Francesco Carlini

FRANCESCO CARLINI

1. Vita e opere

Lo scrittore e il poeta bilingue. Il “Rodari sardo” con il gusto dell’ironico e del fiabesco. È nato a Vallermosa (Ca) nel 1936  ma è vissuto a lungo a Cagliari e a Roma dove si è laureato in Lettere moderne discutendo una tesi su Italo Svevo. Nella capitale è stato redattore di Radio Città Futura e ha fondato e diretto la rivista Sardigna Emigrada. Scrive di critica e produzione letteraria su Il Manifesto, Paragone-Letteratura, Umana. Rientrato in Sardegna continua insegnare nelle scuole superiori Letteratura italiana e storia e scrive su S’Ischiglia e in molte riviste orbitanti nell’area del neosardismo: da Su populu sardu a Nazione sarda, da Tempus de Sardinnia a Sa Republica sarda. Attualmente si occupa quasi esclusivamente di letteratura scrivendo sulla stampa periodica poesie e racconti. Sue poesie sono state tradotte in inglese da Jack Hirschman e pubblicate in una rivista di San Francisco (poi raccolte in un volume col titolo A Mountain Under a Bridge, Berkeley, California, CC. Marimbo 2001) Scrittore e poeta, pubblica esordisce nel 1989 con una raccolta di poesie bilingui Biddaloca (Paesestolto), un’ironica silloge destinata ai bambini delle scuole, come suggerirebbe il sottotitolo “Poesias po pipìus“, ma in realtà una dolcedolente memoria dell’antico fanciullo contadino che vede il mondo dell’infanzia inghiottito dalla nuova cultura industriale. Seguirà nel 1991 un’altra silloge di poesie bilingui (sardo-campidanese–italiano) raccolta sotto il titolo di Murupintu  (Murale) con cui –scrive Giovanni Mameli nella prefazione- Carlini costruisce è una “commedia umana” ricca di personaggi disegnati con un gusto tra l’ironico e il fiabesco, non senza una sotterranea simpatia nei confronti di molti che appartengono a un mondo e parlano una lingua minacciati da più parti. A ciò bisogna aggiungere una forte componente ludica, il piacere per il gioco formale che si manifesta in parecchi testi. Nel 2004 pubblica la terza silloge poetica, Sa luna ingiusta (La luna bagnata) con la prefazione entusiasta dell’antropologo e scrittore Giulio Angioni che scrive “Si tratta di testi sapienti per linguaggio e per struttura, di una molto profonda levità, di una essenzialità frutto di molto lavoro…che hanno le movenze del tipo della filastrocca, della ninna-nanna, del proverbio, dell’iterazione, del nonsense”. Le tre raccolte ottengono lusinghieri consensi di pubblico e di critica (il primo libro è stato ristampato dopo solo due anni), fra l’altro ne sono testimonianza i pubblici riconoscimenti e i premi: fra gli altri una medaglia d’oro da parte del Comune di Villacidro.. Nel 2001 pubblica una raccolta di Racconti, S’Omini chi bendiat su tempus (L’uomoche vendeva il tempo)  con traduzione in italiano con il quale vince  il Premio Città di Selargius 2003 e ed il romanzo Basilisa  (con cui vince nel 2002 il Premio Grazia Deledda per la sezione in lingua sarda). Opera tra romanzo e biografia è ambientato a Roma fra il 1943 e 1944, ai tempi dell’invasione tedesca e racconta un’esperienza realmente vissuta attraverso gli occhi di un bambino che che non poteva non rimanere segnato dalla paura, dalla guerra e dalla fame e anche da quanto più atroce ha visto in quegli sconvolgenti giorni dell’invasione nazista.

 

Nel 2004 pubblica Su conillu beffianu (Il coniglio beffardo) nel ovvero contus e contixeddus po pipius, racconti e raccontini per bambini e  non solo, con la prefazione di Francesco Casula che mette in rilievo “il linguaggio spassoso e carico di deflagrazioni umoristiche e dalle grandi capacità allusoive, impregnato di immagini ardite, di metafore, di parabole, di simboli e di proverbi, quella scrittura e quel linguaggio che ha saputo mutuare –sia pure con grande originalità- dalla cultura tradizionale sarda e dalla oralità”. Nel 2005 pubblica un volume di favole, Marxani Ghiani e ateras faulas (Volpe Ghiani e altre favole) sempre in lingua sarda nella cui prefazione Vindice Ribichesu sottolinea: “Pur trovando le sue radici nella favolistica classica greca e latina, Carlini non si rifugia nell’Arcadia né nella nostalgia di una vita semplice, ma entra –talvolta addirittura con crudeltà anche se con misura- nella società di oggi con riferimenti anche alle cronache politiche recenti”. In lingua italiana pubblica per le Edizioni Quaderni del Pavone: L’Asino d’oro ( 2002), un poemetto scherzoso scritto a quattro mani con Efisio Cadoni e delle brevi raccolte di poesie: Lo zoo (2006) e Dialogo a una voce,(2007). 2. La poesia di Carlini Di Carlini mi ha sempre colpito lo scrittore raffinato e colto, con il suo linguaggio spassoso e carico di deflagrazioni umoristiche, dalle grandi capacità allusive, allegoriche, ironiche e inventive, con un impasto ardito di neologismi, immagini, metafore, parabole, simboli, proverbi, iterazioni, assonanze. Quella scrittura e quel linguaggio che ha saputo mutuare – sia pure con grande originalità – dalla cultura tradizionale e dalla oralità sarda. Conoscendolo negli anni, attraverso frequentazioni ma soprattutto attraverso i suoi scritti e le sue poesie in primis, ho sempre apprezzato il suo distacco e la sua saggezza, il suo moderato ottimismo, mai vacuo, però, e anzi temperato da un alone di scetticismo. Ho sempre ammirato il suo occhio sorridente, mai cattivo né arcigno, che spesso si fa ustorio ma che preferisce sempre l’ironia all’indignazione e all’invettiva; lo sberleffo satirico all’aggressione verbale; la canzonatura e il motteggio – quasi sottovoce – allo sbraitare e alzare la voce con berci e urla. Carlini, infatti, anche quando sbeffeggia le debolezze degli uomini, più che aggredire mette in ridicolo, più che sbraitare o alzare la voce con berci e urla, canzona e ironizza, quasi sottovoce, con un tono medio, divertito e divertente, per così dire goldoniano o meglio ancora oraziano. Egli è evidentemente convinto, a ragione,  che la messa in ridicolo frusti e tagli più netto e con più energia del “serioso” o dello sparare a mitraglia. È sempre presente nella sua opera la dimensione ludica, il gusto per il gioco: mai però fine a se stesso, puro divertissement. Infatti, pur mai urlato e insistito né tanto meno predicatorio, anzi sotteso, sommesso e discreto, quasi subliminale, aleggia l’engagement di Carlini, il suo impegno etico, politico e sociale, la dimensione “gnomica” e perfino didattico-didascalica che, se da una parte denuncia e stigmatizza i vizi, le ubbie, le manie e la mediocrità degli uomini, dall’altra esalta i valori alti dell’equilibrio e della moderazione, del buon senso, tipici de sa sabidoria, la saggezza sarda e mediterranea. Carlini scrive in sardo, nella sua e nostra – come sardi intendo – lingua materna, il dantesco “parlar materno” che è la prima lingua della poesia. Per il bambino, l’infante, che l’apprende direttamente dalla madre, appunto, essa è soprattutto senso, suoni, musica: lingua di vocali. Ma tale è anche per il poeta. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo. Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e “aoidòs” in greco significa “cantore”. Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i cantadoris sardi, soprattutto gli improvvisatori. Cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Ma Carlini non si limita solo a cimentarsi con il sardo: conduce un’ampia operazione   di   censimento,  di  scavo,  di   esplorazione,   di   ricerca,   di   studio   e   di sperimentazione di un progetto di lingua sarda che risulta insieme ricca e sobria, concisa ed espressiva, robusta e vigorosa, gustosa, viva e moderna. In più ne tenta una “ripulitura” e una standardizzazione e reimette nel circuito lessemi preziosi o desueti, alcuni particolarmente pregnanti, significanti e onomatopeici. 

 

Questo sardo permette così a Carlini di schizzare icasticamente, con brevi ritratti, con rapidi  bozzetti,  quasi  in  punta  di  penna,  fatti  e  vicende  di  paese e  di  villaggio,  ma soprattutto personaggi, scavati e descritti sia dal punto di vista psicologico che fisico. Un sardo che irrompe turgidamente espressivo e che riesce ad essere oltremodo attraente e piacevole, per il tono di celia, per il gusto amabile del motteggio, per il sapore della caricatura e della parodia, per i copiosi non sense, per la battuta scherzosa ed epigrammatica, per la raffigurazione del mondo e degli uomini, sotto un profilo che ne mette in luce gli aspetti paradossali, assurdi, ridicoli, comici. Un sardo nei momenti migliori, più divertenti e saporosi, produce un fragoroso gioco pirotecnico e un carnevale lessicale. Un sardo, quello campidanese, che a me pare, per la poesia satirica più congeniale e più adatto delle altre varianti sarde. Una satira, occorre rimarcarlo ancora una volta, che non sconfina mai però nello scherno furioso: essa, infatti, nasce al massimo dall’indignazione, mai dall’odio o dall’ira. Carlini vuole infatti certo frustare e fustigare i vizi, gli errori, le manie, i tic, le ubbie e le miserie umane, la stupidità, l’arroganza e la saccenteria; ma sempre bonariamente: così ridendo castigat mores. Solo in Marxani Ghiani la sua satira diventa più aggressiva, quasi si incattivisce, segnatamente per colpire i potenti e i prepotenti, i millantatori e i truffatori, gli opportunisti e i bugiardi: impersonati in animali non astratti ma con nomi precisi che li identificano: non il generico marxani, la volpe, ma Marxani Ghiani, Volpe Ghiani, e con lui Burricu Piricu, Somaro Piricu, Intruxi Mannu, Grande Avvoltoio, e via via elencando. In tal modo Carlini, dalla favolistica generica e tradizionale inaugura una favolistica che attiene all’attualità di oggi: e dunque ai politici come ai grandi finanzieri, ai banchieri come alla grande distribuzione, che cadono impietosamente sotto gli strali della sua satira e dei suoi indignati sberleffi. 3. Due poesie inedite di Carlini (su cui torneremo, con un commento, nei prossimi giorni)

ARENAS ARRUBIAS

S’arrennegu alimentais

in is animus prus masedus

bosàterus chi mandais is fillus,

is fillus nostus

is nebodis, is nebodis nostus

po ammanciai de arrubiu

is arenas arbigadas de is desertus.

Cincu milla eurus a su mesi no sunt meda

po una vida

ma podint abbastai

si àterus morint po prus pagu

po prus pagu meda

e balentis no ant a essi,

gherreris po sa paxi,

de nci fai intrai derettus in is lìburus de storia,

ni ant a tenni monumentus

e coronas de lau birdi postas a peis

in is dis sena ’e numeru de s’ammentu,

scéti coronas de froris arrubius, de manus amigas.

Nimmancu ananti de sa morti si fìrmant is paràulas

faulancias retóricas paràulas

de bosàterus chi dizideis de sa sorti de is àterus

e bisus fadeis chietus

poita mai una telefonada si nd’at a scidai

intremesu’e notti,

prontu? si dispraxit, fillu bostu

est mortu asuba ’e s’altari de sa paxi,

artivus siais

de nebodi bostu.

Maledittus, o bosàterus maledittus,

is fillus, is nebodis bostus

in discutega abàrrant a tant’oras de notti

e scéti po sorti podit accuntessi

chi si pozzant scerfai in su sfartu

cottus de licoris de droga,

o bivint foras po imparai

 in d’unu collegiu inglesu

in d’un’universidadi americana

de sa democrazìa sa grandu lezioni

de is mèris de su mundu.

S’arrennegu spirrònciat in su coru prus masedu

in su coru prus masedu,

po si sciòlliri a pustis

in d’unu lagu de tristura.

SABBIE ROSSE

La rabbia nutrite

negli animi più miti

voi che mandate i figli,

i nostri figli

i nipoti, i nostri nipoti

a macchiare di rosso

le roventi sabbie dei deserti.

Cinquemila euro al mese non sono poi tanti

per una vita

ma possono bastare

se altri muoiono per meno

per molto meno

ed eroi non saranno,

guerrieri per la pace,

da far entrare dritti nei libri di storia,

né avranno monumenti

e corone di verde alloro deposte ai loro piedi

negli incalcolabili giorni della memoria,

solo corone di fiori rossi, da mani amiche.

Nemmeno davanti alla morte si fermano le parole

bugiarde retoriche parole

di voi che decidete sulla sorte degli altri

e sonni dormite tranquilli

perché mai una telefonata vi svegliarà

nel mezzo della notte,

pronto? ci dispiace, vostro figlio

s’è immolato per la pace,

orgoglio della nazione

è vostro nipote.

Maledetti, o voi maledetti,

i vostri figli, i vostri nipoti

le ore piccole fanno in discoteca

e solo per caso può capitare

che finiscano sfracellati sull’asfalto

fradici di alcol e di droga,

o vivono all’estero per apprendere

in un college inglese

in una università americana

della democrazia la grande lezione

dei signori del mondo.

La rabbia rampolla nel cuore più mite

nel cuore più mite,

per sciogliersi poi

in un lago di tristezza.

SA PAGA DE SU SORDAU

No t’as a podi gosai sa paga

po ti unfrai de birra comenti penzast

attaffiai de amburgher arrusciaus a Coca Coca

in su pasiu minesciu de su gherreri

in d’unu logali de Noa York

o ti gosai sa musica chi ti fadìat ammacchiai

scéti a nci pezai attesu attesu

in d’una arruga de Noa Orleans

a pustis de is balentìas contadas a is amigus.

Curza at a essi sa zirimonia e sena de fanzarra

troppu bortas sonada po no si nci avvesai,

unu de is quàtturu mila, quàtturu mila,

torraus a domu in sa brenti de unu aeriu

no est prus una nova.

Imbùssat su baullu sa bandera

a cinquanta steddus luxentis chi connoscis

e calincunu fuèddat de sacrifiziu po sa democrazìa

chi mamma tua no bolit ascurtai

inserrada in su croxu de su turmentu chi dda trògat,

e nimmancu sa picciocca,

is ogus annappaus de làmbrigas,

chi penzàst de portai a baddai.

Attesu attesu àteras féminas

is brazzus a celu preguntendisì poita,

fragu pizziosu de morti in is propiu bias

is propiu prazzas arrubias de cittadis e biddas.

Ohi, is feminas, cantu feminas,

is nottis longas sena de acabu

in billus de steddus calamaus,

innoi

inguddanis

inguddenis

attesu attesu.

LA PAGA DEL SOLDATO

Non ti potrai godere la paga per gonfiarti di birra come pensavi, ingozzarti di hamburger innaffiati con Coca Cola nel meritato riposo del guerriero in un locale di New York, o goderti la musica che ti faceva impazzire al solo pensiero lontano lontano in una strada di New Orleans dopo le gesta raccontate agli amici. Breve sarà la cerimonia e senza fanfara, troppe volte suonata per non farci l’abitudine, uno dei quattromila, quattromila, ritornati a casa nella stiva di un aereo non fa più notizia. Copre la bara la bandiera dalle cinquanta brillanti stelle che conosci e qualcuno dice del sacrificio per la democrazia che tua madre non vuole ascoltare chiusa nel guscio dello strazio che l’avvolge, né la tua ragazza, gli occhi appannati da un liquido velo di lacrime, che pensavi di portare a ballare. Lontano lontano altre donne le braccia al cielo a domandarsi perché, acre odore di morte lungo le solite strade le solite rosse piazze di città e villaggi. Ahi, le donne, quante donne, le lunghe interminabili notti in veglie di stelle appassite, qui lontanto lontano.

a cura di Francesco Casula