“Racconti sardi. Grazia Deledda” ce li racconta Francesco Casula

“Racconti sardi. Grazia Deledda” ce li racconta Francesco Casula

 

Catartica Edizioni ha pubblicato 6 straordinari Racconti di Grazia Deledda, di cui ho scritto la Prefazione. Ecco alcuni stralci.

Occorre ricordare che Deledda frequenta solo le scuole elementari, dopo è autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, ovvero dalla scuola propria, dalla scuola impropria, (per utilizzare il lessico di Michelangelo Pira), ascoltando i racconti degli anziani, specie dei pastori negli ovili, dove accompagnata da un fratello e dai cugini, spesso si recava. E’ lei stessa a riferirci che ai libri preferiva l’ascolto di storie meravigliose e fantastiche, specie in inverno, davanti al caminetto, nelle notti interminabili. Istorias ispantosas di cui scrive in questi sei Racconti: di amori impossibili (Di Notte); di superstizioni, di incantesimi e di magie (Il Mago e Ancora Magie); di leggende, di streghe e avventure cruente e inverosimili (La Dama bianca); di amori disperati (In Sartu). Istorias maravizosas descritte con una potenza narrativa impareggiabile, con una parola che signoreggia e lievita e incentiva il pensiero e l’immaginazione oltre il dettato asciutto ed essenziale. Ma non si tratta della parola d’annunziana, del “verbo” che è tutto. Ovvero di pura forma, ridotta a orpello o decorazione, a musica o immagine ridondante, semplice prodotto estetico o luccicore sontuoso. Certo il rischio è presente. Come talvolta è presente l’enfasi e il compiacimento idillico, nella descrizione della natura e del paesaggio sardo, dei suoi colori e odori e profumi:”C’era un fresco incantato, là sotto. Dai massi sovrapposti dell’altura piovevano grandi grappoli di rovi verdeggianti e di biancospino fiorito. Le rose canine, diafane, sfumate in colore d’ambra, olezzavano acutamente, e il ruscelletto attraversava gorgogliando il sentiero per poi sparire tra le alte ferule anch’esse fiorite, di cui Manzèla teneva ancora un grosso e lungo gambo fra le mani”. Ma in genere evita tale rischio, perché la descrizione della natura non è fine a se stessa ma fa da sfondo e contesto in cui inserisce e rappresenta gli stati d’animo dei suoi personaggi: “Filando ritta sulla porta, Saveria vedeva il mare in lontananza, nell’estremo orizzonte, confuso col cielo di platino in estate, nebbioso in inverno: cucendo presso la finestra scorgeva una immensità di vallate stendentisi ai piedi delle sue montagne, e sentiva il caldo profumo delle messi d’oro ondeggianti al sole, e il sussulto del torrente che scorreva fra le rocce e i roveti montani. In quella casa piccina e nera, col tetto coperto di musco giallo e rossastro, ombreggiata da un vecchio pergolato, fra tanta festa di cieli azzurri e di immensi orizzonti silenziosi, da due anni, Saveria scorreva la vita più felice che si possa immaginare, accanto al suo giovane sposo dai grandi occhi ardenti e le labbra rosse come i frutti delle eriche fra cui conduceva i suoi armenti, la sola sua ricchezza. Si chiamava Antonio. Anch’esso dacché aveva sposato la piccola signora dei suoi sogni da pastore, viveva felicissimo…” . La felicità di Saveria e Antonio, ben si armonizza con la natura e il paesaggio solcati come sono da lampi di magia che creano nel lettore stati d’incanto, come se avesse attraversato un paese sereno e felice. O quando il sole già alto riflette e simboleggia «l’ardore» di Predu:”Il sole, già alto, dardeggiava la pianura, e Predu sentiva il sangue ondeggiargli ardente, a sbalzi, a meandri, a vampate, infiammandogli il viso e la testa. Manzèla invece, tirato il fazzoletto su gli occhi, proseguiva tranquilla, col viso dorato, composto come quello di una madonnina latina del Quattrocento. La luce intensa dell’aperta campagna dava un riflesso chiarissimo ai suoi grandi occhi, rendendoglieli quasi grigi e trasparenti, e Predu, guardandola intensamente, si sentiva morir dalla voglia di prendersela fra le braccia, come un piccolo agnello bianco e spaurito, e di coprirla di baci”. Sei racconti da leggere, da gustare e da assaporare, da godere: certo per la cifra letteraria, artistica ed estetica. Ma anche dal punto di vista etnico, etnologico e antropologico. E finanche storico.

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FRANCESCO CASULA: GRAZIA DELEDDA, FRA IDENTITA’ E LINGUA SARDA E LINGUA ITALIANA

 

06/07/2017, 18:02

Grazia Deledda

Ho il piacere di pubblicare nella mia Rubrica una interessante riflessione che lo storico della letteratura sarda e saggista Francesco Casula ha gentilmente concesso  venisse qui ospitata.

Un punto di vista sche ci fa meditare sulla diversità, e preziosità, della lingua e della narrativa deleddiana a confronto con l’omologazione di tanta letteratura italiana dell’epoca, e non solo…

“Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: la lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza – ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso magari inespresse ma presenti nel corso della narrazione. Voglio sostenere che la Deledda struttura il suo vissuto personale, la fenomenologia delle sue sensazioni e del profondo in lingua sarda ma lo riversa nella lingua italiana che risulta così semplice lingua strumentale. In tal modo opera un transfert del suo universo interiore nuorese, dell’inconscio, della fantasmatica.
Poteva non operare tale transfert e scrivere in Sardo? Certamente. Se non lo ha fatto è stato perché non vi era in quel momento storico (siamo a fine Ottocento-inizio Novecento) la cultura, la sensibilità, l’abitudine da parte degli scrittori, specie di romanzi, di utilizzare il sardo, negato proibito e persino criminalizzato dalla politica dei tiranni sabaudi. Non c’è quindi da meravigliarsi chegli scrittori – anche per avere una maggiore visibilità e diffusione delle loro opere – scrivano in italiano: la Deledda come tanti altri.
Ma Deledda rimane bilingue: pensa in sardo e traduce, spesso meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” – lo sostiene il linguista Massimo Pittau e io sono d’accordo – come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo: Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai? – Accatadu fattu l’as?; o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo – Cando est gai, andamus.

Vi sono poi innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza, usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”). O addirittura intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più: è un’imprecazione). Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano: Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) o Avete compriso?”.

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda, non solo lessicali ma anche sintattici, non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana. Scrive a questo proposito la critica sarda Paola Pittalis :”L’uso dei sardismi linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu – è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere bilingue”. E aggiunge:”La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile: deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale…ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana”.

FRANCESCO CASULA

 
 

 

 

Grazia Deledda –Università della Terza Età di Quartu- a cura di Francesco Casula

Grazia Deledda –Università della Terza Età di Quartu- a cura di Francesco Casula

La vitaRisultati immagini per grazia deledda

Grazia Maria Cosima Damiana Deledda è nata a Nuoro il 27 Settembre del 1871 da una famiglia benestante, “un poco paesana e un poco borghese”. Il padre, Antonio curava i possedimenti che aveva  e per hobby si dilettava con la poesia sarda improvvisata.La madre, Francesca, si dedicava alla casa e alla cura dei suoi sette figli. Deledda è morta a Roma il 15 Agosto del 1936, dopo una malattia incurabile e molto dolorosa: un tumore. Una grossa disgrazia che si aggiungerà a quelle che aveva avuto in giovinezza nella sua famiglia: un fratello, Santo, era alcolizzato, un altro Andrea era stato arrestato per un furto: il padre non aveva potuto sopportare la vergogna e muore di crepacuore. A Roma Deledda si era recata per seguire il marito,Palmiro Madesani, impiegato nell’Intendenza di Finanza, che aveva conosciuto la prima volta che era andata a Cagliari nel 1809, invitata dalla Direttrice della rivista “Donna sarda”. Con lui si sposerà l’11 gennaio del 1900 a Nuoro e avrà due figli chiamati Francesco e Sardo.
Dopo la morte le sue spoglie sono state trasferite il 21 Giugno 1959 dal cimitero di Roma “Il Verano” alla chiesa della “Solitudine” di Nuoro, dove, ancora oggi, la si può visitare. E infatti ogni anno, soprattutto schiere di giovani studenti e di turisti vanno a visitarla.
Grazia Deledda ha frequentato solo le scuole elementari, fino alla Quarta, in seguito riceverà lezioni di italiano, latino e francese ma essenzialmente diventerà “un’autodidatta”, imparando dunque a scrivere non attraverso i libri ma ascoltando i Contos , i racconti degli anziani, persino negli ovili dove andava ad ascoltare i pastori, accompagnata da un fratello o dai cugini. E’ lei stessa ad ammettere che più che quello che era scritto nei libri gli piacevano i racconti e le storie paristorias meravigliore e incredibili che ascoltava dai pastori nei paesi, nelle feste paesane, nelle novene, negli ovili delle valli nuoresi e vicino a Nuoro. E finanche a casa sua, ascoltando i racconti dei servi, in inverno, vicino al focolare, nelle interminabili notti.
Per dirla alla maniera di un altro grande intellettuale  e scrittore sardo, Michelangelo Pira, Deledda ha frequentato più la scuola “impropria” della comunità nuorese che la scuola “propria” dello stato. Nel contempo si è formata una cultura per conto suo, leggendo scrittori e poeti sardi ma soprattutto la Bibbia e Omero ma anche scrittori italiani (Manzoni e Verga, Tarchetti, Capuana, Fogazzaro, D’Annunzio) francesi (Dumas,Balzac e Victor Hugo) e russi (Dostoevskij e Tolstoj).
Durante la sua vita ha conosciuto i più grandi scrittori e critici letterari italiani del suo tempo (Giovanni Verga, Giuseppe Giacosa, Ruggero Bonghi, Mario Rapisardi, Luigi Capuana, Ada Negri, Edmondo De Amicis, Emilio Cecchi, Alfredo Panzini) con cui ha anche intrattenuto rapporti epistolari.
I suoi romanzi sono stati tradotti in quasi tutte le lingue del mondo. Con la traduzione in francese di Anime oneste (Amês honnêtes, Lyon, A. Effantin, 1899) inizia la sua fortuna fuori dell’Italia. E mai c’è stata in Italia una scrittrice così c0onosciuta e così famosa. Tanto che nel 1926 vinse il Premio Nobel con questa motivazione:” la sua potenza di scrittrice sostenuta da un alto ideale che ritrae in forme plastiche la vita qual è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano la rende degna di stare insieme con Carducci, Pirandello e Quasimodo, gli altri tre italiani insigniti del premio Nobel per la Letteratura”.
Grazia Deledda, fino a oggi è stata l’unica donna in Italia che abbia ottenuto il Premio Nobel per la letteratura (alla faccia di Benedetto Croce secondo il quale la deledda non sapeva neppure scrivere in italiano!) e insieme a Rita Levi Montalcini (Premio Nobel per la medicina nel 1986), l’unica donna che in assoluto abbia ricevuto il Premio Nobel.
Una vicenda che quasi sempre si sottace parlando della vita della Deledda –ma opportunamente la ricorda Raimondo Bonu in “Scrittori Sardi” (1961)- è che la scrittrice nel 1909 accetta la candidatura per le elezioni politiche nel Colleghio di Nuoro nelle Liste radicali che fin da allora erano sostenitori dei Diritti civili a cominciare da quelli delle donne.
Con tale scelta Deledda in modo chiaro si schiera per l’autodeterminazione della donna. Ci cui aveva parlato e scritto in molte lettere. Forse, è anche per questa sua scelta di femminista ante litteram che a Nuoro, nella Nuoro del primo Novecento, la guardano con sospetto, tanto che alle elezioni i nuoresi non la votano: prenderà solo 34 voti e le preferiranno un certo Garavetti che al contrario ne prenderà più di mille|

L’opera
L’attività letteraria di Grazia Deledda va dal 1880 al 1936 e, con il romanzo autobiografico di Cosima, publicato dopo la morte fino al  1937. Abbraccia 350 novelle in 18 volumi; 30 racconti; 8 favole;50 articoli; una cinquantina di poesie e 35 romanzi. Oltre il Premio Nobel ha ottenuto grandi riconoscimenti da parte di Stati e personaggi prestigiosi.
Nel 1935 la sua effigie è stata stampata in un francobollo voluto dal governo turco in una serie filatelica dedicata alle donne più famose del mondo. La sua voce è stata la prima ad essere registrata in Italia nella Fonoteca dello Stato.
Le sue opere, pubblicate dopo la sua morte dall’Editore Mondadori di Milano, sono state tradotte nelle più importanti lingue di tutto il mondo, persino in cinese, giapponese e indiano, in serbo-croato e in africano. Tutta l’opera di Deledda è stata tradotta e pubblicata in russo
Deledda ha scritto dunque moltissimo, in quarant’anni di attività letteraria,per un autore del suo tempo. Comincia a scrivere da ragazza: quando ha appena 17 anni, nel 1888 pubblica infatti la novella Sangue sardo in una rivista popolare di Roma che si chiamava L’ultima moda; nello stesso anno scrive Remigia Helder e il romanzo Memorie di Fernanda.
Dal 1889 collabora con giornali come “La Sardegna”, “L’Avvenire di Sardegna”, “Vita sarda” e altri ancora. Nel 1890 pubblica le novelle Nell’azzurro.                        
Subito dopo inizia a scrivere opere tardo-romantiche e d’appendice chi piacciono a un pubblico molto vasto.Si firma con uno pseudonimo esotico Ilia de Saint Ismael. Ecco alcuni titoli di queste opere: Stella d’oriente, Amore regale, Amori fatali, La leggenda nera, Nell’abisso, Fior di Sardegna, che ci fanno ben comprendere i temi che affronta. Ci troviamo di fronte a una Deledda ancora “continentale” e sentimentale, alla guisa del primo Verga di Storia di una capinera, Eva, Eros, Tigre reale.
Nel 1892 comincia a scrivere di cultura popolare e di folclore nella rivista “Natura ed Arte” di Angelo De Gubernatis: tutto il materiale che raccolgie lo pubblicherà in seguito nel volume Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna nel 1895.
Lo studio e la conoscenza della cultura popolare per la Deledda rappresenta un’occasione per una riflessione sopra la realtà barbaricina e dunque per una migliore comprensione della stessa: e le servirà in seguiot quando inizierà a scrivere i suoi romanzi più belli e mpiù riusciti. A cominciare dal romanzo “familiare” Anime oneste del 1895 ma soprattutto  La via del male del 1896, recensito con favore da un critico grande e autorevole come Luigi Capuana.
La Deledda più grande e più creativa però l’abbiamo dal 1902 al 1920 quando scrive romanzi come Elias Portolu (1903) che a parere di un grande critico italiano come  Attilio Momigliano, è la sua migliore opera. Ma scrive anche altri romanzi molto famosi come l’Edera (1908 ), Canne al vento 1913) –il libro preferito dall’Autrice-, Colombi e sparvieri (1912), Marianna Sirca (1915), dove la Deledda sembra riunire tutti i grandi temi che riguardano il romanticismo della sua gioventù: in primis l’amore come peccato e rimorso.
Quando, dopo Il segreto dell’uomo solitario (1921), ha voluto ambientare fuori della Sardegna quasi tutti i suoi racconti e romanzi da La fuga in Egitto (1925) a Annalena Bislini, (1927) ,Deledda non dimostrerà più l’energia creativa che aveva denotato prima. Questo perché la sua arte affoda le radici nell’etnos sardo più profondo e misterioso, nei costumi e nelle tradizioni antichissime di un popolo, quello sardo, che ha saputo conservare per secoli e secoli i propri valori: quando Deledda se  ne allontana, la sua arte non è più quella di una volta e dunque perde di qualità.
Altri romanzi scritti dalla Deledda sono: La Giustizia (1899); Il vecchio della montagna (1900); Dopo il divorzio (1902); Cenere (1904 ): da questo romanzo farnnao un film con la regia di Febo Mari e l’attrice Eleonora Duse come protagonista; Nostalgie (1905); L’ombra del passato (1907); Il nostro padrone (1910); Sino al confine (1910); Nel deserto (1911); Le colpe altrui (1914); L’incendio nell’oliveto (1918); La madre (1920); Il dio dei viventi (1922); La danza della collana (1924); Il vecchio e i fanciulli (1928); L’argine (1934).
L’ultimo romanzo che ha scritto è Cosima romanzo autobiografico (1937), pubblicato dunque dopo la sua morte.
Le sue novelle invece sono queste: Amore regale (1891); L’ospite (1897); Le tentazioni (1899); I giuochi della vita (1905); Amori moderni (1907); Il nonno (1908); Chiaroscuro (1912); Il fanciullo nascosto (1915); Il flauto nel bosco (1923); Il sigillo d’amore (1926); La casa del poeta (1930); Il dono di Natale (1930); La vigna sul mare (1932); Sol d’estate (1933); Il cedro del Libano (1939)
Deledda ha scritto anche delle poesie, ricordo quelle raccolte in  Paesaggi sardi. Ma qui mi fermo perché non è possibile ricordare e enumerare tutti i suoi scritti, ma non si possono dimenticare alcuni racconti (come La regina delle tenebre) o favole (come Le disgrazie che può cagionare il denaro e  Nostra Signora del buon consiglio)

I protagonisti dei romanzi della Deledda: La Sardegna, le donne, la natura.
La protagonista principale dei libri della Deledda è la Sardegna, che ha conosciuto nella fanciullezza e che non dimenticherà mai né nella vita né in tutta la sua opera. Quando la metterà da parte cone in Annalena Baslini, mla sua arte ne risentirà. Dunque sensa la Sardegna la sua opera vale poco: ciò l’aveva ben compreso un grandee critico italiano come Luigi Capuana, il teorico del Verismo. Deledda –scrive Capuana- fa bene a non allontanarsi dalla Sardegna, una miniera di umanità reale e sostanziale.
Fino a un certo punto della sua vita, ogni anno, in estate ritornava in Sardegna, ma anche quando non è più tornata, se non dopo la morte, la sua terra, la sua patria era sempre presente nei nsuoi scritti, con i ricordi dei tempi antichi, con la civiltà, le tradizioni, la cultura di un intero popolo che aveva creato la visione che essa aveva della vita, della storia, del mondo.
L’idea della vita e dell’amore governati da una misteriosa fatalità, l’amore come peccato e dunque i rimorsi e la necessità di scontare la macchia del peccato, perdurando i tormenti, una sorta di malattia che consuma i personaggi dei suoi romanzi sia fisicamente che moralmente, nelle azioni come nei sentimenti e pensieri.
Insieme alla Sardegna, grandi protagoniste sono le donne: valenti e capaci di qualsiasi sacrificio, fino alla morte: penso soprattutto a Maddalena di Elias Portolu; donne di valore, innamorate e fedeli, che nutrono passioni, sentimenti, forti, quasi violenti, come Marianna Sirca, protagonista del romanzo omonimo. Gli uomini invece sono deboli, incerti, pieni di dubbi.
Altro grande protagonista è la natura, che gli antichi sardi chiamavano dea madre e che la Deledda ancora così spesso la considera. Una natura selvaggia, con le tanche dei printzipales nuoresi e barba ricini, con i boschi e le roccie, i monti e i ruscelli, gli alberi e la macchia mediterranea, gli animali e le fate. Una natura misteriosa con le stagioni che sno in sintonia con i sentimenti dei personaggi.
Della Sardegna, o meglio, della Sardegna nuorese e barbaricina, delle case e dei palazzi, Deledda è capace di rappresentare con maestria, in modo “verista”, verrebbe da dire, gli internis, la cucina con il fuoco e il cannicio dove si affumicano le forme di formaggio e di ricotta, il pozzo del cortile,l’orto, i mucchi di fascine di legna, gli norcioli per l’acqua e anche per il vino.
Per non parlare della grande capacità della Deledda nel descrivere con precisione la geografia domestica con le provviste per tutto l’anno, soprattutto in certe famiglie di pastori e contadini: le corbuli confezionate con l’asfodelo, piene di grano, orzo, patate, fave, faggioli ma anche di pere, mele o uva, appesa per conservarsi meglio e più a lungo. E ancora: lardo ben salato, salami, salsicce, prosciutti.
Una descrizione che ancora oggi conserva non solo un valore letterario ma finanche etnico, etnologico e antropologico, utile anche per scrivere la storia di quel periodo.

I giudizi dei critici sardi e italiani.
Comincio dai critici sardi, scegliendone tre: prima di tutto raimondo Bonu, che parla della concezione della vita da parte della Deledda m anche del suo linguaggio. Così scribe Bonu: “Argomento prevalente degli scritti di Grazia Deledda è la terra di Nuoro e la sua gente, presentate questa e quella nel rapporto osservazione-descrizione. Base del piccolo mondo è l’ordine morale, visto senza straordinarie meditazioni dottrinali e ridotto alla fatalità della colpa e all’inseparabilità della pena: dalla prima concezione discendono pervertimenti, odi e delitti; dalla seconda scaturiscono rimorsi, sofferenze, espiazioni….lo stile della Deledda è generalmente limpido, facile, fluido, piacevole: è assai delicato nella descrizione di scene di natura, riflette la sovrabbondanza del sentimento e la fecondità della fantasia e non è privo di vigoria…” .
Un altro critico, nonché grande storico sardo è Raimondo Carta-Raspi, famoso soprattutto per una be4lla e interessante Storia della Sardegna (Mursia editore, 1971, Milano). Dice il Carta-Raspi: ”La letteratura narrativa psicologico-folclorico-sarda nasce e si afferma con la Deledda, subito seguita e <bardanescamente> imitata”.
L’ultimo cruitico sardo che mi piace ricordare è Francesco Alziator, forse il più grande che fino ad oggi abbiamo avuto, che elogia la Deledda considerandola come la voce poetica e letteraia sarda più alta. Ecco cosa scrive:”Questo è il miracolo della Deledda: mutare in passo di danza il camminar quotidiano delle creature vive. L’eterno incantevole miracolo della poesia. Per questo miracolo la Sardegna tornò ad avere, dopo millenni una sua voce e una sua vita nel mondo delle cose immortali. Grazia Deledda operò il miracolo traendo l’ispirazione dalla stessa affaticata anonima folla di madri, di eroi, di fanciulli, di giovani, di animali e di cose che già i Sardi di una remotissima età avevano fermato nei bronzi votivi dei nuraghi. Essa riudì la voce di quelle genti, ne ripetè il dramma e il mito, talvolta con una lingua tanto diversa e sua da non saper più se fosse italiano o il suo parlare sardesco voltato parola per parola in italiano. Comunque si esprimesse la sua fu voce di canto. La più alta e intensa che mai l’Isola abbia avuto”   
Passando in rassegna i critici italiani occorre ricordare che ne abbiamo avuto di ogni risma, che della Deledda ne hanno parlato e scritto sia positivamente che negativamente. Molti infatti l’hanno esaltata oltremodo, altri invece hanno cercato di “interrarla”, altri ancora la trovano mediocre o, più precisamente “con molte luci ma anche con molte ombre”..
Certo, occorre rammentare, che all’inizio della sua attività letteraria, Deledda accentua a dismisura la presenza del folclore nella sua opera, ripetendosi più di una volta. Mi parrebbe comunque difficile e ingeneroso non riconoscerle una incredibile fantasia, una ricchezza di sentimenti, una non comune abilità nella descrizione dei paesaggi, dell’ambiente, dei personaggi e della Sardegna.
Ma ecco alcuni giudizi di critici italiani, comincio da quelli positivi, da uno dei più grandi e prestigiosi,Attilio Momigliano chi forse è quello che più di tutti l’ha compresa e apprezzata: ”Deledda ha una capacità simile a quella di delitto e Castigo e dei Fratelli Karamazof, di ritrarre la potenza trascinante del peccato come una crisi che libera dal loro profondo carcere tutte le forze di un uomo, quelle sublimi e quelle perverse, e finisce per sollevare lo spirito in una sfera che forse non raggiungerebbe altrimenti”.
Prosegue il Momigliano- ”Nessuno dopo Manzoni ha arricchito e approfondito come lei, in una vera opera d’arte, il nostro senso della vita…e la Deledda è soprattutto un grande poeta del travaglio morale cui l’avvenire serberà il posto che fin’ora non gli fu assegnato, non inferiore a quello di alcuni fra i maggiori scrittori della seconda metà dell’Ottocento e del primo novecento”.
Un altro grande critico italiano che esalta la Deledda è Francesco Flora che scrive:” “All’arte di Grazia Deledda fu materia spontanea e cioè di memoria diretta, la vita isolana della nativa Sardegna. E’ in quella memoria che aveva formato il suo dizionario fondamentale di passioni, idee, linee, parole, ella cominciò a scrivere i suoi temi più complessi, rendendo più lieve la materia ed il linguaggio. La sua arte, anzi il suo stile se ne avvantaggiò e il suo linguaggio fu tanto più universale quanto più seppe aderire sinceramente a quest’ispirazione. Così ella fu sentita in Europa…”

Grazia Deledda e il suo linguaggio.
Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: La lingua sarda non è un dialetto italiano – come purtroppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza –  ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso inespresse ma presenti nel corso della narrazione.
Vi sono innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca, socronza (usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), leonedda /zufolo), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas.
Vi sono inoltre intere frasi in sardo come: frate meu, Santu Franziscu bellu, su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), , a ti paret, corfu ‘e mazza a conca,, ancu non ch’essas prus.
Per non parlare dei nomi che risultano tronchi nella sillaba finale quando è  “complemento vocativo”, tipico modo di dire sardo ma soprattutto nuorese e barbaricino: Antò, Colù,, Zosè= Zoseppe,, Zuamprè=Zuampredu, pride Defrà= pride Defraia.
Pro finire ricordo anche che la Deledda traduce vocaboli sardi o espressioni tipicamente sarde, quando non esiste il corrispondente in italiano: Perdonate= perdonae in nugoresu (voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina); botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio); male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro)
Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana ma da una scelta voluta e consapevole. L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le forme sintattiche o il lessico ma anche – per non dire principalmente – le tematiche, i costumi, le immagini, i detti, i proverbi: per dirlo con una sola parola: l’intera civiltà sarda.
Ma sui “Sardismi” della Deledda ecco cosa scrive una critica sarda, Paola Pittalis  “La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu –  per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).
L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità – è il caso di Elias Portolu –  è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, –  come il verismo – che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.
A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece – secondo Paola Pitzalis – “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…”

 Deledda, la cultura e le tradizioni popolari.
Deledda non è stata solo una scrittrice e poetessa ma anche una studiosa della cultura e delle tradizioni popolari sarde pur se per un breve periodo: infatti scriverà nella Rivista delle tradizioni popolari italiane diretta da Angelo De Gubernatis per tre anni (1893-94-95); in seguito comincerà la collaborazione con Vita Sarda, un prestigioso periodico di Cagliari e infine si interesserà di storia delle tradizioni popolari scrivendone nella Nuova Antologia.

-GOSOS DE NOSTRA SEGNORA DE GONARE

Alta Reina Singolare
de su Chelu Imperadora
O soverana pastora
De su monte de Gonare    
 
In custu monte chi tue
Habitas, alta Signora
Grassias e benes dogn’ora
Nos distillat dogni nue
O diciosu logu in ue
 Est su tou dignu habitare.
 O Soverana, etc.

 In monte d’alta grandesa
 Tenes assentadu tronu
 A tottu dande perdonu
 Cun Soverana larghesa.
 Ogni bene, ogni ricchesa
 Tenes in manos pro dare.

  Chin gloriosos resplendores
  Relughes in custu monte
  Essende de grassias fonte
  De tottu sos peccadores,
  Merzedes, grassias, favores
  Benin pro ti dimandare.

 Sa Soverania tanta
 Chi in custa montagna mostras
 Sas necessidades nostras
 Repara, Reina Santa,
 O Segnora, cantu est canta
 Sa tua grassia singolare.

    Sas roccas distillan perlas
    Sas mattas grassias e donos,
    Chin milli cantos e tonos,
    Reclaman ras aves bellas
    Sas relughentes istellas
    Falan pro ti coronare.

    Chelu si torrat su monte
    Chin sa tua alta assistenza
    A sa tua digna presenzia
    Si allegrat dogni orizonte
    Ogni riu e dogni fonte
    Si torrat allegru mare.

   Cale Pastora Serrana
    Istas in custa alta serra
    Essende de chelu e terra
    Alta Reina Soverana
    Pastora bella galana
    Serrana digna d’amare.

   Milli grassias e bellesas
   Milli tesoros e benes,
   Segnora in sas manos tenes
   Sas infinitas ricchesas,
   Mare immensu de grandesa …