SI AL REFERENDUM SUL NUCLEARE

Contra a su nucleare

di Francesco Casula

La grande, pacifica e colorata manifestazione tenutasi a Cagliari il 26 Marzo scorso e organizzata dal Comitato “Vota sì contro il nucleare”  è un ottimo viatico

per la vittoria nel referendum consultivo regionale del 14-15 Maggio prossimi. Che a sua volta potrebbe essere di buon auspicio per il successo del referendum in Italia di Giugno.

Nella sua battaglia antinucleare il popolo sardo è in buona compagnia: a livello italiano, europeo e mondiale. Insieme a Jeremy Rifkin che ha dichiarato:”dopo Fukushima il nucleare è morto per smpre”. Ricordo che l’intellettuale americano è presidente della Foundation on Economic Trends di Waschington, autore di importanti saggi economici e, fra l’altro, di “Economia all’idrogeno”.Per dire che non si tratta di un qualche esteta che rifiuta il nucleare per rifugiarsi in qualche grotta preistorica.

Insieme alla Merkel, la leader tedesca che ha deciso di fuoruscire definitivamente dal nucleare: e certamente non per riportare la Germania alla candela stearica.

Insieme al premio Nobel per la medicina Rubbia che continua a porre inquietanti interrogativi sul nucleare, specie in merito alla sicurezza:”Come smaltire le scorie? Se non si riesce a risolvere il problema della costruzione di un inceneritore per bruciare l’immondizia, come riusciremo a sistemare le grandissime quantità di scorie nucleari che nessuno al mondo sa come smaltire? Che sono estremamente tossiche e destinate attive per migliaia di anni?”.

 La presenza di una centrale nucleare in Sardegna, che peraltro non trova alcuna giustificazione energetica essendo già autosufficiente, entrerebbe in rotta di collisione con qualunque progetto di sviluppo ecosostenibile dell’Isola, basato sulla valorizzazione delle nostre risorse naturali: ad iniziare da quelle energetiche.

 Dopo essere stata sito di industrie nere e inquinanti, di basi e servitù, di poligoni per esercitazioni degli eserciti di mezzo mondo, – anche per quello del dittatore e assassino libico- l’Isola non può sopportare un’altra e più pericolosa servitù con la presenza del nuovo e devastante “Ordigno”. Ben 24.000 ettari del demanio militare ( su 40.000 su scala nazionale,  ovvero ben il 60%) pesano sulla groppa della Sardegna. Abbiamo già dato. Ora basta. Dobbiamo riprenderci la Sovranità sul nostro territorio, premessa indispensabile per l’Autodeterminazione di un popolo, di una Nazione, com’è quella sarda. E’ questa la partita vera che si gioca nel referendum di Maggio.

 

 

 

 

Gramsci

continua..

·        per allargare le loro competenze, soprattutto comunicative, di riflessione e di confronto con altri sistemi

·        per accrescere il possesso di una strumentalità cognitiva che faciliti l’accesso ad altre lingue;

·        per prendere coscienza della propria identità  etno – linguistica ed etno – storica, come giovane e studente prima e come persona adulta e matura poi;

·        per personalizzare l’esperienza scolastica, umana e civile, attraverso il recupero delle proprie radici;

·        per combattere l’insicurezza ambientale, ancorando i giovani a un humus di valori alti della civiltà sarda: la solidarietà e il comunitarismo in primis;

·        per superare e liquidare l’idea del “ sardo “ e di tutto ciò che è locale come limite, come colpa, come disvalore, di cui disfarsi e , addirittura, “ vergognarsi “;

·        per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “ analfabetismo di ritorno “, vieppiù trionfante, soprattutto a livello comunicativo e lessicale, lo status linguistico. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero, banale, improprio, “ gergale “.  Lo studio e la conoscenza della lingua sarda, può essere uno strumento formidabile per l’apprendimento e l’arricchimento della stessa lingua italiana e di altre lingue, lungi infatti dall’essere “ un impaccio “ , “  una sottrazione” , sarà invece un elemento di  “ addizione”, che favorisce e non disturba l’apprendimento dell’intero universo culturale e lo sviluppo intellettuale e umano complessivo. Ciò grazie anche alla fertilizzazione e contaminazione reciproca che deriva dal confronto sistemico fra codici comunicativi delle lingue e delle culture diverse , perchè il vero bilinguismo è insieme biculturalità,  e  cioè immersione e partecipazione attiva ai  contesti culturali di cui sono portatrici, le due lingue e culture di appartenenza, sarda e italiana per intanto, per poi allargarsi, sempre più inevitabilmente e necessariamente, in una società globalizzata come la nostra, ad altre lingue e culture. La Lingua sarda  infatti  in quanto concrezione storica complessa e autentica, è simbolo di una identità etno- antropologica  e sociale, espressione diretta di una comunità e di un radicamento  nella propria tradizione e nella propria cultura.             Una lingua  che non resta però immobile – come del resto l’identità di un popolo – come fosse un fossile  o un bronzetto nuragico, ma si “ costruisce “ dinamicamente nel tempo, si confronta e interagisce, entrando nel circuito della innovazione linguistica, stabilendo rapporti di interscambio con le altre lingue. Per questo concresce all’agglutinarsi della vita culturale e sociale. In tal modo la lingua,  non è solo mezzo di comunicazione fra individui, ma è il modo di essere e di vivere di un popolo, il modo in cui tramanda la cultura, la storia, le tradizioni.

E comunque in quanto strumento di comunicazione è capace di esprimere tutto l’universo culturale, compreso il messaggio politico, scientifico,   e non solo dunque – come purtroppo  ancora  oggi molti pensano e sostengono – contos de foghile!

                     A questo proposito  mi piace ricordare quanto sostiene il   già citato J. A. Fishman:” Ogni e qualsiasi lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nella Pubblica Amministrazione, nell’Istruzione”.

CONCLUSIONE:                                                                                                                                                                                       

COSA DOVREBBE E POTREBBE FARE LA REGIONE SARDA

Per decenni abbiamo sentito pronunciare discorsi fumosi e generici sull’Autonomia della Sardegna e sulla necessità di adeguare il nostro sistema scolastico a quello europeo senza però che si siano operate scelte formative e iniziative politico – amministrative conseguenti dando spazio alla specificità etno –nazionale della Sardegna come valore e mettendo in campo una moderna politica educativa  di collaborazione fra Scuola ed Enti Locali o iniziative legislative che fornissero strumenti per realizzare un sistema educativo integrato, per incoraggiare sperimentazioni, ricerche di gruppo e di singoli e per incrementare le potenzialità di intervento finalizzate all’istruzione.

    Con l’approvazione della Legge 26 l’articolo 5 dello Statuto inizia finalmente dopo 50 anni ad essere applicato: ora si tratta di applicare integralmente la Legge 26! Soprattutto in questi ultimi anni, dopo  l’entrata in vigore della Legge e l’Istituzione de “ Sa die de sa Sardigna”  molto nella Scuola sarda si è mosso e fatto nella direzione della valorizzazione della nostra Cultura e Lingua.

     Si tratta oggi di continuare e di fare di più: la Regione Sarda deve intervenire per integrare i Programmi ministeriali, introducendo in tutti i curricula e delle scuole sarde di ogni ordine e grado, in modo organico, lo studio della Cultura sarda, segnatamente della Storia e della Lingua, – peraltro come prevede la Riforma Moratti – con scelte qualitativamente valide e adeguate rispetto ai bisogni degli studenti sardi, in specie per la salvaguardia e valorizzazione, dell’Identità, dei valori della società sarda e delle sue peculiarità etno-nazionali, etno-storiche ed etno-linguistiche. Per questo occorrono generalizzati Corsi di Aggiornamento e formazione sull’intero Universo culturale sardo ma in primis sulla didattica e l’insegnamento della Lingua sarda, per tutti i docenti in servizio. Solo così sarà possibile:

·        favorire la crescita dei giovani studenti predisponendo ricerche ambientali e sulle condizioni socio- economiche, mettendo in essere progetti di sperimentazione metodologico- didattiche volti a suscitare interesse e a creare atteggiamenti favorevoli e positivi rispetto alla comunità sarda, al fine di cambiare l’esistente;

·        stimolare il sistema scolastico perché realizzi un reale processo di autonomia pedagogica e didattica che parta e muova dalla realtà sarda: un discorso pedagogico moderno e avveduto non può infatti prescindere dal pensare a una scuola radicata e ancorata alla tradizione, in grado di educare i giovani a conoscere prima e a padroneggiare poi la  lingua e la cultura  sarda: musica, arte, storia, teatro, letteratura, diritto etc.

·        costruire una scuola in cui la scoperta e la valorizzazione della tradizione negli aspetti più vivi e significativi,  possa trovare l’humus per germogliare e per inserire il “locale” e il nostro specifico e peculiare  nella cultura  mediterranea, europea e mondiale, per continuare ad essere sardi e insieme vivere da cittadini italiani, mediterranei ed europei:ovvero una scuola in cui i valori alti del passato, che reggono ai flutti di una modernità-modernizzazione effimera e fatua si coniughino dialetticamente con altre culture, con la scienza e la tecnologia, in una sorta di convivenza dei distinti , facendo cioè coesistere, conciliando dialetticamente gli elementi della “consuetudine autoctona” con quelli della modernità vera, mediando e facendo continuamente sintesi fra vecchio e nuovo, continuità e discontinuità, locale e globale.E dunque rifiutando da una parte l’etnocentrismo dall’altra l’esterofilismo.  Stando sempre attenti a che l’impatto della globalizzazione si risolva nella negazione, distruzione e/o devastazione delle culture ( e delle economie) deboli ,come è già avvenuto  altrove –  come dimostrano  fra gli altri Levi-Strauss in “Il pensiero selvaggio” e Joseph Rothscild in “Etnopolitica” –  e come rischia di succedere  anche in Sardegna. Per questo occorre opporsi, ad iniziare dunque dalla scuola, al fenomeno dello “sradicamento” dell’identità connaturato alla globalizzazione e al consumismo;

·        una scuola che ricordi – e insegni – ai giovani che senza legami con il passato, senza radici, non c’è presente né futuro, che se una comunità non dispone delle conoscenze fondamentali della sua storia ( compresa quella dei singoli villaggi, che spesso consente di individuare il ceto sociale originario e il conseguente tipo  di formazione storico- urbanistico, vedi “ Il  giorno del giudizio” di Salvatore Satta) non può maturare né il sentimento di appartenenza né la consapevolezza dell’importanza del nesso tra locale e globale che è in buona sostanza coscienza comunitaria, ossia accettazione dell’ideale della collaborazione tra popoli diversi.

       Alla scuola spetta in definitiva il compito primario, sia di fornire gli elementi utili per la formazione moderna legata alla realtà e ai bisogni giovanili, sia gli strumenti metodologici per comprendere il nesso inscindibile, pur nella diversità, tra la storia millenaria dell’Isola e la condizione presente per permettere  al giovane sardo di innestare – senza prevaricarla – la tradizione nel processo di sviluppo della società complessa; per evitare forme campanilistiche o esaltazione della minutaglia folclorica e insieme per rifiutare la mentalità caudataria tipo “ pinta la legna e portala in Sardegna che induce solo ad atteggiamenti esterofili e a complessi di inferiorità. Ma soprattutto spetta il compito di insegnare a diventare produttori in proprio  e dunque anche esportatori di beni di consumo, materiali e immateriali. E un popolo è tanto più capace di emanciparsi e creare e produrre beni di consumo ma soprattutto cultura d’ampia caratura ed esportabile quanto più è radicato in sé il senso della propria Identità e dignità.

                                         

L’uomo contemporaneo,  soprattutto nell’epoca della globalizzazione  economica , della comunicazione planetaria in tempo reale  e di Internet non può vivere senza una sua dimensione specifica, senza “radici”, sia per ragioni psico- pedagogiche ( un punto di riferimento certo dà sicurezza, consapevolezza di sé e fiducia nel proprio futuro) sia per motivi di ordine culturale. La comprensione del nuovo è sempre legata alla conoscenza critica  della storia della società in cui si vive, alle tecniche di produzione, al senso comune, alle tradizioni.

E’ questo l’antidoto più efficace contro la sub-cultura televisiva e à la page, circuitata ad arte da certa comunicazione mass- mediale che riduce la tradizione  a folclore e  spettacolo ad uso e consumo dei turisti. Altrimenti prevalgono solo processi di acculturazione imposti dal “centro”, dalle grandi metropoli, dai poteri forti, arroganti ed egemonici che riducono le peculiarità etniche a espressione retorica, pura mastrucca,  flatus vocis.

     Occorre però concepire e tutelare lo “specifico individuale e collettivo”  non come dicotomia ma in connessione con il generale, vivendo l’identità sarda con dignità e orgoglio ma senza attribuirgli un significato ideologico o di mito; identità non come dato statico e definitivo ma relativo, fluido e dinamico, da conquistare- riconquistare, costruire- ricostruire dialetticamente e autonomamente, adattandolo  e sviluppandolo, quasi giorno per giorno.

     L’attaccamento alla civiltà “primigenia”, in quanto realizza un continuum fra passato e presente, dà maggiore apertura al “mondo grande e terribile” e sicurezza per il futuro. In questa continuità- simbiosi fra antico- moderno e post- industriale post- moderno, in cui la positività della Sardegna s’innesta nella positività europea, consiste il significato profondo dell’Identità e dell’Etnia che da un lato ci libera dalle frustrazioni, dalla chiusura mentale e dal complesso dell’insularità; dall’altro ci salvaguardia dai processi imperialistici di acculturazione,  distruttivi dell’autenticità delle minoranze e dal soffocamento operato dalla camicia di nesso degli interessi economico- finanziari.  

                    Antonio Gramsci di Francesco Casula   Presentazione Antonio Gramsci, sicuramente il Sardo più rappresentativo del primo Novecento –insieme a Emilio Lussu e Grazia Deledda- è lo scrittore più letto nel mondo. Le sue opere sono state tradotte in tutte le lingue più importanti del pianeta. E ancora oggi si scrivono articoli e saggi su Gramsci in Giappone come nel mondo arabo, in America Latina come negli USA. Le sue idee, profonde e originali, hanno travalicato i confini della sua parte politica –la sinistra- per parlare a tutti. Il suo infatti è un messaggio umanissimo che conquista a prescindere dalle ideologie e dalle appartenenze culturali. La sua biografia e la sua vita sfortunata ed eroica, commuove e affascina. Di Gramsci rimane un grande e suggestivo patrimonio culturale –di elaborazione, di analisi e di riflessioni ma soprattutto di testimonianza di vita drammatica e di etica- che affonda le sue radici nella sua terra, la Sardegna, che in questo testo abbiamo cercato di documentare.           1. La Vita Nasce ad Ales (Ca) il 22 Gennaio 1891. Frequenta il liceo classico “G. M. Dettori” a Cagliari, dove avrà come docente Raffa Garzia, gran cultore e conoscitore di tradizioni e di poesia popolare1, nonché direttore dell’Unione Sarda che gli inculcò la passione per gli studi filologici che riprenderà all’Università- vince una borsa di studio e frequenta la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino dove inizia a manifestare i suoi interessi per le ricerche sulla Lingua sarda e il proposito di laurearsi proprio in glottologia, con il suo grande maestro Matteo Bartoli, un professore dalmata che conosceva bene il sardo. Nel 1915 aderisce al Partito socialista, nel 1919 fonda –insieme a Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini- il settimanale “Ordine Nuovo”, rassegna di cultura socialista, dove teorizza e agita il tema dei Consigli operai capaci di diventare, in una situazione rivoluzionaria, i soviet italiani, sulla scia dei soviet che si erano affermati in Russia dopo la rivoluzione di Nikolaj Lenin (pseudonimo di Vladimir Ilič Uljanov). “L’Ordine Nuovo” si fece così animatore nel 1919-20 del movimento di Consigli di fabbrica eletti da tutte le maestranze, movimenti teorizzati da Gramsci in una serie di scritti nei quali, accanto alla suggestione del modello “soviettista” è facilmente rintracciabile l’influenza del sindacalismo rivoluzionario di Sorel, che avrà tanta influenza sul conterraneo Emilio Lussu e sullo stesso Mussolini e che inizia a incontrare il consenso di operai e impiegati. Di qui una concezione della dittatura proletaria che non privilegiava –scrive lo storico Paolo Spriano- né il partito né il sindacato, ma considerava indispensabile che lo stato operaio da costruire si fondasse su istituzioni come i Consigli, diretta emanazione dei lavoratori e strumento della democrazia diretta e di base. Partecipe della battaglia dell’estrema sinistra –le sue critiche al moderatismo riformista e al parlamentarismo del Psi furono citate da Lenin come esemplari- nel Gennaio del 1921 concorse a dar vita, insieme con il gruppo ordinovista, a una scissione del Partito socialista fondando il Partito comunista d’Italia, pur in una posizione subordinata rispetto alla leadership allora indiscussa di Amedeo Bordiga. Nel 1922 “Ordine Nuovo” diventa quotidiano e Gramsci ne è il Direttore. A Maggio viene inviato a Mosca dove entra a far parte dell’Esecutivo dell’Internazionale. Ben presto però le sue condizioni di salute –che sono state sempre precarie- peggiorano a tal punto da costringerlo a ricoverarsi in una casa di cura dove conosce Giulia Schucht, la sua futura moglie. Intanto la situazione in Italia sta precipitando; il Fascismo, dopo la Marcia su Roma (28 Ottobre) è al Governo. Nei primi mesi del 1923 la maggior parte dei capi comunisti vengono arrestati dalla polizia: Gramsci si salva perché è a Mosca ma anche contro di lui viene spiccato un mandato di cattura. Eletto nel 1924 deputato al Parlamento nella Circoscrizione del Veneto, potrà rientrare in Italia e si stabilisce a Roma, dove nel Maggio pronuncia alla camera dei deputati un discorso contro il disegno di legge sulle associazioni segrete presentato da Mussolini e da Alfredo Rocco. Il suo discorso è attentamente seguito e continuamente interrotto dai fascisti e dallo stesso Mussolini. Tra il Giugno del ’24 e il Gennaio del ’25 cerca di organizzare la protesta popolare e parlamentare per il delitto Matteotti e interviene ancora in Parlamento contro Mussolini.  Intanto nel Gennaio del ’26 partecipa al 3° Congresso nazionale del PCI preparato clandestinamente e tenuto a Lione. Le sue tesi riportano un’affermazione nettissima: i voti a suo favore raggiungono il 90,8%. Bordiga, la cui linea politica fino a quel Congresso era stata sempre vincente riporta solo il 9,2% dei voti. Nel frattempo a Mosca è in pieno svolgimento la lotta per la successione a Lenin. Si fronteggiano Stalin (pseudonimo di Josif Vissarionovič) e Lev Trotzkij (pseudonimo di Lejba Bronstein).  Gramsci invia al Comitato centrale del PCUS una lettera per sottolineare l’enorme pericolo di queste lotte interne. Togliatti, che sta a Mosca, non approva i contenuti della lettera, soprattutto per quanto atteneva alla critica nei riguardi di Stalin e della maggioranza bolscevica e la blocca senza farla giungere a destinazione. Gramsci gli manifesta, in modo netto e secco, la sua disapprovazione. Nello stesso Ottobre del 1926 sta elaborando alcune tesi sulla Questione meridionale e si propone di pubblicare una rivista ideologica, quando l’emanazione delle leggi eccezionali da parte del governo fascista consiglia i suoi compagni, che lo sanno in pericolo, a suggerirgli l’emigrazione. Ma la sera dell’8 Novembre 19262 all’uscita dalla Camera dei deputati, è arrestato dalla polizia, nonostante godesse dell’immunità parlamentare e viene rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, in assoluto e rigoroso isolamento, quindi confinato nell’Isola di Ustica. Ritorna in carcere dopo un mandato di cattura spiccato dal Tribunale di Milano. Dopo circa due anni di carcere “preventivo” il 4 Giugno 1928 viene pronunziata la sentenza che lo condannava a 20 anni 4 mesi e 5 giorni di reclusione –oltre a 200 lire di ammenda- dal Tribunale speciale istituito dal Governo fascista per “cospirazione contro lo stato, organizzazione della guerra civile, incitamento all’insurrezione e al mutamento violento della costituzione e della forma di governo, istigazione all’odio di classe e attività sovversiva”. Il Pubblico Ministero, Michele Isgrò, sardo (e…non per niente! aveva chiesto per lui 25 anni, 7 mesi e 6 mila lire di multa. Allo stesso Isgrò e non a Mussolini, verrà attribuita questa cinica e feroce espressione contro Gramsci: “Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”. Verrà incarcerato nella Casa penale di Turi (Bari) dove le sue già malferme condizioni di salute si aggraveranno ulteriormente. Colpito da emorragia cerebrale morirà nella clinica Quisisana a Roma il 27 Aprile 1937. Proprio il giorno della sua morte sarebbe dovuto rientrare in Sardegna, a Santulussurgiu, dove aveva studiato da ragazzino. Solo Carlo, il fratello che viveva a Milano, è presente al funerale insieme a Tatiana Schucht, la cognata che di nascosto era riuscita a sottrarre a sottrarre alle autorità fasciste le 2400 pagine dei 32 Quaderni scritti dal ’29 al ’35.       1)      Raffa Garzia, fra l’altro, pubblicherà nel 1917, per la casa editrice Poligrafici Riuniti di Bologna una Raccolta di 1000 mutetus dal titolo “Mutetus cagliaritani 2)      E’ Gramsci stesso a riferirlo in una Lettera dal carcere a Tania del 19-12-1926 : in questi testuali termini: […]“Arrestato l’8 sera alla 10.30 e condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino prestissimo del 25 Novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento assoluto in cella, disciplina rigorosissima. Ho potuto avere la camera a pagamento solo negli ultimi giorni. I primi tre giorni li ho trascorsi in una cella abbastanza luminosa di giorno e illuminata di notte; il letto era però molto sudicio; le lenzuola erano già adoperate, formicolavano gli insetti più diversi, non mi è stato possibile avere qualcosa da leggere, neanche la <Gazzetta dello Sport…” […]                         2. La famiglia Antonio Gramsci sposa Julija (<Giulia>, <Julka>) Schucht nata a Ginevra nel 1896 e discendente da una famiglia di origine scandinava. La conosce a Mosca nel 1922, in una casa di cura dove era stato ricoverato poco dopo il suo arrivo. Dalla loro unione nacquero Delio e Giuliano. Il padre di Gramsci, Francesco non era sardo: veniva da Gaeta, ma le sue origini erano greco-albanesi. Abbandonati gli studi universitari, vinse un concorso nell’Amministrazione dello stato e venne assegnato all’Ufficio del registro di Ghilarza, dove conosce Giuseppina Marcias, figlia dell’esattore delle tasse di Terralba, che sposerà  nel 1883, nonostante l’ostilità della sua famiglia. Avranno sette figli: Gennaro, Grazietta, Emma, Antonio, Mario, Teresina e Carlo. Dopo pochi anni la famiglia dovette trasferirsi ad Ales prima e a Sorgono poi dove Gramsci frequenta l’asilo infantile delle suore ma non la scuola elementare a causa di un ulteriore e forzato trasferimento della famiglia a Ghilarza quando aveva ancora sette anni. Nei primi mesi del 1898 il padre Francesco viene inquisito nella sua qualità di pubblico funzionario e poiché erano emerse alcune irregolarità contabili e l’ammanco di una piccola somma nella gestione dell’Ufficio del Registro, venne sospeso dall’impiego e dallo stipendio. In seguito a questa dolorosa circostanza emerge con forza la figura, forte, attiva e coraggiosa della madre Peppina Marcias. Ricorderà in seguito Teresina, la più piccola delle sorelle, a cui Gramsci dal carcere invierà numerose e struggenti lettere: “furono degli anni terribili per tutti, ma soprattutto per mia madre. Zia Grazia ci aveva assicurato il tetto1 ma dovevamo nutrirci e poi bisognava pagare gli avvocati per la difesa di papà. Noi eravamo molto piccoli, soprattutto io e Carlo che trascorrevamo lunghe ore, dimenticati da tutti, tenendoci per mano spauriti. Mia madre lavorava sempre; aveva una macchina da cucire Singer con la quale confezionava camicie da uomo, sapeva cucinare molto bene e teneva pensionati per i pasti; così riusciva a raggranellare almeno lo stretto necessario per vivere”. Alle volte alla sera non c’era da cenare per tutti e allora la mamma diceva a me e a Carlo: “se andrete a letto, da bravi, senza mangiare, vi do cinque centesimi. Noi accettavamo e ci addormentavamo felici col soldo sotto il cuscino, ma al mattino dopo era sparito”. Il padre Francesco, poco dopo la sospensione dall’impiego, era finito nelle carceri di Oristano: la corte di Appello l’aveva condannato a 5 anni, 8 mesi e 22 anni di reclusione. I figli vennero tenuti all’oscuro: Antonio Gramsci conoscerà la verità solo a distanza di tempo e sarà per lui un grave trauma che lo porterà vieppiù a chiudersi in se stesso.   Nota 1)Non avendo una casa di proprietà sono ospitati, al loro rientro da Sorgono a Ghilarza, dalla zia Grazia.     3. Il tema di Gramsci alla licenza elementare La sorella Teresina ci ha conservato il tema finale1 composto per gli esami della licenza elementarre, che è poi l’unico posse­duto. Questo il titolo: “Se un tuo compagno benestante e molto intelli­gente ti avesse espresso il proposito di abbandonare gli studi, che cosa gli ri­sponderesti?” Ed ecco lo svolgimento, sotto forma di lettera, del 15 luglio 1903:

“Carissimo amico,  poco fa ricevetti la tua carissima lettera, e molto mi rallegra il sapere che tu stai bene di salute. Un punto solo mi fa stupire te; dici che non riprenderai più gli studi perchè ti sono venuti a noia. Come, tu che sei tanto intelligente, che, grazie a Dio, non ti manca il necessario, tu vuoi abbandonare gli studi? Dici a me di fare lo stesso, perchè è molto meglio scorrazzare per i campi, andare ai balli e ai pubblici ritrovi, anzichè rinchiudersi per quattro ore al giorno in una camera, col maestro che ci predica sempre di studiare perchè se no resteremo zucconi. Ma io, caro amico, non po­trò mai abbandonare gli studi che sono l’unica speranza di vivere onoratamente quando sarò adulto, perchè, come sai, la mia famiglia non è certo ricca di beni di fortuna.

Quanti ragazzi poveri ti invidiano, loro che avrebbero voglia di studiare, ma a cui Dio non ha dato il necessario, non solo per stu­diare, ma molte volte, neanche per sfamarsi. Io li vedo dalla mia finestra, con che occhi guardano i ragazzi che passano con la cartella a tracolla, loro che non possono andare che alla scuola serale. Tu dici che sei ricco, che non avrai bisogno degli studi per cam­parti, ma bada al proverbio “l’ozio è il padre dei vizi”. Chi non stu­dia in gioventù se ne pentirà amaramente nella vecchiaia. Un rove­scio di fortuna, una lite perduta, possono portare alla miseria il più ricco degli uomini. Ricordati del signor Francesco; egli era figlio di una famiglia abbastanza ricca; passò una gioventù brillantissima, andava ai teatri, alle bische, e finì per rovinarsi completamente, ed ora fa lo scrivano presso un avvocato che gli dà sessanta lire al mese, tanto per vivacchiare. Questi esempi dovrebbero bastare a farti dissuadere dal tuo pro­posito. Torna agli studi, caro Giovanni, e vi troverai tutti i beni pos­sibili. Non pigliarti a male se ti parlo col cuore alla mano perché ti voglio bene, e uso dire tutto in faccia, e non adularti come molti. Addio, saluta i tuoi genitori e ricevi un bacio dal Tuo aff.mo Antonio”. Il testo del tema è interessante per comprendere l’idea che Gramsci da giovanissimo, aveva della cultura ma anche come documento di un giovane aperto e capace di fare dell’ironia e dell’umorismo, in contrasto con l’idea che spesso si è data di un Gramsci chiuso e sempre serioso. Sarà in seguito proprio il tema della cultura e del sapere oggetto privilegiato della sua riflessione e delle sue analisi: servirà per capire e insieme trasformare quel mondo “grande e terribile” con cui dovrà fare i conti da adulto.    1)      In  L’altro Gramsci di Giovanni Nieddu, Gia editrice, Cagliari 1990 pag.15   4. Gramsci e la Sardegna “La Sardegna –scrive Eugenio Orrù- non è per Gramsci una mera espressione geografi­ca e neppure soltanto il luogo degli affetti, un luogo della memoria, l’infanzia della politica. La Sardegna è espressione di soggettività, di lingua, di cultura, di storia di un popolo distinto, che vive nella storia pluralistica dell’Italia e deve esistere, esserci, come il Mezzogiorno continentale, come la Sicilia, con una pre­senza paritaria nel contesto unitario dello Stato italiano [cfr. il saggio del ’26 sul­la “Questione meridionale” e i Quaderni 1, 14, 19, 1929, 1932-’35, ibidem]. La lingua, la cultura, la storia della Sardegna sono ricchezza e vanno studiate e vissute. Non è dunque solo tattica, ma è frutto di strategia, di convinzione politi­ca radicata l’appello -ispirato da Gramsci- dell’Internazionale contadina, indi­rizzato il 21 settembre 1925 al V Congresso di Macomer del Partito Sardo D’Azione, appello peraltro preceduto dalla lettera del settembre 1923 all’esecuti­vo del P.C.d’L, dove egli parla di “Repubblica federale degli operai e dei conta­timi”. Ecco, anche da qui un’ulteriore interlocuzione con Gramsci: da qui si può desumere un concetto di autonomia come autogoverno, come democrazia e insieme un concetto di identità non come separazione e chiusura, ma come pro­getto e affermazione di sé, nel dialogo, nella partecipazione, nell’apertura all’Italia  e al mondo1. “Dalla Sardegna –ricorderà il suo compagno di studi e di partito, Palmiro Togliatti, il leader massimo dell’allora Partito comunista italiano, commemorandolo nel 1947 nel Municipio di Cagliari in occasione del decimo anniversario della sua morte- venne ad Antonio Gramsci il primo impulso, la vocazione iniziale della Sua vita; ciò che egli aveva visto, osservato, sofferto in Sardegna, diventò elemento fondamentale per la elaborazione del Suo pensiero politico, spinta decisiva alla esplicazione della Sua attività pratica di dirigente della classe operaia e dei lavoratori italiani”. Con la Sardegna e con le sue radici Gramsci mantenne sempre un rapporto molto stretto: certo per motivi affettivi –basta ricordare le sue Lettere dal carcere- ma non solo. I ricordi dell’infanzia e della prima giovinezza trascorsi soprattutto a Ghilarza prima e a Cagliari poi, durante il periodo del Liceo al “Dettori” (1908-1911), rimasero sempre impressi in tutta la sua esistenza e certo lo aiutarono a livello umano, fra l’altro forgiandolo nel suo carattere forte e coriaceo, unico strumento per superare le immani difficoltà che dovrà attraversare nella sua tormentata vita –si pensi in modo particolare al carcere- ma diedero corpo anche alla sua complessa elaborazione intellettuale e politica. “Gramsci –ricorda l’ex parlamentare Battista Columbu in un appassionato intervento2 in occasione del 50° anniversario della morte- fu sardo di nascita; sardo perché amò la sua terra d’immenso amore, l’am0 così com’essa è, con la sua bellezza semplice, con le sue asperità, con i suoi contrasti, con le sue sofferenze, con le sofferenze del popolo sardo che egli conobbe, comprese, condivise”. Di queste sofferenze egli parlerà a più riprese, fra l’altro scrivendone il  16 Aprile  1919 in un articolo per l’edizione piemontese dell’Avanti avente per titolo “I dolori della Sardegna”. In cui ricorderà quanto aveva affermato “nell’ultimo congresso sardo tenuto a Roma, un generale sardo: che cioè nel cinquantennio 1860-1910 lo Stato italiano, nel quale hanno sempre predominato la borghesia e la nobiltà piemontese, ha prelevato dai contadini e pastori sardi 500 milioni di lire che ha regalato alla classe dirigente non sarda. Perché –aggiungeva- è proibito ricordare, che nello Stato italiano, la Sardegna dei contadini e dei pastori e degli artigiani è trattata peggio della colonia eritrea in quanto lo stato <spende> per l’Eritrea, mentre sfrutta la Sardegna, prelevandovi un tributo imperiale”3. E non si tratta di fantasie. Proprio nel Congresso cui fa cenno Gramsci –che si tenne tra il 10 e il 15 Maggio del 1914, fu il primo Congresso regionale sardo di Roma e non l’ultimo come sbagliando afferma Gramsci che per di più lo colloca nel 1911- ci fu chi come il deputato Carboni-Boy dimostrerà nella sua relazione che il gettito fiscale prelevato in Sardegna era esorbitante non solo in relazione  alle risorse di cui poteva disporre l’Isola ma al reddito reale dei suoi abitanti. “Il balzello” finiva così per “paralizzare ogni forza produttiva e ogni risparmio”. In effetti per conseguenza di quel regime fiscale l’abitante della Sardegna versava allo Stato complessivamente lire 3,53 di imposte e risultava quindi “gravato come quasi e anche di più sosteneva il Carboni-Boy- di quello di regioni ricchissime” quali il Piemonte (lire 3,78), il Lazio (lire 3,56), la Toscana (lire 2,66)4 . Lo stesso Gramsci il 14 Aprile del 1919, in un altro articolo, titolato significativamente La Brigata Sassari e pubblicato sempre nell’edizione piemontese dell’Avanti aveva parlato di sfruttamento coloniale della Sardegna da parte della classe borghese di Torino. “Non siamo –commenta lo storico sardo Federico Francioni- di fronte all’uso di una parola ad effetto, in quanto Gramsci dimostra di essere convinto dell’esistenza di un colonialismo esercitato ai danni dell’Isola5. “Colonia, colonialismo –continua Francioni- ecco due termini, potremmo dire quasi due parolacce che gli storici, gli intellettuali sardi, fatte poche, pochissime eccezioni, hanno sempre cercato di rimuovere, come dire di esorcizzare6.

Eppure di colonialismo si trattava –o si tratta ancora oggi?-

  • con la rapina delle risorse, segnatamente attraverso lo sfruttamento delle miniere e la distruzione delle foreste sarde;
  • con l’esasperata e sproporzionata pressione fiscale che il parlamentare l’avvocato Enrico Carboni-Boy nella sua relazione al Congresso tenuto dai Sardi a Roma, aveva ben illustrato, quantificato e documentato;
  • con la politica doganale –in seguito alla rottura dei trattati commerciali con la Francia-  che aveva privato i prodotti tradizionali sardi degli sbocchi di mercato;
  • con l’emigrazione dei lavoratori sardi –le forze più produttive- verso le