voler “ricorrere prontamente a chi spetta per essere redenti pagando a tal effetto quel tanto, che da’ Superiori sarà creduto giusto e ragionevole”5 .

I cosiddetti “strumenti di unione” ovvero “patti” fra ville e paesi segnano un salto di qualità della lotta antifeudale, facendole assumere una cifra più squisitamente politica: le federazioni di comunità infatti assurgono al ruolo di soggetto primario, di protagonista fondamentale nell’evoluzione sociale dell’Isola. Esse si moltiplicano e si diffondono in tutto il Sassarese: dopo quelli del 24 novembre se ne stipula un altro a Thiesi il 17 marzo 1796 fra i rappresentanti di 32 paesi fra i quali Bonorva, Ittiri, Osilo, Sorso, Mores, Bessude, Banari, Santu Lussurgiu, Semestene e Rebeccu. “Il patto – scrive Vittoria Del Piano – vincola le popolazioni a spendere fin l’ultima goccia di sangue, piuttosto che obbedire in avvenire ai loro baroni” 6.

Lo sbocco di questo ampio movimento, autenticamente rivoluzionario e sociale, perché metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne, fu l’assedio di Sassari. A migliaia – 13 mila secondo le fonti ufficiali e secondo Francesco Sulis, un esercito di contadini armati, proveniente dal Logudoro ma anche dal Meilogu e da paesi più lontani, accorse a Sassari, stringendola d’assedio. Secondo invece lo storico Giuseppe Manno “Sommavano quegli armati a meglio di tremila, non numerando le donne che in copioso numero erano venute anch’esse a guerra, o per assistere i congiunti o per comunione d’odio ed eransi partiti da Osilo, Sorso, Sennori, Usini, Tissi, Ossi, Thiesi, Mores, Sedilo, Ploaghe e altri luoghi posti in quelle circostanze” 7.

Il numero di tremila è poco credibile: vista la massiccia e ubiquitaria mobilitazione soprattutto dei paesi del Logudoro e dell’Anglona ma anche del Meilogu. del Goceano e non solo. Il Manno, storico conservatore e filosabaudo, tende a minimizzare e sminuire l’ampiezza, l’organizzazione e la qualità di una lotta di migliaia e migliaia di contadini, uomini e donne, che dopo secoli di rassegnazione, usi a chinare il capo e a curvare la schiena, si ribellano, si armano per dire basta e per porre fine a un duro stato di servitù, di rapina e di sfruttamento inaudito.

Il Manno non è dunque credibile. La sua, più che una Storia della Sardegna è infatti una Storia regia della Sardegna. E non è un caso che il magistrato sassarese Ignazio Esperson nei suoi Pensieri sulla Sardegna dal 1789 al 1848, definisca il Manno “l’antesignano della scuola delle penne partigiane e cortigianesche che vergognano le patrie storie”.

A migliaia, comunque, al di là del numero, a piedi e a cavallo circondarono Sassari, pare al canto di Procurade ‘e moderare, Barones, sa tirannia di Francesco Ignazio Mannu. Così l’esercito dei contadini, guidato dal Cilocco e da Gioachino Mundula, costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. Quindi, mentre il famigerato duca dell’Asinara, il conte d’Ittiri e alcuni feudatari, erano riusciti a scappare precipitosamente in tempo, prima dell’assedio, rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi, Cilocco e Mundula arrestarono il governatore don Antioco Santuccio e l’arcivescovo Giacinto Vincenzo Della Torre, portandoli a Cagliari verso cui si dirigono con 500 uomini armati.

Gli Stamenti d’accordo col viceré, per porre rimedio alla piega, secondo loro pericolosa e “sovversiva” che avevano preso gli avvenimenti, inviarono loro incontro altri tre commissari, che li raggiunsero con un manipolo di guardie il 4 gennaio 1796 a Oristano, ed ingiunsero loro dì liberare gli ostaggi e rimandare ai villaggi d’origine i loro uomini, nel frattempo ridottisi di numero. Ad un primo rifiuto, due giorni dopo, a Sardara, i commissari viceregi risposero con un atto di forza. Cilocco, per paura di essere arrestato, consegna il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre ai tre inviati del vicerè : l’avvocato Ignazio Musso, l’abate Raffaele Ledà e Efisio Luigi Pintor Sirigu, ex democratico, uno dei protagonisti della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 aprile 1794, ma ormai “pentito” e da vero e proprio voltagabbana, rientrato, opportunisticamente, in cambio di onori, uffizi e privilegi, nell’alveo filo sabaudo.

Era il segnale della svolta moderata che stava maturando negli Stamenti e che avrebbe di lì a poco provocato anche la caduta di Angioy: si concludeva infatti così quella che, a posteriori, sarebbe apparsa come la prova generale della sfortunata marcia di G. M. Angioy.

Thiesi sarà ancora protagonista nel 1800, quando contro la cittadina del Meilogu si scatenerà la vendetta dei tiranni sabaudi,come nel 1896 si era scatenata contro Bono, il paese natale di Giovanni Maria Angioy.

A descriverla è con Giovanna Colombo è Salvatore Tanca, attuale Assessore comunale alla cultura:” Dopo il suo insediamento, il conte di Moriana iniziò una serie di visite ai villaggi rendendosi conto dello stato di miseria dei vassalli e della opprimente vessazione dei feudatari. Emanò cosi un pregone dettando norme sulle modalità da seguire nella riscossione dei tributi, con lo scopo di tranquillizzare le popolazioni e placare gli abusi dei baroni. I feudatari però si rifiutarono di dare applicazione al pregone viceregio. In questa situazione si distinse il Duca Manca che ordinò ai suoi agenti di riscuotere tutti i diritti, legali e non, presenti e passati. I vassalli tiesini, istigati dai sacerdoti, si rifiutarono di sottostare a questo  nuovo arbitrio del Duca e la notte tra il 22 e il 23 settembre organizzarono una manifestazione di protesta davanti alla casa del sindaco chiedendo un suo intervento contro le pretese del duca. Il giorno seguente il sindaco informò il Vicerè dei fatti accaduti, confermando la ferma determinazione del popolo di rifiutarsi di pagare i diritti signorili. Il conte di Moriana convocò immediatamente a Sassari il sindaco ed il consiglio comunicativo e promise alla delegazione che sarebbe intervenuto contro il Duca dell’Asinara. I tiesini, che avevano aspettato in armi e sul piede di guerra il ritorno dei loro delegati, venuti a conoscenza delle promesse del governatore non se ne convinsero e si persuasero che qualcosa di losco si stava tramando alle loro spalle, perciò si tennero pronti ad ogni evenienza, consapevoli che dati i loro trascorsi non l’avrebbero fatta franca. I loro timori si dimostrarono fondati: in una lettera inviata da Sassari dallo studente Schintu di Bessude, il sacerdote don Antonio Sanna  fu informato che il governatore stava segretamente organizzando una spedizione punitiva contro Thiesi e che gli armati sarebbero giunti il 6 ottobre, con il compito di distruggere ed annientare il villaggio. Il contenuto della lettera si diffuse anche ai villaggi vicini e si iniziarono ad approntare le fortificazioni e ad organizzare la resistenza. Bessude inviò 150 armati, Banari  altri 150. Tiesi riuscì ad organizzare 500 uomini. A difesa del villaggio si trovarono quindi 800 uomini armati. Il conte di Moriana aveva affidato il comando della spedizione al cav. Grondona e segretamente aveva inviato un rapporto a tutti i capitani dei miliziani del capo di sopra perché si mettessero in marcia verso Thiesi, informandoli anche che avrebbe concesso amnistia a tutti quei banditi che avessero partecipato.  L’armata partì da Sassari alle 19:30 del 5 ottobre 1800, per tutta la notte accorse gente in armi verso il punto di concentramento. Sul far dell’alba si ritrovarono in 1500, in massima parte banditi aggregatisi alle truppe regolari con l’illusione dell’amnistia. Verso le sette del mattino del giorno 6 ottobre si mossero verso Thiesi. Il paese, difeso da 800 uomini, si preparò ad impedire il saccheggio con ogni mezzo. Tra i difensori ci fu anche il ferraiolo Mastro Francesco Angelo Santoru (Mastr’Anghelu) che, nonostante avesse le gambe paralizzate e si muovesse su una sedia a braccioli, volle partecipare all’impresa mettendo a disposizione le sue doti di tiratore scelto. Appostato sul campanile attese il nemico con l’odio nel cuore, pronto al segnale. Il Grondona, fece rullare i tamburi per intimare la resa, ma i villici risposero con una fragorosa salve di fichi e insulti. Fu quello, l’inizio delle ostilità. Le truppe inferocite si scagliarono contro i trinceramenti tiesini. I piani del Grondona furono messi a dura prova a causa del fuoco che gli giungeva alle spalle ad opera di una pattuglia di venticinque cheremulesi accorsi in aiuto. Il Grondona, preso di mira da Mastr’Anghelu, fu lievemente ferito alla spalla (S’archibusada de Mastr’Anghelu). Il contrattacco fu immediato, selvaggio e violento, i villici, caduta ogni speranza di difesa, si rifugiarono nelle case e nella chiesa parrocchiale continuando la sparatoria. In breve il villaggio venne però inondato da uomini inferociti che saccheggiarono le case e appiccarono un fuoco che si spinse verso il centro. I tiesini non sembravano volersi fermare. Alcuni sostennero dal campanile un fuoco vivissimo per ore, ma alla fine furono costretti ad aprire le porte della chiesa e a consegnare i fucili. Furono arrestati in ventitre. Le truppe regolari cessata la resistenza si ritirarono verso Sassari lasciando però il paese in mano ai banditi arruolati per l’occasione, i quali sfondarono gli usci delle case, razziarono tutto ciò che era possibile razziare, usarono violenza sulle donne che cercarono di difendersi con bastoni e spiedi. Tutto il villaggio fu tristemente ammantato di lutto, non solo per le violenze e per le grassazioni subite ma anche e specialmente perché nell’eccidio perdettero la vita 14 persone, 34 rimasero ferite (due di queste morirono nei giorni seguenti) e furono incendiate quasi totalmente 18 abitazioni.   Mentre Thiesi seppelliva i suoi morti, il conte di Moriana nominava un consiglio di guerra per giudicare i responsabili della resistenza del 6 ottobre. Tutto il clero di Thiesi coinvolto nello scandalo venne completamente scagionato, diversa fu la sorte per alcuni dei villici arrestati, che furono impiccati il 27 febbraio 1801 sulle forche di “Mesu e Giagas”, altri ancora furono condannati alla galera. Molti si dettero alla macchia. Ad un anno circa dai moti rivoluzionari, il Re Carlo Emanuele IV concesse ampia amnistia ai capi rivoluzionari ancora latitanti. Ma questi, poco convinti dell’atto di clemenza rimasero uccel di bosco, vagando per tutta la Sardegna e vivendo del commercio di derrate alimentari. Fu in questo periodo che iniziarono le prime intraprese commerciali dei tiesini. Si chiude cosi un tristissimo capitolo di storia che a Thiesi è costato tanto sangue e le cui conseguenze i paesani si trascineranno a dosso per molti anni. Il 28 ottobre 1802, maledetto dalle popolazioni del Logudoro, moriva a Sassari il carnefice di Thiesi conte di Moriana, mentre il 16 gennaio 1805, pare per un indigestione di tordi, morì l’arrogante Don Antonio Manca, Duca dell’Asinara e signore di Thiesi, chiudendo cosi la pagina più triste della storia del nostro paese” 8.

 

Note bibliografiche

  1. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, pagina 155.
  2. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Edizioni U. Mursia, Milano 1971, pagina 846.
  3. Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, (1720-1847), Editori Laterza, Roma-Bari 1984, pagina 193.
  4. Francesco Sulis, Dei moti politici dell’isola di Sardegna dal 1793 al 1821, Tip. Nazionale di G. Biancardi, Torino 1857, pagina 64.
  5. Luigi Berlinguer, Alcuni documenti sul moto antifeudale sardo del 1795-96, in AA.VV., La Sardegna del Risorgimento, Ed. Gallizzi, Sassari, 1962, pagine 123-124.
  6. Vittoria Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna– op. cit., pagina 156.
  7. Giuseppe Manno, Storia moderna della Sardegna-Dall’anno 1773 al 1799, a cura di Antonello Mattone, Ilisso edizioni, Nuoro 1998, pagina 294.

8.Salvatore Tanca-Giovanna Colombo, Meilogu Notizie.net 06/10/2015,

 

Riflessione subra sa proposta de Sardos pro s’istòria Sarda in s’iscola

De historia loci (Istòria de su logu) – riflessione subra sa proposta de Sardos pro s’istòria Sarda in s’iscola (de Frantziscu Casula)

(Per leggere l’articolo in italiano cliccare sulla bandierina in alto e selezionare quella tricolore)

Premissa:
Cumpartu s’ispìritu e sa litera de sa proposta pretzedente de lege de s’Assòtziu Sardos. Tzertu, fàghet a dd’arrangiare e dd’assetiare, ma in in sustàntzia est de cumpartzire e, comente a tale, de ispartzinare e propònnere a su parri pùblicu, a is òrganos de comunicatzione, a is Partidos, a is Cussigeris regionales.
Cun sa riflessione chi sighit chèrgio isterrere unos cantos contenutos chi s’istùdiu e s’imparu de s’istòria “locale” – e duncas pro nois s’istòria sarda – cumportat, ma prus che totu is efetos e cunferentzias chi produent subra sa formatzione de is istudiantes giòvanos.
S’iscola italiana, a pesare dae calicuna timoriosa abertura, dae sèculos, respetu a s’istòria locale nutrit e mustrat dudas, riservas,e fatu fatu reselu berdaderu. De cue in sustàntzia, sa tudada, sa tzensura, s’istòrchida e, beni·mi·nde, sa trastocadura.
Ma no is s’iscola feti: in is òrganos de comunicatzione generales. Pro esempru m’ammento chi sa Biblioteca de su giornale fitianu Repùblica, in su 2006, at publicadu e ispartzinadu a milli de copias unu volùmene de 800 pàginas subra sa preistòria, in ue nuraghes e Sardigna non sunt mancu numenados siat puru pro errore.
Un’ocasione faddida pro sa cultura italiana chi puru pretendet – e cun barra puru – de dominare in s’ìsula.
E puru: illuinados dae s’eurotzentrismu, est craru ca ismèntigant chi cussa nuràgica at istadu sa tzivilidade prus manna de s’istòria de totu su Mediterràneu tzentru-otzidentale de is segundos milli annos antis de Gesùs.
A s’imbesse – ma est un’esempru feti – de sa Frantza in ue, prus che totu in segus a is posturas de significu de istòricos comente a Marc Bloch e a Lucien Febre cun sa bogada in su 1929 de is Annales e cun su pensamentu de Fernand Braudel, s’istoriografia prus abbista at propassadu su paradigma istoriogràficu chi narat ca “s’istòria generale feti est digna de èssere istudiada”. Propassende e refudende gasi s’istòria comente acontèssida militare manna e torrende a avalorare s’istòria de su logu, chi si ponet comente laboratòriu de s’idea istoriogràfica noa segundu chie non ddoe at una gerarchia de rilevàntzia tra istòria locale e istòria generale.
a. Valore identitàriu
S’Istòria est sa raighina de s’èssere nostru, de sa realidade colletiva e individuale, de s’identidade nostra. Perunu indivìduu podet bivere sena cussèntzia e connoschèntzia de s’identidade sua, de sa biografia sua, de is diferentes momentos chi ddu giughent a èssere capassu de torrare a costruere esperièntzia personale istòrica sua.
Unu filu pretzisu acàpiat su presente a su passadu nostru: su filu de s’identidade e de sa diversidade, comente indivìduos e comente colletividade-comunidade. Si no esseremus diferentes non diamus pòdere mancu allegare paris, nos acarare, connòschere: nois connoschimus in ite semus diferentes. Diamus àere, si nono, sa note iscurigosa de Hegel, in ue onni baca est niedda. Sa diversidade nos sarvat dae s’omologatzione-istandardizatzione. Craru siat: sa cussèntzia de èssere diferentes non escluit cussa de èssere e de bivere intro de un’universu prus ampru meda.
Sa cussèntzia de s’Identidade s’agatat finas comente cussèntzia colletiva e non feti comente cussèntzia individuale: a livellu de famìlia, sotziedade, comunidade, grupu. Su ligòngiu tra is membros de una comunidade sunt sa limba, sa religione, is valores, is cumportamentos chi sa comunidade matessi nd’at boddidu totu a longu de s’istòria. Su bisòngiu de pertenèntzia, s’aposentada, is raighinas, sa memòria istòrica rapresentant su tzimentu de s’identidade. Sa biografia personale si mesturat cun cussa colletiva, s’istòria locale cun cussa generale.
b. Valore connoschidore
Apo naradu agoa ca ddoe at istadu e galu ddoe at, respetu a s’istòria locale, un’atitùdine de reselu e de disintesa, una punna a bidere gerarchias: s’istòria generale prus alta, prus dignitosa de s’istòria locale e, duncas, s’istòria “natzionale” de prus importu de cussa “regionale”. Dae cue – pro esempru – is dudas conca a is ispecifitzidades e identidades ètnicas. Su refudu est tra àteras cosas frutu de faddinas disintesas alimentadas in parte manna dae s’imparu de s’istòria in s’iscola, resurtu de cuddu paradigma unitarista impostu a s’ora de s’Unidade de s’Itàlia, dae sa netzessidade bogada dae Azeglio in su Risorgimentu de “fàghere is italianos”, cosire sa bota, est de fatu un’unidade istudiada chi non teniat contu de sa colorida realidade culturale, istòrica e linguìstica. su paradigma unitarista naschiat in prus dae su mitu, dae su generalizare e dae su pagu incuru a su locale, a su diferente, a su particulare, a su lacanàrgiu.
In is annos ’30 – dd’apo giai atzinnadu – cun is Annales de is istòricos frantzesos e in manera particulare de Lucien Febre e de Marc Bloch antis e de Fernand Braudel pustis, est a nàrrere cun s’isperdida de s’eurotzentrismu istoriogràficu, chi poniat a in antis s’anàlisi de is fundamentas materiales de sa tzivilidade, fiant lòmpidos a concruire chi in sa chirca istoriogràfica, locale o universale, non faghiat a ddoe collocare gerarchias.
Gasi oe s’istòria de su logu at achiridu rolu istàbile de importu, si un’istòricu italianu mannu comente a Franco Catalano podet iscriere chi “s’istoriografia si nd’at liberadu dae is ideas sena fundamentu chi tzèlebrant s’istòria manna, gasi “s’istòria noa” in prus de nde isciusciare is cresuras istoriogràficas betzas, pro un’istòria aberta e sena barreras disciplinares, est in gradu de avalorare sa vida de is òmines in su tempus, ispriculende a totu campu: dae su magasinu a sa cobertura.
S’istòria in suma est comente a su porcu de is famìlias agro-pastorales de una borta: cando s’ochiet, non si nche iscabulat nudda, totu serbit, dae is origras a is ogros. Comente non si nche fùlliat nudda de su chi est òpera de is òmines: e s’istòria est comente a s’orcu de is contos, chi currit e andat a ue fragat nuscu de òmines.
In sìntesi, su valore connoschidore de s’istòria locale tocat a ddu chircare in sa possibilidade de interpretare is fenòmenos generales:
– Comente averiguada de su resurtu a livellu locale de su fenòmenu generale (pensamus pro esempru a is cunseguèntzias, a livellu sardu, de is polìticas econòmicas e fiscales de sa Dereta e de sa Manca istòrica o de su Fascismu).
-Comente reconnòschida de is efetos chi seberos e punnas chi partint dae su locale, dae giosso, induint e produint in is seberos de òrdine generale.
– Comente modellos de cumportamentu locale chi si generalizant.

c. Valore educativu
Sa connoschèntzia e sa cussèntzia de is raighinas etno-istòricas e linguìsticu-culturales nostras nos agiudant a propassare is cuntierras tra diversidades. A èssere su chi semus, cun is caraterìsticas particulares pròpias, est difatis cunditzione pro allegare cun is àteros, pro nos ponnere in relatziones. Sena connoschèntzia, cussèntzia e creschimentu sighidu de s’Identidade pròpia, de sa fisionomia ispetzìfica pròpia, ddoe at omologatzione feti, semper prus oe cun sa cultura de s’isperdìtziu, cun s’istandardizatzione de sa mercantzia e duncas de is gustos, cun sa globalizatzione chi punnat a molere totu e totus, pudende diferèntzias e particularidades.
Connòschere e pigare cussèntzia de is particularidades etno-istòricas e etno-linguisticas nostras non signìficat nen podet e nen depet significare a alabantzare in manera passiva su passadu nostru in tèrmines mitològicos e mancu etnotzentrismu o peus puru serrada conca a foras e/o a su diferente.

d. Valore didàticu
Si assignamus a s’istòria locale unu rolu, una tarea, unu valore formativu e educativu mannu, tocat a dda ponnere in is iscolas de ogni òrdine e gradu – de cue sa proposta de Lege de SARDOS – in pagas paràulas, a intro de is carreras iscolanas, non comente apicajone, comente elementu a una banda de trastigiare a pustis de sa letzione, ma de aunire cun s’istòria generale, de istudiare in parallelu, in manera sinòtica e cuntestuale.
Ma no est sufitziente a istudiare s’istòria locale: toca a dd’iscriere o mègius a dda torrare a iscriere, ca, a s’ispissu s’istòria sarda dd’ant iscrita àteros, is dominadores, is “Binchidores”, chi seguru – dae is Romanos a is Ispagnolos, dae is Piemontesos a is Italianos- aiant e ant, bisuras e interesse “àteros” – pro non nàrrere contràrios – respetu a is nostros, de Sardos.
A dd’iscriere partende dae is cunditziones sotziales, averiguende in logu, imperende ogni paperi a incumentzare dae is documentos, non iscritos feti ma dae totu cussu artzipèlagu de connoschèntzias chi “faeddant” in capas prus de is pabiros e de is documentos de is artzivos (paesàgiu agràriu, restos archeològicos, monumentos, nuraghes, putzos sacros, etz etz.)
Sena sa costrutzione noa de is elementos de prus significu de sa vida de sa gente comuna, s’istòria sighit a èssere istòria evenementiel, est a nàrrere istòria de is rees e de is imperadores, de Pabas e de Generales. E pro cussu in sustàntzia, imboligosa e isbisuriada.

Lezione su Raimondo Manelli,

 

Università della Terza Età di Quartu:

lezione su Raimondo Manelli,

Risultati immagini per raimondo manelli gavoi

Il cantore dell’Isola “conchiglia” e del   riscatto sociale dei poveri e dei “vassallos”. (1916-2006)

a cura di Francesco Casula

Nasce a Gavoi (Nu) l’8 settembre 1916. Si laurea in materie letterarie a Cagliari nel 1940. Nel 1943, torna a Gavoi come sfollato antifascista sotto il governo Badoglio Nel dopoguerra svolge un’attività politica prima a Gavoi e poi a Cagliari, al fianco di Sebastiano Dessanay: di queste battaglie epiche, dalla parte dei contadini e dei pastori, c’è un riflesso immediato nelle sue poesie, che per la maggior parte hanno per tema la Sardegna, ma soprattutto Gavoi, il suo paese natale, raffigurato in tutti i suoi aspetti: le dure condizioni di vita, i personaggi caratteristici, l’impatto con la modernità. In una delle sue poesie più felici dal titolo Gavoi 1958, si legge: Ora le ultime bettole si chiamano bar;/ i maestri del ferro sono meccanici;/ l’ultimo fabbricante di speroni/ è morto bruciato dall’alcool;/ e la domenica non si odono più/ gli accordi vocali del “bomborobò”./ È giunta la televisione/ coi ministri e le prime pietre,/ con le annunciatrici che sorridono sempre.

Dedicherà tutta la sua vita all’insegnamento e alla scuola (sarà maestro elementare prima di diventare professore e poi preside) e alla sua passione per la poesia. Scriverà ininterrottamente dall’adolescenza fino alla tarda età.

La sua prima raccolta Filo d’acqua esce nel 1939. Seguono La strada dei poveri (1947); E il mondo muta (1956); Il cuore a spicchi (1960); L’isola delle mandorle amare (1966); La terra e gli uomini (1968); La Giubilazione e altri messaggi (1985); Agrifogli (1992); La voce e il grembo (1993).

Ha inoltre curato, sulla poesia in Sardegna, le antologie Trent’anni di poesia in Sardegna (1981), Poeti di Sardegna ((1985), Frontespizi della poesia sarda in lingua italiana (2001) e Empatie di varie stagioni (2002).

Dal 1951 al 1959 insegnerà in un Istituto tecnico di Terni. Il soggiorno umbro gli sarà particolarmente propizio come studioso e come poeta ma anche come ricercatore della poesia dialettale e popolare, della storia, delle tradizioni e del folclore della Conca ternana  (si veda in particolare Il cantamaggio a Terni, storia e antologia da lui curata nel 1982 per la Provincia di Terni). Alla città di Terni dedicherà ben cinque libri.Nel 1991 il Comune di Gavoi gli dedica un’antologia dal titolo L’Isola è una conchiglia pubblicata dalle Edizioni della Torre e curata da Pasquale Maoddi e Pier Gavino Sedda,  che raccoglie, oltre che alcune fra le sue poesie più significative, otto liriche inedite nonché  Poesias gavoesas , sei poesie in sardo-gavoese: Sa hotta –letteralmente cotta, ma qui significa preparare il pane; Badu ‘e Lodine– Guado di Lodine; Zente ‘e Gavoi, Prehadoria a Santu Juvanne, Unu muttu pro mene, Duos muttos), a dimostrazione del fatto che Manelli, pur poetando prevalentemente in italiano non disdegna la lingua sarda, che conosce e padroneggia, verseggiando con abilità, intensità ed eleganza. Tanto da raggiungere – scrive Natalino Piras  –  risultati di acuti lirici universali.  La poesia di Manelli – a dimostrazione della sua validità – ha sempre attirato l’interesse di valenti critici e di agguerriti studiosi della poesia medionovecentesca, in particolare di Sergio Turconi (in La poesia neorealista italiana, Mursia editore, 1977) e di Walter Siti (in Il neorealismo della poesia italiana, 1941-1956, Ed. Einaudi,1980). Muore a Cagliari il 5 Maggio del 2006.

Presentazione del testo [poesia tratta La strada dei poveri, Tipografia industriale Granero, Cagliari, 1947, pagine 24-26].

La poesia Mia madre popolana è contenuta nella silloge La strada dei poveri del 1947, la seconda raccolta di poesie di Manelli, dopo Filo d’acqua del 1939. In essa l’Autore, cristiano e comunista, canta e sta dalla parte di un’umanità povera e dolente, che attende da tempo immemorabile, nella terra dei pastori e dei braccianti, un riscatto e una liberazione dalle prepotenze dei prinzipales e dei sennores. Non solo.                                                         I poeta estraneo alla giungla imperante/di faccendieri e commedianti, confessa d’aver diffuso tra la buona gente/dottrine incendiarie/che mettevano in forse l’antica virtù dei notabili,/l’onestà dei mercanti//che lungo le strade maestre/ostentano le case a molti piani.

Nel contempo sono presenti figure amicali, parentali e familiari: soprattutto la madre, che in Mia madre popolana ricorda con smisurato affetto e forte commozione pensando anche alla umanissima vicenda che essa ha vissuto.La madre incerta nel leggere e nello scrivere che ha appreso nella scuola serale. La madre religiosissima, che recita a gran voce il Miserere a fronte di un improvviso temporale. La madre che, pur fatta curva dagli stenti/ e dalle notti insonni, continua a lavorare  stoiando seggiole, ovvero confezionando sedie con le stuoie, in quel tempo largamente usate, della povera gente di Gavoi e della Barbagia, ma non solo.La madre che ormai ridotta a una lampada presso alla fine dell’olio, leggeva negli anni futuri. E il figlio-poeta che si avvide che Dio si rivela ai più buoni. Ovvero a quelli come la madre. Ai poveri e  – evangelicamente – agli ultimi.L’amore immenso del poeta per i genitori ma in particolare per la mamma non è presente solo in questa lirica, ne attraversa molte altre e comunque ricorre spessissimo nei suoi versi.

MIA MADRE POPOLANA

Mia madre popolana

leggeva un poco a stento,

scriveva con mano maldestra

umili frasi sottratte alla scuola serale.

E quando un improvviso temporale

saettava di lampi la povera casa montana,

intonava a gran voce il «Miserere» 

Al suon della campana, si segnava

si segnava all’inizio di un viaggio.

Sotto il sole di luglio

brandì la falce per la messe altrui

mia madre contadina.

Forse a lei parve volontà divina

la tirannia dei nobili del borgo.

E dopo ogni suo magro desinare,

diceva: Così s’abbia ristoro

al mondo ogni bennata creatura

e ogni anima che soffre in Purgatorio.

Diceva: O figlio.

che Dio ti guardi dalle male lingue

che sono come l’incendio!

Maledetto il peccato mortale!

Alfine, fatta curva dagli stenti

e dalle notti insonni, trascorse

stoiando le seggiole a tutto il contado,

del sembiante operoso

non restò che la luce degli occhi. E la voce.

E al figlio prediletto

  • Che importa – diceva  se la mia vita

è una lampada presso alla fine dell’olio?

Ho dato due lumi al villaggio;

e d’altro non m’importa.

E credeva nei sogni

mia madre popolana:

e tanto di me si nutriva,

se mi era lontana,

che tutto sognava di me taciturno

per lunghe inclementi stagioni.

Leggeva negli anni futuri,

tanto che io ne tremavo

e pensavo alle divinazioni.

E mi avvidi

che Dio si rivela ai più buoni.

Giudizio critico

Scrive Alberto Frattini: “[…]Nella strada dei poveri Manelli ha trovato in fondo la sua tematica (ma non mancano preannunci anche in precedenti liriche, si veda Momento primitivo) scavando nel sentimento e nell’amore della sua terra e della sua gente; dal cuore e dal sangue nascono i moti più fervidi, frenati da un pudore quasi istintivo di confessione. Il discorso si fa più disteso, lievita di umori più complessi, si colora di una realtà più ricca e di una umanità più dolente (con impasti espressivi familiari, disadorni fino a suonare scabri), tende a farsi testimonianza accorata e nuda, una voce per la madre popolana, per il padre bracciante, per i poveri delle  sue contrade umiliati dal vivere gramo. Il linguaggio si libera via via da qualche residuo aulicismo e recupera il lessico usuale, più risentito e fresco[…]”.

[Albero Frattini, prefazione a E il mondo muta, Edizioni Accademia di Studi «Cielo d’Alcamo» , Alcamo (Tp), 1956, pagina 10, Alcamo (Tp), 1956.

Mentre Elio Vittorini in  una brevissima lettera  del 4 Maggio 1947, scrive a Manelli ”Ho incontrato una bella qualità poetica e una generosa presenza d’uomo”.

ANALIZZARE

Le radici della poesia di Manelli – è il poeta stesso a ricordarlo in un suo scritto –  affondano sostanzialmente nella terra sarda e più particolarmente nelle vicende e nel destino dei contadini e dei pastori del suo paese : ovvero nella dolorosa realtà della sua gente e della sua terra, la Sardegna, impronta di piede contadino, che si va gradualmente trasformando dietro l’incalzare del progresso scientifico e tecnico. E anche quando la tematica si allarga via via per comprendere i problemi e le ansie del più vasto mondo contemporaneo, del gramsciano  mondo grande e terribile, il sapore delle immagini e le predilezioni culturali e sociali dell’autore saranno sempre coerenti con l’autenticità delle proprie origini e delle proprie radici della sua piccola patria sarda: infatti, L’isola è una conchiglia/e vi respira il mare/con le voci del mondo.

 Ferma restando nella sua poetica – scrive Alberto Frattini –  l’istanza di comunicare, di farsi intendere dagli altri e non solo dai professionisti della Letteratura.

Si inserisce su questo crinale Mia madre popolana, la sua poesia più famosa e dal poeta stesso la più amata, degna comunque di essere inserita nelle Antologie.

Il componimento piacque talmente al linguista Georges Mounin che lo tradusse in francese, ritrovando in esso una libertà e una scioltezza nel parlare delle così dette cose trite e prosaiche. Con un libero verseggiare e con un lessico realistico, piano e comune, senza sperimentalismi né contorsioni intellettualistiche, in cui la testimonianza di affetto e di amore per la madre trae forza dalla sobrietà e dall’incisività delle strutture e dei registri espressivi.

-LA PASSERELLA

L’Isola fu, nel Mar Mediterraneo,

la passerella dei conquistatori:

ogni ribaldo che venne da fuori

ottenne almeno un feudo temporaneo.

Oggi, ancora, se un invadente estraneo

aspira a conquistarsi nuovi allori,

verrà scelto dai nostri reggitori

innanzi a ogni aspirante conterraneo.

Vige il mito dell’ospitalità

col motto: “Il miglior letto al forestiero!

Per ogni familiare c’è una stuoia”.

E fummo generosi coi Savoia,

offrimmo le miniere allo straniero,

riservandoci invidie e crudeltà.

 

-IL TURNO DEI PADRONI

Cartagine ci indusse a fare a meno

dei frutteti; ci disse: E’ meglio il grano.

E quando giunse il milite romano

ci tolse il grano e ci concesse il fieno.

Di bene in meglio, qualche saraceno

visitava le coste e, a mano a mano,

portava nei mercati del sultano

uomini e donne del nostro terreno.

Ma in nostro aiuto vennero i Pisani

in gara coi mercanti genovesi

e sorsero conventi da ogni parte.

Allora il Papa mescolò le carte:

invitò Aragonesi e Catalani

e restammo infeudati e vilipesi.

Ricordando NEREIDE RUDAS

Ricordando NEREIDE RUDAS

in occasione della sua morte

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Onore a una grande donna, a una  valente psichiatra, a una straordinaria intellettuale, a una eccellente scrittrice e  studiosa dell’Identità

 

Nasce a Macomer (Nuoro) nel 1925. Dopo studi classici segue Corsi universitari in diversi Atenei Italiani. Laureata in Medicina e specializzata in Neurologia e Psichiatria all’Università di Bologna, consegue due libere docenze (in Psichiatria generale e Psichiatria forense) che le aprono la via dell’insegnamento universitario.

Studiosa della devianza sociale oltre che psicopatologica, firma, insieme al Professor Giuseppe Puggioni la relazione scientifica di base della Commissione parlamentare d’inchiesta sui fenomeni della criminalità in Sardegna (Commissione Medici) pubblicata negli Atti della Repubblica (Senato, Roma 1972).

Dopo alcune esperienze in Centri e Istituti scientifici italiani ed esteri, vince la cattedra di Psichiatria e insegna nelle Università di Roma e soprattutto di Cagliari, ove inaugura la prima clinica di Psichiatria in Sardegna e dirige l’Istituto universitario di Psichiatria e l’annessa scuola di specializzazione dalla quale escono, fra l’altro, numerosi quadri specialistici per l’assistenza territoriale al sofferente mentale.

Organizza e presiede numerosi Convegni nazionali e internazionali, aprendo la psichiatria sarda a un vasto orizzonte di scambi e confronti.

Presente e attiva anche nelle organizzazioni scientifiche e culturali fonda a Milano (1987) la Società italiana di psichiatria forense. Di tale società viene eletta presidente nazionale, carica che mantiene per molti anni organizzando congressi a respiro internazionale. Attualmente riveste la carica di Presidente onoraria.

Nel 1993 rappresenta l’Europa al Congresso mondiale di Psichiatria di Rio de Janeiro. Svolge missioni scientifiche in rappresentanza dell’Italia in diversi paesi europei ed extraeuropei (Parigi, Lisbona, Madrid, Mosca, Pechino, Buenos Aires).

Ottiene numerosi riconoscimenti, italiani ed esteri tra cui l’alta onorificenza dell’American Academy Psichiatry And The Law (Roma, 1993).

Nella sua vasta produzione scientifica con 450 pubblicazioni (di cui nove a carattere monografico) figurano saggi di psichiatria clinica e sociale sulla emigrazione, (fra cui nel 1974 pubblica Emigrazione sarda, uno studio che faceva parte di una più ampia ricerca sull’emigrazione sarda, svolta dalla cattedra di psicologia della Facoltà di medicina dell’Università di Cagliari),  sull’anziano, (fra cui nel 1987 La condizione dell’anziano: da una vita senza qualità a una qualità della vita), sulla depressione. Un filone di ricerca riguarda i temi della riforma psichiatrica e della organizzazione psichiatrica territoriale (fra cui nel 1978 Psichiatria e territorio),

Negli anni ’90 si dedica a pubblicazioni sull’identità, sulla libertà e sulla lettura psicodinamica in opere artistiche sarde.

Nel 1997 pubblica il saggio, l’Isola dei coralli (per Nuova Italia scientifica, Roma), premiato con medaglia d’oro del Presidente della Repubblica, di cui una nuova edizione sarà pubblicata nel Luglio del 2004 da Carocci editore.

Nel 2001 pubblica Storie Senza, che riscuote un successo di critica per la sensibilità con cui viene affrontato il complesso tema della sofferenza mentale.

Sempre nel 2001 viene nominata dal Ministro della Pubblica Istruzione professore emerito. E’ Presidente dell’Istituto Gramsci della Sardegna.

In un’intervista ha detto: Forse perché ho vissuto fra sofferenti coartati nelle loro libertà ho tanto amato questa parola che nell’originale sumerica suona “amargia” che significa ritorno alla madre.

La medicina è stata per me una forma totale, quasi utopica di esistenza: rapporto con l’altro, modalità liberatrice, visione del mondo.

Muore a Cagliari il 19 gennaio 2017.

 

Tra le sue opere più squisitamente letterarie  occorre ricordare L’Isola dei coralli che – come sottolinea l’autrice in una nota alla prima edizione del 1997 – non nasce tanto da un’idea o da un progetto, quanto da un sentimento. Anzi da un sentimento di appartenenza. Da un legame con la sua terra, la Sardegna. Della cui realtà vuol essere una lettura, in chiave psicodinamica, nel suo profilo identitario.

Ma non è un libro sulla Sardegna – precisa in una nota alla edizione del 2004 –  bensì per la Sardegna, luogo, simbolo e metafora. Di cui racconta le tormentate vicende di un mondo frantumato: un’Isola insieme cristallizzata e coartata ma anche potenzialmente vitale e creativa. Soprattutto nell’area geografica e culturale del centro Sardegna.

Nereide Rudas constata infatti che le personalità creative isolane, unanimemente riconosciute, sono in gran parte concentrate, per oltre il 63%, nell’area del Nuorese, nella “Sardegna interna”: area dell’isolamento, della criminalità e anche della psicopatologia. L’autore quindi – esplorando l’attività creativa dei Sardi dalla sua prospettiva disciplinare  e affascinata da questa creatività, insolita, per certi versi inattesa, quasi misteriosa–  ritiene che una delle radici della creatività dei sardi trovi origine nella esperienza depressiva e alla luce delle teorie psicanalitiche ritiene che i testi narrativi di molti autori sardi possano essere interpretati come simbolizzazioni poetico-intellettuali della esperienza storico-culturale di uno specifico popolo e insieme come elaborazione del proprio mondo interno, riconducibile appunto a una sofferenza depressiva che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi.

Sulla figura di Nereide Rudas e sulla sua opera l’Isola dei coralli Paolo Fadda scrive: “Nereide Rudas (psichiatra di fama, saggista e intellettuale a tutto tondo) uno dei personaggi centrali – e più autorevoli – dell’intellighenzia isolana degli ultimi decenni…ha segnato con importanti contributi il difficile percorso compiuto dal popolo sardo per la modernizzazione della propria terra…metaforicamente definita l’isola dei coralli, simbolo di quella preziosa arborescenza che anziché espandersi all’esterno, fiorisce e si ramifica nelle profondità marine…questa somiglianza corallina è assai “centrata” perché la Sardegna ha sempre vissuto la propria storia sotto traccia…come il corallo, di profondi e intangibili valori interni e perciò profondamente identitari…ed è proprio questo discorso sull’identità sarda – sui suoi valori e disvalori – che fa da pivot centrale allo studio della Rudas”

[Paolo Fadda, Sardegna economica, Bimestrale della Camera di commercio di Cagliari, n.4-5 2006, pagina 79].

Il corallo, quella preziosa arborescenza di cui la Sardegna è ricca e che anziché espandersi all’esterno si ramifica nelle profondità marine, metaforicamente rappresenta la storia e l’identità dell’Isola: un’identità lacerata e fessurata. Ciò perché, come Sardi, storicamente, abbiamo sempre avuto un rapporto problematico con la realtà, una non conciliazione con il mondo. Di qui l’insicurezza e la sofferenza, frutto anche degli imperativi che ci hanno imposto dall’esterno i dominatori che si sono via via alternati nell’Isola: imperativi drammaticamente azzeranti, repressivi e nullificanti.

L’Identità di cui parla Nereide Rudas nel saggio non è analizzata però secondo le modalità della sociologia o dell’antropologia, ma secondo l’ottica specifica dell’attenzione psichiatrica: un’identità scissa, vissuta come problema, dentro i labirinti della sofferenza e dei tormenti, non come tranquilla modalità di essere nel mondo: quella sofferenza che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi.

Un’identità di cui l’autrice – più che cogliere l’essenza –  s’interroga sul corpo dei significati che vogliamo esprimere con essa. Un’Identità dinamica, come percorso e progetto, non data e definita una volta per tutte, il che non significa che non ci sia qualcosa di stabile. Un’identità individuale ma che affonda in un corpo sociale, che invera quella dei singoli e la fa diventare concreta.

  Un’identità che nei romanzieri e scrittori sardi – in Deledda come in Lussu, in Giuseppe Dessì e Salvatore Satta come in Salvatore Cambosu e Francesco Masala – è così forte che la Sardegna non è un semplice scenario, uno sfondo, ma la vera protagonista, non un luogo ma il luogo, non l’oggetto ma il soggetto.

Colpisce nel saggio di Nereide, pur in presenza di analisi di tipo psichiatrico e psicanalitico, la cifra della scrittura, la levità e il nitore del linguaggio, la suggestione della sua prosa, che affascina, che incanta e che cattura.

Certo per Nereide Rudas la memoria di noi sardi come una preziosa arborescenza di corallo, anziché ergersi e dilatarsi nell’aria si è inabissata nel nostro mare interno. Invece di espandersi e svilupparsi nel di-fuori, si è sommersa ed estesa nel di-dentro: ma, indovandosi, è diventata tenace e labirintica.

Certo, siamo un’Isola con sacche di arretratezza e di infelicità e non abbiamo ancora metabolizzato il nostro lutto, ma abbiamo grandi possibilità. Per la Sardegna si profila un orizzonte più felice e prospero se sapremmo coltivare e mettere a frutto i coralli nascosti. Bisogna però, secondo l’autrice, impegnarsi in un grande sforzo collettivo, in un serio, profondo e rigoroso progetto culturale. E conclude: allora la misteriosa “creatività” dei sardi di cui ho tentato di illuminare la faccia nascosta, si potrà dispiegare più potente e libera.

NereideRudas e il problema dell’Identità: una problematica attuale

“[…] Complessa e difficile tematica dell’autoconsapevolezza e dell’indivi­duazione personale e collettiva l’Identità è andata assumendo grande ri­lievo sia che venga riferita all’individuo, sia che venga riferita a gruppi, a formazioni sociali, a popoli o ad etnie, il concetto identitario si è ormai da tempo imposto all’attenzione scientifica, culturale sociale e politica.

Con le sue scansioni e tensioni, ma anche con le sue cadute e silen­zi, il tema identitario ha attraversato tutto il `900 per giungere come di­scorso aperto sino a noi.

Il secolo trascorso, teatro di grandi e profondi cambiamenti, è consi­derato l’epoca della memoria moderna e dell’identità che conservano an­cora oggi grande peso di valore e di obbiettivo.

La crescita esponenziale della scienza e della tecnologia, la rottura del­l’isolamento e della demarcazione tra gli Stati, l’oltrepassamento dello stesso confine del nostro pianeta (esplorazione spaziale, primo uomo sul­la luna, ecc.), ma anche il superamento del confine corporeo (organi in­terni prima invisibili e resi ora sempre più trasparenti dalle diagnostiche molecolari e per immagini; nuove tecniche riproduttive; gravidanze sur­rogate, trapianto d’organi, ecc.) hanno reso gli individui e i popoli sem­pre meno inviolati, chiusi e circoscritti. I Paesi e Continenti sono sempre più vicini e comunicanti e, soprattutto, interdipendenti.

Quasi nessun gruppo, popolo o etnia vive ormai nel proprio isolamen­to, ma è sempre più spinto a confrontarsi con altri gruppi, popoli ed et­nie diverse da Sé.

La storia di ciascun gruppo, popolo od etnia confluisce e si embrica con altre storie e tende a scorrere in un flusso storico più ampio, com­plesso e intrecciato.

Nello scenario attuale di frantumazione delle barriere nazionali, di ri­mescolamento di popoli e di culture (si pensi ai forti flussi migratori), nel­l’orizzonte dell’incombente globalità, inevitabilmente omologante, si af­ferma e prende voce il diritto delle piccole e grandi patrie a conservare la propria specificità. Nasce l’esigenza di tutelare la diversità quale bene da custodire e tramandare non solo nel proprio ambito, ma quale bene e valore generale, prezioso per tutti.

  È “l’incontro ravvicinato” di nuovo “tipo”, forse il tratto caratterizzante del nostro tempo, a porre e riproporre appunto il tema dell’identità. Perché non solo non si può andare all’incontro e al confronto con l’Altro senza sapere ciò che uno è, ma perché quell’uno è anche ciò che l’Altro riconosce in lui.

La mia identità comprende, infatti, sia l’au­toconspevolezza (coscienza di me stesso), sia 1’eteroriconoscimento (il riconoscimento che gli Altri conferiscono alla mia unicità, singolarità e continuità nel tempo). Anche in Sardegna si parla e si discute molto di Identità.

Non c’è Convegno, Congresso, Seminario, in cui non si affronti direttamente o indirettamente il tema identitario, intensamente seguito ed emotivamente partecipato.
L’identità etnica, storica, linguistica, culturale e sociale, rappresenta­no altrettanti argomenti che appassionano molti sardi.

Anche da questa ormai vasta documentazione, così come da saggi, libri, articoli ecc. emerge che l’identità sarda, la sardità, è ormai una ca­tegoria ben individuata, fondata su una caratteristica etnia e cultura. È d’altronde da considerare che sulla nostra entità peculiare e distinta, sul­la nostra specificità etnica e sulla particolarità della nostra vicenda stori­ca è basato il nostro stesso ordinamento regionale.

Noi siamo, almeno sulla carta, una regione ad ampia autonomia spe­ciale (Regione a Statuto Autonomo Speciale) […] ”.

[Nereide Rudas, in Emilio Lussu, trent’anni dopo, Alfa editrice, Quartu, 2006, pagine 17-18]

Nereide Rudas e la cultura sarda:depressiva/creatinogena?

 “Avanzerò qui alcune considerazioni preliminari senza alcuna pretesa esaustiva, limitandomi al romanzo e sorvolando su spinose questioni di fondo.

Al di là della discussione sull’esistenza o meno di una letteratura specifica sarda, a me pare che i testi letterari possano comunque essere assunti come documenti che esprimono non solo “il punto di vista” degli scrittori sardi, ma vanno oltre.

Dalla mia prospettiva disciplinare questi documenti non solo chiariscono gli aspetti concettuali, i modelli cognitivi e il linguaggio del gruppo che scrive, ma ne rivelano anche i livelli fantasmatici più profondi.

I testi narrativi possono essere colti come simbolizzazione poeti­co-intellettuale di una esperienza storico-culturale di uno specifico popolo e insieme come elaborazione metaforica degli aspetti emoti­vi profondi del suo mondo interno.

Anche nella narrativa del popolo sardo si può quindi ritrovare, in forme più o meno dirette ed esplicite, la riflessione, a livello di autocoscienza sul Sé, sull’altro da Sé e su tale rapporto.

Partendo da questi presupposti mi sono cimentata in un discor­so sull’identità dei sardi, colta nella sua dimensione relazionale e dia­lettica, tratta da miti, forme e linguaggi della letteratura sarda. Il romanzo sardo esaminato nell’ottica psicodinamica mostra una struttura identitaria e una Weltanschauung diverse da quelle emer­genti dal romanzo italiano.

Sebbene la letteratura italiana sia stata forse meno monocentrica di altre narrative europee e si sia meno accentrata su un proprio unico modello, non vi è dubbio che essa abbia comunque proposto para­digmi, schemi e patterns culturali di una cultura dominante.

Il romanzo sardo, pur collocandosi all’interno dell’universo lin­guistico e culturale italiano, se ne discosta per molti aspetti. Leggen­do le opere di Grazia Deledda, di Salvatore Satta, di Emilio Lussu e, a ben guardare, dello stesso Antonio Gramsci, cogliamo subito una specificità e una diversità. Confrontate con le altre opere lette­rarie italiane esse ci appaiono in un certo senso fra loro “omogenee” e nel contempo irrimediabilmente “altre”.

Sotto questo profilo la letteratura sarda potrebbe, perciò, rap­presentare un significativo specchio in cui i sardi si riflettono ma nel quale anche la cultura italiana può cogliere uno sguardo su se stessa da parte di un gruppo simile/diverso. In tal senso la narrativa sarda può o potrebbe costituire un polo dialogico di significativa impor­tanza e utilità generale.

Se si ritorna al romanzo sardo e lo si pone sotto il riflettore psico­dinamico, esso rivela temi fondanti, già noti agli studiosi di letteratura.

Tra questi si possono annoverare quelli relativi:

– al vissuto di perdita;

– alla “nostalgia immobile”;

– alla caducità;

– all’”utopia ferma”.

Il romanzo sardo è innervato da vissuti di perdita e da una do­lorosa e raggelata coscienza di mancanza. Se ne potrebbero citare numerosi esempi.

Il coinvolgimento di perdita non appare però solo direttamente e contingentemente legata a specifiche situazioni o a eventi di vita.

Questi, se affiorano, sembrano solo riacutizzare e rendere evidenti un vissuto più antico e profondo.

Anche nella finzione letteraria l’esperienza di perdita del sogget­to va indietro e si dilata a una condizione più radicata e lontana. II suo vissuto sembra saldarsi al sentimento generale di una perdita ori­ginaria. In tal senso i personaggi dei romanzi sardi ci appaiono come orfani e apparentati da questa orfanità. È questa una condizione che sembra trascendere non soltanto il dato anagrafico, ma il sesso, l’età, lo stato sociale, le vicissitudini di vita, le vicende dell’esistenza ecc.

Orfani o figli di una “nazione mancata”, i personaggi della nar­rativa sarda avanzano nudi e dolenti alla perenne ricerca della pro­pria nascita, delle proprie origini, della propria identità. Ecco per­ché vivono esiliati nella propria terra, nostalgici di uno spazio e di un tempo che non sono mai esistiti. Per nascere ed esistere bisogna, infatti, confinarsi in una casa, che non consiste nelle quattro mura di un edificio segnato in una mappa catastale, ma è un luogo origi­nario e un tempo originario per i significati di appartenenza, sicu­rezza e identità che vi sono inerenti.

Le figure della narrativa sarda, pur specificamente connotate e pur esprimendo un forte desiderio di appartenenza, sembrano inve­ce rimanere esiliate nella loro terra ed essere estranee alla propria casa1. Esse ci appaiono inconfondibilmente pervase da una sorta di coscienza nostalgica che ho definito “immobile”.

La nostalgia, topos letterario dall’Odissea in poi, è un tema ricor­rente nella letteratura di molti popoli e Paesi. Il coinvolgimento no­stalgico trova tuttavia nella narrativa sarda una particolare e incisiva valenza.

Su un altro piano, d’altronde, negli emigrati sardi, particolarmente vulnerabili alla separazione e al distacco dalla propria terra, emerse­ro insistite e invasive reazioni nostalgiche. Attanagliati dal sentimen­to nostalgico, dalla coscienza di un “altrove” estraneo, i sardi vissero un’inquietudine profonda e una disperata tristezza che spesso scon­finò in quadri depressivi.

Questa particolare nostalgia pervade anche il romanzo sardo. È una nostalgia struggente e destruente e nel contempo “immobile”. Sembra declinarsi e prescindere dalla dinamica che solitamente l’ac­compagna e la determina. In tal senso è una nostalgia senza viag­gio.

Nel romanzo sardo la perdita e la separazione e lo stesso viaggio sono mitici. La patria è perduta o ritenuta tale, non perché ci si è allontanati da casa; diventa irraggiungibile perché è proiettata in un mitico passato. È il nóstos a una condizione originaria, fuori della storia.

Il ritorno è sempre a un continente sconosciuto, inconscio, a cui ogni approdo è possibile. Qui l’accostamento all”`oggetto” kleiniano perduto sembra trovare una sua pregnante legittimazione.

La “nostalgia immobile”, quale tentativo di ritorno alle origini, conato di raggiungere un “oggetto” irraggiungibile, si riconnette a un altro tema dominante della narrativa sarda: la caducità.

L’intera gamma del caduco, che si esprime nel sentimento del­l’essere effimeri, dell’essere fuscelli in balia di forze indomabili e pre­ponderanti, dell’essere “canne al vento” nel vortice estraneo ed estra­niante della sorte e della storia è un Leitmotiv della letteratura sarda.

Il vissuto di essere perituri e insieme inutili, sviliti nel proprio valore e, per di più, incapaci di gestirsi e dirigersi autonomamente, quindi in continuo rischio di cadere in preda a forze incontrollabili e invincibili esterne, è profondamente radicato nella nostra cultura e si riflette in molte nostre espressioni letterarie.

L’ho esaminato particolarmente in Cenere di Grazia Deledda, interpretandola alla luce del pensiero di Freud2.

La caducità, che nell’ottica psicoanalitica è riconducibile al Tha­natos, ha una forza così distruttiva e annientante nella narrativa sar­da da connotare persino eventi definitivi come la nascita e la morte.

II vissuto dissolvente della caducità in Cenere è riferito alla nasci­ta, mentre nel Giorno del giudizio di Salvatore Satta è riferito alla morte.

In entrambi i romanzi, pur diversi per trama, modalità espressi­ve, linguaggio, stile narrativo ecc., la forza del caduco si afferma e si impone in una dimensione violenta e distruttiva.

Così la nascita diviene “cenere” e la morte “effimera”. C’è qui quasi l’ala di un delirio nichilistico, un cupio dissolvi, perentorio e oscuro, in cui si toccano i più profondi e desolati confini di una desertica landa depressiva3.

Ma anche la tensione visionaria, già richiamata, sembra collegar­si profondamente ai primi temi esaminati. È anch’essa una visiona­rietà “ferma”, che non si traduce in una spinta in avanti e non ani­ma alcun sogno di trasformazione e cambiamento, magari utopico. Il sogno rimane esso stesso chiuso, sganciato da un orizzonte di possibilità future.

La febbre visionaria sembra così più una risposta vitale agli at­tacchi distruttivi del Thanatos che una vettorialità propulsiva. La ten­sione visionaria perciò rimane, rispetto alla direzione dell’avanti, al­trettanto ferma di quella della nostalgia rispetto a quella dell’indietro.

Entrambe ci appaiono immobili.

Tutti questi temi presenti e insistiti nel romanzo sardo parlano, a mio avviso, lo stesso linguaggio. Essi ci dicono una grave sofferenza che può essere definita in senso lato depressiva.

Possiamo, dunque, affermare che il romanzo sardo, dal punto di vista contenutistico, ne esprime una sua forte e pregnante dimensione.

Il rapporto dello scrittore con la sua opera, il suo “attaccamen­to” tenace, irreversibile all’oggetto Sardegna, conferma una coscien­za infelice e minacciata del Sé, che si apre diffidente e insicura sul mondo.

Questa coscienza riflette, in forme più o meno dirette, la cultura e la società in cui il romanziere vive e opera.

La sofferenza che ha segnato l’esistenza individuale e collettiva dei sardi, come d’altronde emerge da valutazioni storiche e antropo­logiche, si è tuttavia incanalata in una trasposizione creativa. Ha tro­vato cioè la forza di percorrere la strada privilegiata della creatività e di tradursi in opere e forme letterarie e artistiche.

Il discorso ritorna così ai suoi assunti iniziali e tende a conclu­dersi. Ma giunta a questa fase finale temo di aver sollevato più que­siti che offerto risposte. Nutro soprattutto il timore di aver ingene­rato equivoci.

Per tentare, sinteticamente, di dissiparli almeno in parte, deside­ro sottolineare alcuni importanti passaggi del discorso, che potreb­bero essersi persi o dispersi nel tessuto espositivo.

Il primo concetto da ribadire è: non sostengo che per creare bi­sogna essere depressi. Questa asserzione sarebbe ingenua e facilmente smentibile dalla comune osservazione che numerosi depressi non sono creativi e che molti di loro possono addirittura cessare di esserlo proprio a causa della forte inibizione depressiva.

D’altronde la maggioranza dei non depressi (i soggetti cosiddetti normali o comunque non affetti da evidenti patologie) non mostra­no solitamente spiccate capacità creative.

Le cose sono molto più complicate. Si può però certamente dire che tra depressione e creatività esiste un legame, una correlazione altamente significativa, così come emerge da rigorosi dati di ricerca.

Questa correlazione, insieme a numerosi dati dell’esperienza cli­nica, ci autorizza a pensare che soggetti, a gradi contenuti di depres­sione, possono superare le proprie ansie depressive e ribaltarle nel­l’opera d’arte.

Coloro che vanno incontro a disturbi dell’umore sono d’altron­de più inclini a sondare e interpretare il proprio mondo interno nel gioco delle luci e delle ombre di oscillazioni estreme dell’umore. Essi perciò, in certe e irripetibili condizioni socio-culturali e ambientali, potrebbero più facilmente operare quella “sintesi magica” che porta alla produzione creativa.

Analogicamente si può ipotizzare, che a livello collettivo, gruppi e popoli, conquistando specie dopo il buio di dolorose oppressioni, condizioni più favorevoli, divengano capaci di operare “sintesi magi­che” e di produrre artisticamente.

Anche il gruppo sardo, dopo una lunga storia di isolamento e di dominazione, emancipandosi, seppure parzialmente, da un’emargina­zione storica, sociale e culturale potrebbe essere stato spinto da una forte motivazione a emergere e a trovare compensazioni e riparazio­ni alle passate privazioni.

Accedendo a una più ampia disponibilità di mezzi culturali e al confronto con altri gruppi e popoli, i sardi avrebbero potuto così imboccare la via della produzione creativa. Potrebbero essere stati in ciò agevolati da un certo distacco dal­le contingenze della vita e dall’abitudine a vivere in solitudine.

D’altra parte l’isolamento, preservando dal totale dissolvimento una cultura originaria assediata, ha fatto sì che i sardi fossero porta­tori di valori, patterns cognitivi e culturali e comportamentali propri, sebbene “residuali”.

Entrando in contatto con quelli della cultura italiana, avrebbero disposto di schemi cognitivi, non appiattiti conformisticamente sullo schema dominante, e perciò sarebbero stati stimolati a trovare solu­zioni “divergenti” e, quindi, creative.

La loro creatività, che si è sinora espressa in condizioni dolorose e difficili, pone problemi e quesiti che si prospettano nell’avvenire.

Fondamentale importanza riveste la necessità di individuare e incrementare i già presenti fattori favorenti la creatività della nostra cultura e della nostra società. In tal modo la nostra creatività, se con­venientemente sostenuta e agevolata, potrebbe dare in futuro straor­dinari frutti.

Ma per ottenere questi risultati bisogna impegnarsi in un grande sforzo collettivo, in un serio, profondo e rigoroso progetto culturale.

Allora la “misteriosa” creatività dei sardi, di cui ho tentato di illuminare la faccia nascosta, si potrà dispiegare più potente e libera”.

Note (presenti nel testo)

  1. Aquilino Cannas intitola emblematicamente un suo prezioso libro di poesie dedicato alla Sardegna con le parole dell’esilio nella propria patria. Cfr. Disterru in terra (La saga dei vinti), TIAM, Cagliari, 1993.
  2. Ho interpretato Cenere, famoso romanzo di Grazia Deledda, secondo l’otti­ca freudiana della caducità. Cfr. S. Freud, Caducità (1916), in Opere, cit., vol. VIII. Cfr. infra, cap. 5, in particolare il par. 53.
  3. In alcune forme gravi di melanconia il malato può manifestare idee che arri­vano a negare l’esistenza del proprio corpo, del mondo, del tempo e della stessa morte. Le idee di negazione possono organizzarsi in un delirio nichilistico o “Sindro­me di Cotard”.

Sen’istandard sa limba sarda si nche morit

 

 La chiesa di Santa Maria di Bonarcado

 

Sen’istandard sa limba sarda si nche morit

de Frantziscu Casula

A sa Festa de sa limba sarda ufitziale, in Bonarcadu sabadu 24 e domìniga 25 de cabudanni, ant partetzipadu in chentinas: prus de setighentos. Bennidos dae totu sa Sardigna. E peri dae foras, dae allargu. Dae Milano ma finas dae Barcellona e Madrid. Medas feminas e giovanos. Paris cun sos militantes linguisticos, istudiosos e amantiosos de sa limba sarda, intelletuales, iscritores e poetes, musicistas, artistas e atores, professores e mastros de iscola, giornalistas (bi fiat puru Antony Muroni, ex diretore de s’Unione Sarda), politicos (amento a Soru) e rapresentantes de Sotzios e Associatziones culturales, Partidos e Movimentos sardistas e indipendentistas. Puru custos ant totus chistionadu in Sardu, a comintzare dae Bustianu Cumpostu, Chi in Sardu faeddat semper, proite, at naradu, s’Indipendentzia si fraigat partinde dae sa limba.

   Tenet resone de esser cuntentu e saltifatu su   Coordinamentu pro su Sardu Ufitziale (CSU), chi at organizadu sa Festa e chi sustenit  sa Limba Sarda Comuna. Est istada – at iscritu – una renèssida a sa fidada petzi pro chie non connoschiat s’organizatzione de sa Festa. In realtade pro su Coordinamentu su chi est capitadu sabadu 24 e domìniga 25 fiat isetadu. Gente meda, programma cualificadu, atentu de sos mèdia, partetzipatzione polìtica, profetu isparghinadu. Una die de no ismentigare a beru. Meda mègius de Sèdilo 2014 e fintzas de Oschiri 2015, chi puru fiant andadas bene meda. Meressimentu de su diretivu CSU chi est renèssidu a fàghere sas alleàntzias giustas pro valorizare sas propostas suas. Duas dies pienas de relatas, interventos, testimonias, discussiones cundidas cun poesia, literadura e musica.

   Cuntentu e saltifatu peri su fundadore e s’anima de su CSU, Giuseppe Corongiu chi at iscritu: “La festa della lingua sarda ufficiale di Bonarcado è stata un successo. Le presenze della due giorni nello scorso fine settimana sono state stimate in quasi 800. Il dibattito di qualità, profondo, partecipato, aperto: istituzionale e movimentista allo stesso tempo. Il digitale linguistico l’ha fatta da padrone: Facebook, CNR, sintetizzatori vocali, app creative per bambini. La macchina organizzativa ha funzionato alla perfezione.. Senza soldi pubblici, solo con l’aiuto logistico del comune di Bonarcado (che ringrazio), il Coordinamentu pro su Sardu Ufitziale ha creato un evento politico, letterario, scientifico, digitale, musicale per quelle centinaia di persone che ancora credono nel movimento di ufficializzazione della nostra lingua. Ci sarebbe di che vantarsi”.

    A pustis sa saltifatzione  ponet unas cantas preguntas, faghinde puru autocritica: “perché il governo sardo, le università, le scuole, i media, la chiesa, gli imprenditori, i sindacati, tutte le élites che contano qualcosa, non si stracciano le vesti e non attuano politiche di impatto, qui e ora, davanti al problema di una lingua identitaria che muore, mentre dovrebbe essere normalmente ufficiale?

    Non cerco altrove le responsabilità. Sicuramente, come già messo in luce altre volte, abbiamo avuto limiti come Movimento Linguistico. Non siamo riusciti a produrre un’egemonia, abbiamo subito e fatto nostro lo sguardo di una classe dirigente diffidente e non inclusiva su questo tema. Ci siamo divisi sui separatismi delle varianti dialettali, non abbiamo lavorato abbastanza sulla lingua ufficiale sarda. Non abbiamo sognato. Abbiamo avuto la sindrome di Stoccolma con i nostri avversari (buona parte delle élites dirigenti) cercando di allearci con loro invece che confrontarci. Abbiamo urlato nelle assemblee per il sardo lingua nazionale, mentre crescevamo i nostri figli in italiano.

    Dal successo di Bonarcado però (7-800 persone sono tante), allora, possiamo trarre le forze per inventarci ancora qualcosa, nel prossimo futuro, un’idea che sia uno choc salutare pro sa limba sarda ufitziale”.

   Una cosa crara est peroe bessida dae Bonarcado: Sen’istandard sa limba sarda si nche morit. E chie cheret su “Bilinguismu perfetu”, est a nàrrere sa parificatzione giurìdica e pràtica de su Sardu cun s’Italianu, non podet èssere contra a un’istandard, comente est sa LSC. Ca sena istandard non bi podet èssere peruna ufitzializatzione e sena ufitzializatzione sa limba sarda est destinada a si nche mòrrere o a èssere cunfinada in carchi furrungone, in carchi festa de bidda pro cantare batorinas e noitolas.

   O impreada pro nàrrere brullas, carchi paristòria o, si nono, paràulas malas, irrocos o frastimos. Deo so cumbintu chi oe a subra de s’istandardizatzione, pro lu nàrrere a sa latina:”non est discutendum”. Ca ischimus bene chi sena s’unificatzione, peruna limba si podet imparare in sas iscolas, si podet impreare in sos ufìtzios, in sos giornales, in sas televisiones, in sas retes informàticas, in sa publitzidade, in sa toponomàstica. Sena ufitzializatzione e sena istandardizatzione, pro nàrrere, in sos litzeos o in sas Universidades sardas, “cale Sardu” imparamus?

E in sos giornales e in sas televisiones, chi allegant a totu sos Sardos, ite impreamus? Calincunu narat: faghimus duos istandard: unu pro su logudoresu e unu pro su campidanesu. Ite machine e tontesa est custu? Semus giai male unidos e cherimus galu ateras divisiones? E, in prus,: pro ite duos e non tres, bator, deghe, 365, cantas sunt sas biddas sardas e su “dialetto” issoro? E in ue agabbat su campidanesu e in ue cumintzat su logudoresu? E esistit unu campidanesu e unu logudoresu o bi nd’at medas? Sa LSC no andat bene? La curregimus, la megioramus, la irrichimus: ma dae issa depimus mòere.

    Ca est s’istandard chi tenimus, a pustis de trinta annos de brias e de cuntierras subra de custa chistione. E sos “dialetos locales”? Chi sunt una richesa manna, non b’at perìgulu chi si nche mòrgiant? Est a s’imbesse: cun una limba ”standardizada”, una Limba chi siat una “cobertura” pro totus est prus fatzile chi sigant a campare; sena 

Sulla lingua sarda uno stato fuorilegge e inadempiente

di Francesco Casula
Sulla lingua sarda l’Europa bacchetta e ammonisce lo Stato italiano: esso infatti è inadempiente e fuorilegge con il governo Renzi che discrimina la lingua sarda.
Il Consiglio d’Europa, attraverso il Comitato consultivo di controllo della Convenzione quadro di protezione delle minoranze nazionali, in un rapporto di 38 pagine denuncia il fatto che mentre le lingue frontaliere (tedesco e ladino in Trentino Alto Adige, francese in Valle d’Aosta e sloveno in Friuli Venezia Giulia) sono sufficientemente sostenute, quelle riconosciute solo nel 1999 con la Legge 482, ad iniziare dal sardo e dal catalano, vengono bistrattate e dimenticate.
Nel dossier degli esperti del Comitato si denunciano “le emergenze più grandi” ad iniziare dalla mancanza di una programmazione in TV e Radio. Così un milione circa di parlanti il Sardo non ha accesso alla televisione pubblica e alla Radio nella propria lingua. Ancor più evidente l’emergenza nel campo della scuola in cui “le opportunità in cui l’insegnamento in e con altre lingue come l’albanese, il catalano, il croato, il greco e il sardo sono ampiamente inadeguate”.
Lo stesso discorso vale per la formazione degli insegnanti, l’aggiornamento e la disponibilità di materiale didattico. La conseguenza è che :”In Sardegna la percentuale degli allievi che ha avuto anche un solo contatto episodico e non continuativo con la lingua a scuola è inferiore al 15%”.
Ad annunciare la denuncia europea contro l’inapplicazione delle norme sulle minoranze linguistiche  da parte del governo Renzi è il Coordinamento pro su sardu ufitziale  (CSU), la cui Assemblea direttiva attraverso Giuseppe Corongiu, – fondatore dello stesso Coordinamento e responsabile dell’Ufficio linguistico regionale dal 2006 al 2014 – sostiene che :”Est importante chi su Comitadu de su Cussìgiu de Europa apat retzepidu sas istàntzias nostras, e sa cosa tenet unu valore particulare ca est istada realizada petzi cun su cuntributu de sos assòtzios de base. Nos diat èssere agradadu a mandare a dae in antis custu traballu cun sa Regione; amus fintzas iscritu, ma non nos ant carculadu. Como su Guvernu Tzentrale at a dèvere dare rispostas cumbinchentes; si nono su Comitadu de sos Ministros at a intervènnere de seguru cun santziones. Amus a pedire a sos europarlamentares sardos de intervènnere”.
La Regione sarda non solo no at carculadu a su CSU, ma tace. A fronte della “ammonizione” dell’Europa ci si sarebbe infatti aspettati una forte e decisa presa di posizione della Giunta Regionale contro il Governo Renzi, inadempiente e “fuorilegge” persino rispetto alle deboli e anemiche normative (come la Legge 482 sulle Minoranze linguistiche storiche).  Invece niente. Dorme. E’ di fatto complice della discriminazione antisarda. Forse perché ha la cattiva coscienza. Se lo Stato discrimina e dimentica la lingua sarda, la Regione fa altrettanto. Anzi peggio. Fa passi indietro persino rispetto al passato, alle Giunte Soru e Cappellacci, in cui sul fronte della politica linguistica qualcosa si era mosso. Pigliaru e la sua Giunta cercano di affossare e inabissare persino quel minimo di standardizzazione del Sardo che iniziava a dare qualche frutto nella direzione di “superare” la frammentazione dialettale per imboccare la strada di un sardo “ufficiale”. Senza il quale ogni prospettiva di Bilinguismo perfetto è vana. Senza il quale la lingua sarda è destinata a languire, marginalizzata e “dialettizzata” nelle feste paesane e nel folclorismo.
E’ questo che si vuole? Temo di sì: almeno da parte dello Stato e della Regione. A parte infatti le dichiarazioni di principio e i proclami alla vigilia delle elezioni, per accalappiare qualche voto “identitario”; a parte le stesse leggi (la 26 a livello regionale del 1997 e la 482 del 1999, a livello statale: in ritardo abissale di ben mezzo secolo rispetto al dettato costituzionale del ’48, articolo 5:”La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”), non c’è la consapevolezza dell’importanza e della necessità di valorizzare la lingua sarda come lingua “normale” e coufficiale (con l’Italiano) da insegnare nelle scuole di ogni ordine e grado e da utilizzare in tutte le occasioni di vita (in famiglia, nei luoghi di lavoro ecc) come nei Media (Rai-TV-Internet-Giornali), nella Pubblicità e nella Toponomastica.
Anche se non lo si ammetterà ho l’impressione che Pigliaru (come la quasi intera classe politica ma anche accademica) seguano ancora l’indicazione di Carlo Baudi di Vesme, che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, sostiene che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire (sic!) alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”.
Eppure Pigliaru, presidente di una maggioranza che si vorrebbe progressista e addirittura con componenti sovraniste e indipendentiste, dovrebbe conoscere – e dunque praticare – l’insegnamento di Michelangelo Pira che in La rivolta dell’oggetto (pagina 252) scrive:”Il vicerè non aveva alcun obbligo di essere bilingue; alla traduzione dei suoi ordini potevano provvedere intellettuali bilingui suoi dipendenti. Il presidente della Regione (per dire le istituzioni e organizzazioni sarde autonomistiche) ha l’obbligo di essere compiutamente bilingue: il suo compito non è quello di trasmettere ordini di una sovranità esterna bensì quello di farsi estensione di una sovranità interna, partecipando alla costruzione di questa.
Egli deve capire quel che si vuol fare della Sardegna da parte dei poteri esterni dell’Isola, ma anche e soprattutto deve capire quel che la Sardegna vuol fare di se stessa e dei suoi rapporti con i suoi interlocutori esterni. E la volontà interna si forma e si individua sia parlando in sardo, sia parlando in italiano”.
O no?

C’è da spostare una statua

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C’è da spostare una statua

di Francesco Casula

In occasione della ricorrenza di Sa Die de sa Sardigna, il 28 aprile scorso, un gruppo di cittadini (intellettuali, storici, docenti universitari) si sono ritrovati in Piazza Yenne a Cagliari e hanno dato vita a un Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice”. Nel volgere di qualche settimana arrivano centinaia e centinaia di adesioni: attualmente sono più di quattromila. Nel contempo il Comitato propone la sottoscrizione di una petizione (bilingue, in Sardo e in Italiano) con una proposta-richiesta che intende presentare al Sindaco e all’Amministrazione comunale di Cagliari corredata dalle firme, che  a tutt’oggi 29 maggio sono 950.

Ma ecco in estrema sintesi i punti più salienti della proposta:

1. Spostare la statua di Carlo Felice in un museo cittadino, corredandola di adeguata ed esaustiva didascalia che, con richiami bibliografici, permetta ad ogni visitatore del museo, di prendere coscienza della storia dello stesso.

2. Rinominare la strada “Largo Carlo Felice” con qualcosa che richiami un momento positivo della storia dell’Isola e della città, quale per esempio, la data del 28 aprile giorno in cui si celebra Sa Die de Sa Sardigna.

3. Sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare un eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli (per esempio Giovanni Maria Angioy i cui seguaci furono perseguitati da Carlo Felice).

4. Concordare, con le istituzioni scolastiche della città, iniziative di informazione e formazione degli studenti sulla storia della città di Cagliari così da favorire la conoscenza e la crescita del senso di identità che oggi appare debole, effimero e non consapevole.

Nella sustraordinario ordinò di utilizzare i cannoni, per la prima volta nella storia italiana, per sparare sulla folla a proposta-richiesta il Comitato parte da un dato: le gravissime  responsabilità politiche della zenia dei savoia, su cui la storia ha emesso giudizi inappellabili di condanna. Per fare qualche esempio penso a Umberto I, soprannominato “re mitraglia” e, non a caso. L’8 maggio 1988 il generale Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario al centro di  Milano, uccidendo 80 cittadini e ferendone altri 450: una vera e propria carneficina. Il re mitraglia “ricompensa” il generale Beccaris con una bella onorificenza: prima la Gran Croce dell’Ordine militare dei Savoia: In seguito lo nominerà pure senatore. Aveva o no infatti compiuto una brillante azione militare?

Altro re savoiardo funesto è stato Vittorio Emanuele III, uno dei responsabili principali di sciagure immani: l’ingresso dell’Italia nella 1° e 2° Guerra mondiale, l’avventura tragica del Fascismo – fu lui in seguito alla cosiddetta Marcia su Roma a nominare Mussolini capo del Governo – conclusasi con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos.

Ma il re dei Savoia più funesto – almeno per la Sardegna – è stato Carlo Felice. Di questo sovrano ottuso despota e sanguinario mi piace riportare testualmente quanto scrive Giuseppi De Nur (in Buongiorno Sardegna:da dove veniamo, Ed. La Biglioteca dell’Identità, 2013, pagina 154) :” Partito il re e lasciata l’Isola nelle mani del viceré Carlo Felice, i feudatari continuarono imperterriti a dissanguare i vassalli con l’esosità delle loro gabelle mentre il viceré oziava nella sua villa di Orri, gaudentemente intrattenuto dai cortigiani locali e d’importazione, in conflitto permanente con tutto ciò che poteva affaticarlo non solo fisicamente ma anche intellettualmente, essendo uomo di scarsa cultura che rifuggiva dagli esercizi mentali troppo impegnativi. Il bilancio dello Stato era disastroso ma non quello suo personale, ovviamente, così che poteva permettersi di ostentare elargizioni in beneficenza con ciò che aveva riservato per sé. Fu, il suo, il governo poliziesco, sostenuto efficacemente da quelle anime nere dei

feudatari, a formare un sistema di potere dispotico e predatore in danno della popolazione locale, la cui autorità si manifestava delle forche erette per impiccare i trasgressori delle sue leggi, lì imposte con la forza.
E quegli ingenui abitanti di quello sfortunato luogo innalzarono invece per lui non una forca ma una statua, in una bella città capoluogo”.

Si tratta di una ricostruzione storica assolutamente veritiera e in linea con quanto scrivono storici come Pietro Martini (peraltro di orientamento monarchico) : “avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani. O Raimondo Carta Raspi, secondo cui  diede carta bianca ai baroni per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.

Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.

La proposta del Comitato “Spostiamo la statua di Carlo Felice” dovrebbe a mio parere, essere dunque capita, valutata ed eventualmente sostenuta, partendo da questi corposi e oggettivi dati storici, difficilmente contestabili perché :De evidentibus non est disputandum”!

A decidere se spostare o meno la Statua di Carlo feroce (così, a ragione, fu soprannominato dagli stessi Piemontesi), dovrà essere la nuova Amministrazione comunale di Cagliari che verrà eletta a giorni. Avrà essa un sussulto di orgoglio e dignità o continuerà, a permettere e tollerare che in una Piazza centrale della capitale sarda troneggi, come fosse un eroe, un despota, brutale e sanguinario persecutore dei Sardi? 

Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno

angioy_ritrattoUn Comitato denominato “SPOSTIAMO LA STATUA DI CARLO FELICE” di Piazza Yenne a Cagliari, propone  di sostituire la statua di Carlo Felice con altro monumento idoneo a ricordare invece qualche eroe della lotta per la liberazione del popolo sardo dalle vessazioni dei dominatori succedutisi nei secoli, quale per esempio, lo stesso Giovanni Maria Angioy.

Qui di seguito una breve scheda sull’eroe antifeudale, cui io propongo di dedicare una statua che sostituisca quella attuale di Carlo Feroce.

Giovanni Maria Angioy e la fine di un sogno

di Francesco Casula

-Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico,giudice della Reale Udienza.

La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del cosiddetto «riformismo» (senza riforme)sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione e violenta repressione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense.

Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme.

Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle

sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo

in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico

e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato

dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino

Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale

Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri.

-Angioy: “Alternos”

Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius –  “in sotterranee oscure fetentissime carceri”.

 

-L’Angioy a Sassari

Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta  – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni.

Angioy non poteva  non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà, giustificò l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, – scrive Natale Sanna – che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile”. Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari.

 

-L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno…

Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui”, scrivono Lorenzo e Vittoria Del Piano. Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicché egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito, da veri e propri ascari, sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici.

Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale – non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”.