Domani 4 novembre a Cagliari : un’orgia militarista. Senza pudore

Domani 4 novembre a Cagliari: un’orgia militarista. Senza pudore.

di Francesco Casula

Domani a Cagliari, in occasione del 4 novembre,si scateneranno le fanfare della retorica, patriottarda e militarista, con parate militari dei vari corpi dell’esercito, con le viete costose e inutili frecce tricolori. Il tutto legittimato e “benedetto” da ministri e da Mattarella in persona!
Senza alcun pudore. Infatti non c’è proprio niente da celebrare e tanto meno da festeggiare alcuna vittoria. Infatti:vittoria di che e di chi?
Quella guerra fu semplicemente una inutile strage (Nota ai capi dei popoli belligeranti” del 1° agosto 1917, pubblicata in lingua francese!, come la definì il Papa Benedetto XV): una gigantesca carneficina (Enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis).

Qualche dato per ristabilire, con un minimo di decenza la verità storica. Nel 1914, quando la guerra scoppiò, l’Italia non aderì. Il Parlamento infatti era neutralista. La grandissima parte dei parlamentari (liberali, socialisti e cattolici) con motivazioni diverse, convergevano tutti nel rifiuto della guerra. Il re-tiranno sabaudo Vittorio Emanuele III (alias Sciaboletta) con il primo ministro Salandra e il ministro degli esteri Sonnino, per un anno intero “sfiancarono” il Parlamento, di fatto costringendolo a schierarsi per la guerra. E così anche l’Italia partecipò al conflitto, con questa motivazione: liberare le cosiddette terre irredente dallo straniero, una sorta di IV guerra di Indipendenza. Ma era una vera e propria fola o balla che dir si voglia.

Non dissero infatti che, durante un anno intero di trattative (segrete) l’Austria era disponibile a “offrire” all’Italia, purché rimanesse neutrale proprio quelle terre: “e parecchio di più”, scrisse e rivelò Giolitti (il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata sul Quotidiano “La Tribuna”).

Tale balla, ancora oggi viene spudoratamente ripetuta e riportata in tutti i testi scolastici, nonostante da decenni sia stata smentita: ad iniziare, fin dagli anni ’60, dal sacerdote Lorenzo Milani.
E fu dunque guerra come inutile strage e gigantesca carneficina, per usare le definizioni del papa di allora: la sola la Italia ebbe 650 mila morti e 2 milioni tra feriti e mutilati. E insieme alla carneficina di vite umane, la distruzione delle città e la devastazione e della natura.
I 650 mila morti e i più di 2 milioni di feriti e di mutilati erano costituiti soprattutto da contadini, operai e giovani mandati al macello nelle trincee del Carso, sul Piave, a Caporetto e nelle decimazioni in massa ordinate dagli stessi generali italiani. Carne da macello fornita soprattutto dai meridionali siciliani, calabresi, campani, lucani e sardi, mentre i settentrionali per lo più erano produttivamente impegnati nelle fabbriche di armi e di cannoni.
Sardi soprattutto, almeno in proporzione agli abitanti: alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe infatti contato ben 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.

In cambio delle migliaia di morti, – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.

Come non “sfamerà” la Sardegna la Manifestazione di domani a Cagliari.: boicottarla e partecipare alla contromanifestazione, organizzata dalla CSS e da Sardegna pulita con Santoro in Piazza Garibaldi, è non solo legittimo ma doveroso. Per denunciare la “vergogna” di un’italietta in morienza, che continua con la retorica patriottarda e nazionalista e con le menzogne sulla guerra “vinta”!

Giovanni Lavagna, monarchico e filo sabaudo ma “scomodo”.

Giovanni Lavagna, monarchico e filo sabaudo ma “scomodo”.

di Francesco Casula

Giovanni Lavagna è un patrizio algherese, (1761-1838), giurista e magistrato, (fra l’altro farà parte come giudice effettivo della sala civile della Reale Udienza) oltre che avere nella sua vita importanti incarichi amministrativi e politici.
E’ un monarchico legittimista e filosavoia, ma ritiene che la monarchia debba fondarsi nell’arte del governare, nella conoscenza della realtà, persino nella forza, ma non nel dispotismo. Ma soprattutto debba fondarsi nella legalità al di sopra delle parti e garante della liberta e della parità dei suoi sudditi. Una critica chiara che rivolgerà ai tiranni sabaudi soprattutto dopo l’arrivo della Corte sabauda in Sardegna nel 1799: anzi di due corti: quella del re e quella del vice re,, quando si assegneranno gli incarichi importanti solo ai piemontesi.
Ma la sua critica ancor più forte la rivolgerà ai sabaudi quando – sempre in seguito alla loro venuta a Cagliari, come esuli, cacciati da Napoleone che occuperà il Piemonte – decideranno di triplicare le tasse regie (il famoso “Donativo”), che passeranno da 200 mila lire sarde a 600 mila. Per finanziare appunto le due Corti: quella del re e quella del vice re.
Egli ritiene infatti che aumentare a dismisura le tasse regie sia assolutamente illegittimo:
”In sostanza egli nega ogni legittimità in fatto e in diritto all’Editto con cui Carlo Emanuele IV, sentita una delegazione stamentaria, decreta un esorbitante «donativo» straordinario e ne fissa il «riparto» fra le varie classi della popolazione. Il tributo è ritenuto illegittimo sia perché troppo gravoso in relazione alle disperate condizioni economiche del paese e troppo sproporzionato rispetto a simili «donativi» imposti nel passato, sia perché approvato in contrasto con le leggi fondamentali del Regno, cioè da una ristretta delegazione stamentaria e non dai tre Bracci appositamente convocati e investiti della pienezza dei loro poteri” (1).
In altre parole critica l’aumento spropositato del Donativo per un motivo de iure (non viene convocato il Parlamento) e un motivo de facto: la Sardegna attraversa una crisi drammatica: la gente muore di fame e di sete; migliaia di bambini muoiono di vaiuolo; non si paga neppure il “soldo” ai soldati.
“Alle spese di mantenimento e suntuarie della corte il Lavagna dedica particolare attenzione: egli le considera uno sperpero del pubblico denaro che, già inammissibile in tempi normali, diventa addirittura delittuoso se fatto in momenti di carestia e a carico di un popolo povero e oppresso dai tributi”.
Lavagna è dunque un filo sabaudosui generis: onesto e rigoroso, non cortigianesco nè servile. E con la schiena dritta quando si tratta di denunciare sconcezze e infamie così evidenti come quelle di triplicare le tasse in un solo colpo!
Sarà per questo che le sue “Carte” sono state pubblicate nel 1970? Ma sostanzialmente sono sconosciute? Come pure il suo “Diario” che copre gli anni che vanno dal 1796 al 1806 ed è custodito oggi nel “Fondo Tola” della Biblioteca comunaJe di Sassari? Diario che lo stesso cortigianesco storico ufficiale dei tiranni sabaudi, Giusppe Manno, definì “preziosissimo”?
Riferimenti bibliografici
1. Carlino Sole.Le Carte Lavagna e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna (Giuffrè editore, Milano 1970), pagina 26.
2. Ibidem, pagina 27.

MONTANARU E SA LIMBA SARDA

MONTANARU E SA LIMBA SARDA

di Francesco Casula

Montanaru impreat sa limba de sa mama in cada si siat manera e cun balentia manna. Est pro more de sa limba sarda, chi issu podet arribare a iscriere poesias mannas e galanas. In sa poesia sua si nuscat frischesa e sincheresa: “Un popolo senza dialetto – iscriet – se potesse esistere bisognerebbe immaginarlo vecchio, compassato, retorico, accademico, freddo e burbero: privo delle tenerezze dell’infanzia, senza le gioie dell’adolescenza e l’esuberanza della gioventù. E come questi tre stati dell’età umana vengono a completare l’uomo, così i processi linguistici del dialetto rendono fresca, semplice, immaginosa una lingua: servono a svariarne lo spirito, agitarne le movenze, a renderla insomma viva e interessante, semplice e piana” (1).
E cuncruiat: “Nessun progresso potrà significare la scomparsa del nostro patrimonio dialettale perché ciò che è intimità della nostra natura rimarrà sardo nel bene e nel male” (2).
Su poeta de Desulo, peroe, in sa limba non biet ebia una funtzione literaria e poetica, ma puru una funtzione tzivile, de educatzione, de imparu pro sa vida. In su Diariu suo iscriet gosi: “…il diffondere l’uso della lingua sarda in tutte le scuole di ogni ordine e grado non è per gli educatori sardi soltanto una necessità psicologica alla quale nessuno può sottrarsi, ma è il solo modo di essere Sardi, di essere cioè quello che veramente siamo per conservare e difendere la personalità del nostro popolo. E se tutti fossimo in questa disposizione di idee e di propositi ci faremmo rispettare più di quanto non ci rispettino” (3).
E galu: “Spetta a noi maestri in primo luogo di richiamare gli scolari alla conoscenza del mondo che li circonda usando la lingua materna” (4).
Diat essere – comente podet cumprendere cada unu de nois – chi cada mastru de iscola imbetzes de cundennare sa limba e sa curtura de su logu de sos dischentes, a issos los depet zunzullare a connoschere e istudiare e imparare cun su limbazzu issoro, una manera de essere, de fàghere, de cumprendere, ebia gai si trasmitit a beru sa curtura de su logu, in iscola. Oe, totus sos istudiosos: linguistas e glotologos, e totus sos scientziaos sotziales: psicologos e pedagogistas, antropologos e psicanalistas e peri psichiatras, sunt cuncordos a pessare, narrere e iscriere de s’importu mannu de sa limba sutzada cun su late de sa mama. Su chi narant est chi pro creschere bene su pizinnu, pro aere elasticidade e impreare comente tocat s’intelligentzia, a imparare duas limbas li fàghet bene e l’agiudat puru a creschere mengius.
Est in sos primos tres annos de vida chi su pilocheddu cumintzat a aere s’abecedariu in conca, e puru si a s’incuminzu de s’iscola sas allegas, sa gramatica, sas maneras de narrere parent amisturadas, sa conca sua est giai traballende pro assentare totu, una limba (su sardu) e s’atera (s’italianu). Nos ant semper narau chi su sardu limitaiat s’italianu e imbetzes est a s’imbesse. Una limba cando la sues e la faghes tua dae minore, t’imparat unu muntone de cosas. T’imparat a biere su mundu in una certa manera, t’imparat a assentare sos pessamentos, t’imparat a ti guvernare a sa sola dandedi unu sensu mannu de responsabilidade, ca est una cosa tua, ca l’as intesa e impreada dae minore. Gasi si podet badiare a in antis e cumprendere totu su chi tenes cara cara, cun curiosidade e gana de imparare.
S’americanu Joshua Aaron Fishman, istudiosu mannu de sotziu-linguistica lu narat craramente, su “bilinguismu” no est de curregere, ne una cosa chi ti faghet trambucare, ma una manera bona de imparare chi t’agiudat in sas intragnas de sa vida e cunfruntande-di cun sos ateros. Limba e curtura de su logu de una pessone sunt medios e trastes de liberatzione, de autonomia, pro ti podere guvernare a sa sola, de indipendentzia, serbint a s’isvilupu de una pessone e mescamente de sos giovanos pro ite sa base abarrat su naturale issoro, partit “dal mondo che li circonda”: pro la narrere a sa manera de Montanaru. Sa limba imparada in domo e in ziru dae minore, serbit pro irmanigare sas cumpetentzias de comunicatzione, de sinziminzos, e de cunfrontu cun s’ateru e li serbit puru pro imparare ateras limbas.
Li serbit a essere cussiente de s’identidade sua, de l’intendere balente, de l’impreare, de non timere cumpetitziones ma de si cufrontare a barbovia cun atere, sena mancantzias. Li serbit pro fagher sua s’esperientzia de s’iscola e de sa vida, imparende e boghende a campu sas raighinas suas. Sa limba, s’istoria, sa curtura de su logu serbit a sos pitzinnos pro aere sigurantzia in issos matessi, pro apretziare s’ambiente in ue istant, pro connoschere sos balores de su logu issoro, primu intra totus s’istare paris, s’amistade e sa tratamenta, balores o maneras de faghere de sa tzivilitade sarda chi sunt balentes meda. Pro los agiudare a brusiare s’idea malavida de su “sardu” comente pessone limitada, comente curpa o neghe, pro los agiudare a no si brigungiare prus de essere sardos, ma l’imparare chi est unu balore mannu, comente essere albanesos, marochinos, o palestinesos. Sos pitzinnos oe sunt male chistionados, non tenent ne manera, ne allegas assentadas pro comunicare, imparant allegas malas o gergo, – comente aiat jai naradu Gramsci, prus de chent’annos faghet, su 26 de Marztu de su 1926, in una litera indiritzada a Teresina, sa sorre prus pitica: ” […]Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca, fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando proprio di cuore, di non commettere un tale errore, e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire: tutt’altro[…] (5).
Note bibliografiche
1. Montanaru, L’Unione Sarda del 16 Luglio 1933.
2. Ibidem.
3. Antioco Casula, Montanaru, Poesie scelte, Testo, traduzione e note a cura di Giovannino Porcu, op. cit. pag. 35.
4. Antioco Casula, Montanaru, Poesie scelte, op. cit. pag.35
5. Ibidem.

PAESE D’OMBRE*: b’est prus beridade in custu romanzu chi no in milli libros de istoria!

PAESE D’OMBRE*: b’est prus beridade in custu romanzu chi no in milli libros de istoria!

1. -La legge delle chiudende
-Prima della Legge delle chiudende“Una legge famigerata… che sovvertiva un ordine durato nell’Isola da secoli… il terri¬torio era praticamente disponibile per gli abitanti, sia che fosse di priva¬ti, sia che appartenesse al feudatario, al Comune o al Re. Tranne una piccola zona intorno al centro abitato, divisa in due porzioni, il vidaz¬zone e il paberili, coltivate per quote distribuite fra tutti i capifamiglia del villaggio, e ad anni alterni lasciate a riposo pascolativo”.

2. -La distruzione dei boschi
-“Nel 1740, il re aveva concesso al nobile svedese Gustavo Mandell, il diritto di sfruttare tutte le miniere di Parte d’Ispi in cambio di una esigua percentuale sul minerale raffinato, e gli aveva permesso di prelevare nelle circostanti foreste il carbone e la legna per le fonderie, costringendo i comuni a vere e proprie corvè e distruggendo così il patrimonio forestale della regione”.
-“La salvaguardia delle foreste sarde non interessava ai governi piemontesi, la Sardegna continuava ad essere tenuta nel conto di una colonia da sfruttare, specialmente dopo l’unificazione del regno”.
3. -La Sardegna diventa “italiana” per un baratto di guerra :”La “La Sardegna era entrata nell’unità nazionale moralmente ed economicamente fiaccata. I Savoia, che ne erano venuti in possesso col Trattato di Londra, avevano continuato e semmai accentuato lo sfruttamento e il fiscalismo, tanto che i sardi per due volte cercarono di liberarsene. La prima fu nel 1794 quando, a furor di popolo, costrinsero i piemontesi a lasciare l’isola, la seconda nel 1796 quando Sassari proclamò la repubblica, soffocata poi nel sangue”.

4. -L’Unità d’Italia
– “Era stato soltanto ingrandito il regno del re sabaudo…la vera faccia dell’Italia non era quella che aveva sognato con tanti altri giovani, ma quella che sentiva urlare nella bettola, divisa come prima e più di prima, giacchè l’unificazione non era stato altro che l’unificazione burocratica della cattiva burocrazia dei vari stati italiani. Questi sardi impoveriti e riottosi non avevano nulla a che fare con Firenze, Venezia, Milano, con Torino, che considerava l’Isola come una colonia d’oltremare, o una terra di confino. In realtà fra gli stessi italiani del Continente, non c’era in comunione se non un’astratta e retorica idea nazionalistica, vagheggiata da mediocri poeti e da pensatori mancati. Persino l’idea della libertà, quale l’aveva espressa la rivoluzione francese, contrastava con l’unità italiana quale era uscita dalle mani di Mazzini e di Garibaldi che, entrambi in modo diverso, avevano finito per tradire la causa per la quale avevano chiesto il sacrificio di tanti giovani vite”.
-“Il governo regio e i fanatici dell’unificazione non avevano tenuto conto delle differenze geografiche e culturali e avevano applicato sbrigativamente a tutta l’Italia un uniforme indirizzo politico e amministrativo”.
5. -La Guerra delle tariffe e le conseguenze sull’Isola
La “Guerra delle tariffe” con la Francia aveva interrotto le esportazioni in questo paese e diversi istituti bancari erano falliti. Clamoroso fu il fallimento del Credito Agricolo Industriale Sardo e della Cassa del Risparmio di Cagliari.

6. -Il Fiscalismo del dopo Unità d’Italia
”La legge del 14 luglio 1864 aveva aumentato le imposte di cinque milioni per tutta la penisola, e di questi oltre la metà furono caricati sulla sola Sardegna, per cui l’isola si vide triplicare di colpo le tasse.
In molti paesi del Centro, quando gli esattori apparivano all’orizzonte, venivano presi a fucilate e se ne tornavano, a mani vuote, ma più spesso l’esattore, spalleggiato dai Carabinieri, metteva all’asta casette e campicelli e tutto questo senza che nessuno tentasse di difendere gli isolani. I politici legati agli interessi del governo, predicavano la rassegnazione. I sardi si convincevano di essere sudditi e non concittadini degli italiani…”
7. -L’Italia dei prefetti e dei generali
“Dopo la fiammata del Risorgimento, era cominciata l’Italia istituzionale dei prefetti e dei generali, l’Italia della tassa sul macinato e di Dogali, che possedeva soltanto di nome indipendenza, unità e libertà e nelle sterili polemiche fra Destra e Sinistra si delineava l’inetta classe dirigente che doveva accompagnarla verso la grande guerra e il fascismo”.

8.La strage di Buggerru
-“Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento”.
-“…qualcuno rimasto sempre sconosciuto, diede un ordine secco ed energico che i soldati eseguirono automaticamente. Come un sol uomo si fermarono, puntarono a terra il calcio dei fucili, inastarono la baionetta, poi con gesto rapido, sicuro, fecero scorrere il carrello di scaricamento, misero la pallottola in canna. Non tutti lasciarono partire il colpo, ma molti lo fecero, e furono soddisfatti del loro gesto. Quella cartuccia li avrebbe salvati. Più tardi durante l’inchiesta risultò che i fucili avevano sparato da soli e che le autorità ignoravano che i soldati avessero le giberne piene di cartucce”.
-“La notizia della strage rimbalzò per tutta l’Italia operaria. A Milano fu comunicata alla folla durante un comizio di protesta e provocò uno sciopero generale in tutta la Penisola.
Solo la Sardegna rimase senza eco, e il silenzio di Buggerru, dopo la strage, in quel triste pomeriggio di settembre era il simbolo del silenzio di tutta l’isola nella compagine nazionale”.
*Giuseppe Dessì, Paese dombre.

IMPORTANZA E RUOLO DELLA STORIA LOCALE

IMPORTANZA E RUOLO DELLA STORIA LOCALE

di Francesco Casula

Fortunatamente, dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della “storia locale” anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio – si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la “storia generale” è degna di essere studiata.
Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre con la creazione nel 1929 degli Annales e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare o la storia riservata solo ai cosiddetti “grandi” (Imperatori, Re, Papi, Generali), rivalutando la storia locale che si pone anzi come “laboratorio“ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.
Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e “la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia“, per cui la “nuova storia“ oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.
Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare:
1. La smemorizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma espunta, cancellata.
2.L’omologazione e la standardizzazione.
I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit.Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.
Concludo, a conferma dell’importanza e del ruolo della storia locale, della storia sarda, citando un grande scrittore sardo, medico, scomparso nel 2020 Giorgio Todde, pluripremiato e tradotto in una decine di lingue. In Il mantello del fuggitivo scrive ”Nessuno può sfuggire al proprio passato e se una comunità non sa riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Il principio spirituale di un luogo rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli, millenni a costituirsi. Non possiamo cancellarlo, ci si ammala. Lo dobbiamo conservare e ripetere. Quest’anima si costruisce lentamente, di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà.
La prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è in gran parte un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo è ben fatto l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato.
Ma se di quell’abito dismesso ci vergogniamo e lo buttiamo allora ci mettiamo addosso altri abiti, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo. E crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altrove.
Si può persino nascere lontano, ma essere legati al luogo dove è nata la nostra gente. Perché i luoghi, anche senza averli mai visti sono incisi dentro di noi attraverso i nostri geni”IMPORTANZA E RUOLO DELLA STORIA LOCALE
di Francesco Casula
Fortunatamente, dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della “storia locale” anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio – si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la “storia generale” è degna di essere studiata.
Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre con la creazione nel 1929 degli Annales e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare o la storia riservata solo ai cosiddetti “grandi” (Imperatori, Re, Papi, Generali), rivalutando la storia locale che si pone anzi come “laboratorio“ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.
Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e “la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia“, per cui la “nuova storia“ oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.
Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare:
1. La smemorizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma espunta, cancellata.
2.L’omologazione e la standardizzazione.
I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit.Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.
Concludo, a conferma dell’importanza e del ruolo della storia locale, della storia sarda, citando un grande scrittore sardo, medico, scomparso nel 2020 Giorgio Todde, pluripremiato e tradotto in una decine di lingue. In Il mantello del fuggitivo scrive ”Nessuno può sfuggire al proprio passato e se una comunità non sa riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Il principio spirituale di un luogo rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli, millenni a costituirsi. Non possiamo cancellarlo, ci si ammala. Lo dobbiamo conservare e ripetere. Quest’anima si costruisce lentamente, di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà.
La prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è in gran parte un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo è ben fatto l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato.
Ma se di quell’abito dismesso ci vergogniamo e lo buttiamo allora ci mettiamo addosso altri abiti, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo. E crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altrove.
Si può persino nascere lontano, ma essere legati al luogo dove è nata la nostra gente. Perché i luoghi, anche senza averli mai visti sono incisi dentro di noi attraverso i nostri geni”

INTELLETUALES DE MANCA CONTRA A SA LIMBA SARDA.

INTELLETUALES DE MANCA CONTRA A SA LIMBA SARDA

di Francesco Casula

Oe sena standard non bi podet essere peruna ufitzializatzione e sena ufitzializatzione sa limba sarda est destinada a si che morrere o a esser confinada in carchi furrungone, in carchi festa paesana. O impreada pro narrer carchi paraula mala, brullas, beffas e ciascas, carchi paristoria o, mancari, irrocos e frastimos.
S’unica manera, oe, pro sarvare e valorizare sa limba sarda est s’ufitzializatzione. Deo isco bene chi medas non sunt de acordu cun custa positzione: puru intre cussos chi parent a favore de sa limba.
Difatis in custu casu su diciu latinu “Tertium non datur” non est assetiadu e no andat bene pro faeddare de sas positziones chi sunt in campu subra de sa Limba sarda: chi non sunt duncas duas ma tres. A sos favorevoles e a sos contrarios toccat de azunghere cuddos chi non narant emmo ma mancu nono de su totu, ma un’ispetzia de “Ni”.
Custa positzione carchi annu faghet, in medas cumbennius, est istada presentada gosi: ”Valorizatzione ei, uficializatzione nono”.
Cun issa sunt de acordu medas, mescamente professores de s’universidade sarda: una cedda intrea, unu grustiu meda mannu, gasi totu de manca.
Deo so cumbintu chi oe subra sa necessidade de s’istandardizatzione, pro lu narrer a sa latina:”non est discutendum”. Pro ite ischimus bene chi sena s’unificatzione peruna limba si podet imparare in sas iscolas, si podet impreare in sos ufitzios, in sos giornales, in sas televisiones, in sas retes informaticas, in sos medios eletronicos, in sa publicidade, in sa toponomastica.
In su tempus coladu, pro annos e annos custa tropera de intelletuales istatalistas teniant sa bibirrina de s’unidade nazionale, chi sa limba sarda ufitzializzada podiat amalezare e sciusciare e oe bogant imbetzes a pillu ateras dudas e arrenghescios, artziende ballas de pruere pro coglionare a sa zente.
Issos, sunt certu prus abistos de sos contrarios: ant istudiadu e duncas non podent denegare s’importu mannu de sa limba nadia in s’isvilupu de sas pessones; connoschent sos iscritos de Gramsci subra de su Sardu e puru sos linguistas italianos prus mannos comente a Giacu Devoto o a Tulliu de Mauro, ismentigandesi però chi ambos duos difendent su bilinguismu e duncas, pro sos sardos, sa limba sarda. Unu chi narat “ni” a sa limba sarda est Antonello Mattone de s’Universidade de Tatari, istoricu de manca chi at iscritu: “Sono d’accordo con certe forme moderate di bilinguismo, ma la lezione universitaria in sardo la trovo controproducente e ridicola. Oggi non avrebbe alcun senso utilizzare il Sardo come linguaggio scientifico, giacché esso nelle sue due grandi varianti, campidanese e logudorese, è una lingua di fatto rurale, che ha assimilato solo indirettamente i termini più propriamente legati alla vita e alla cultura cittadina”.
Sa bibirrina e s’arrenghesciu de sos academicos comente a Mattone est chi sa limba sarda no est capassa de faeddare de cultura urbana e scientifica e duncas de modernidade, pro ite su sardu diat essere solu limba de campagna, de sartu, de pastores e de massajos.
La pessat a sa matessi manera – paret chi si siat coidadosamente postu de acordu – un’ateru professore mannu, italianu custa borta, su linguista Alberto Sobrero, (In Introduzione all’Italiano contemporaneo”, Ed. Laterza, 2 voll.). Isse iscriet cun assentu, chi est giustu chi non si depant scaresciri, stramancare e burrai sas limbas locales ma “sarebbe assurdo o, nella migliore delle ipotesi, comico, pensare di usare le parlate locali per la matematica, la fisica e la filosofia”.
A custos chi pessant chi sas limbas locales – e duncas pro nois su Sardu – serbant pro allegare solu de contos de foghile o peus de burrumballimines e non de chistiones de importu mannu e de modernidade, rispondet unu semiologu comente a Stefano Gensini (In “Elementi di storia linguistica italiana”, Minerva Italica, Bergamo 1983). Issu, amentende Leibniz – filosofu e intelletuale tedescu mannu meda e importante ma pagu connotu – narat chi non b’est limba pobera chi non siat capassa de faeddare de totu. A sa matessi manera chistionant filosofos e linguistas comente a Ferdinand de Saussurre (In “Corso di linguistica generale”,Laterza, Bari,1983) o a Ludwig Wittgenstein (In “Osservazioni filosofiche” Einaudi, Torino,1983); ma mescamente, a ballallois comente Mattone e Gensini, respundit su prus mannu istudiosu de bilinguismu a base etnica, Joshua Aaron Fishman, (In “Istruzione bilingue”, Ed. Minerva Italica, 1972) chi iscriet gosi: “Ogni e qualunque lingua è pienamente adeguata a esprimere le attività e gli interessi che i suoi parlanti affrontano. Quando questi cambiano, cambia e cresce anche la lingua. In un periodo relativamente breve, qualsiasi lingua precedentemente usata solo a fini familiari, può essere fornita di ciò che le manca per l’uso nella tecnologia, nell’Amministrazione Pubblica, nell’Istruzione”

IMPORTANZA E RUOLO DELLA STORIA LOCALE

IMPORTANZA E RUOLO DELLA STORIA LOCALE

di Francesco Casula

Fortunatamente, dopo interi secoli di riserve e, spesso, di vera e propria insofferenza nei confronti della “storia locale” anche in Italia – sia pure in ritardo abissale rispetto ad altri paesi europei, come la Francia, per esempio – si sta superando il paradigma storiografico secondo il quale solo la “storia generale” è degna di essere studiata.
Soprattutto in seguito alle significative posizioni di storici come Marc Bloch e Lucien le Febvre con la creazione nel 1929 degli Annales e con il pensiero di Fernand Braudel, la storiografia più avveduta supera e rifiuta la storia come grande evento politico-militare o la storia riservata solo ai cosiddetti “grandi” (Imperatori, Re, Papi, Generali), rivalutando la storia locale che si pone anzi come “laboratorio“ della nuova concezione storiografica secondo la quale non vi è una gerarchia di rilevanza fra storia locale e storia generale.
Così oggi la storia locale ha acquisito un ruolo importante e stabile e “la storiografia – è lo storico Franco Catalano a sostenerlo – si è liberata dalle innaturali concezioni che celebrano la grande storia“, per cui la “nuova storia“ oltre che abbattere le vecchie recinzioni storiografiche, per una storia aperta e senza barriere disciplinari, è capace di valorizzare la vita degli uomini nel tempo e nello spazio, indagando a tutto campo: dalla cantina al solaio.
Ma non di questo solo si tratta: l’impostazione pedagogica, didattica e culturale tutta giocata sulla proibizione, cancellazione e potatura della storia locale – ma lo stesso discorso vale per la cultura e la lingua sarda – ha prodotto effetti devastanti negli studenti e nei giovani in genere, in modo particolare:
1. La smemorizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per Ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel meraviglioso codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua, la civiltà complessiva dei Sardi dalla Scuola ufficiale è stata non solo negata ma espunta, cancellata.
2.L’omologazione e la standardizzazione.
I giovani soprattutto, sono oggi appiattiti e omologati nell’alimentazione come nell’abbigliamento, nei gusti come nei consumi, nei miti come nei modelli in cui quelli di Cagliari non sono molto diversi da quelli di Detroit.Una delle cause fondamentali è sicuramente la mancanza di memoria storica.
Concludo, a conferma dell’importanza e del ruolo della storia locale, della storia sarda, citando un grande scrittore sardo, medico, scomparso nel 2020 Giorgio Todde, pluripremiato e tradotto in una decine di lingue. In Il mantello del fuggitivo scrive ”Nessuno può sfuggire al proprio passato e se una comunità non sa riconoscere le proprie radici accadono disgrazie. Il principio spirituale di un luogo rappresenta un’essenza che ha impiegato decenni, secoli, millenni a costituirsi. Non possiamo cancellarlo, ci si ammala. Lo dobbiamo conservare e ripetere. Quest’anima si costruisce lentamente, di generazione in generazione, viene da lontano nel tempo, ha perfino una sua ereditarietà.
La prima identità si forma nei luoghi dove nasciamo. L’identità è in gran parte un abito dismesso da chi ci ha preceduto, noi lo ritroviamo, lo rattoppiamo e se il rammendo è ben fatto l’abito diventa anche più bello di quello che abbiamo trovato.
Ma se di quell’abito dismesso ci vergogniamo e lo buttiamo allora ci mettiamo addosso altri abiti, nel tentativo di travestirci da quello che non siamo. E crediamo di esistere solo se rassomigliamo a qualcuno visto in qualche altrove.
Si può persino nascere lontano, ma essere legati al luogo dove è nata la nostra gente. Perché i luoghi, anche senza averli mai visti sono incisi dentro di noi attraverso i nostri geni”

VOGLIONO UCCIDERE LA STORIA!

VOGLIONO UCCIDERE LA STORIA !


di Francesco Casula

Una società (e una civiltà) tutta concepita e vissuta sull’hinc e nunc (Qui ed ora) e su un apprendimento solo orizzontale e viepiù appiattito, soprattutto sulla rete, in cui si naviga di link in link e quindi viene meno quell’approfondimento verticale che è alla base di ogni conoscenza, considera ormai la storia un utensile inutile e inservibile.
La pensa così anche la politica: nel 2022 il governo, nel quadro della sua più volte conclamata «nuova attenzione alla scuola», ha deciso di eliminare dalle prove dell’esame di Stato il tema di storia. In tal modo la storia viene declassata a cenerentola delle discipline scolastiche, se ormai la società civile nel suo complesso ritiene possibile farne a meno, come sembra non solo dalla recente decisione governativa, ma anche da moltissimi altri segni che vanno appunto dalla scuola all’editoria e alla vita civile in genere.
Evidentemente non comprendendo che senza memoria storica le società, e in particolare la nostra moderna società occidentale, siano candidate alla autodistruzione. Se non a quella fisica: certamente a quella morale e culturale.
La storia infatti serve certo a conoscere il passato: ma in funzione del presente e nella prospettiva del futuro. Davanti alle grandi crisi che ci aspettano e che dovremo affrontare, (dalle guerre alle disuguaglianze crescenti, territoriali e sociali, al riscaldamento del pianeta e alla questione energetica a), se non si hanno modelli desunti dal passato su cui riflettere non si può costruire nessuna ipotesi di sviluppo nel presente e nel futuro.
La maggior parte dei giovani, alla fine del secolo, è cresciuta in una sorta di presente permanente, nel quale manca ogni tipo di rapporto organico con il passato storico del tempo in cui essi vivono.
“Il lavoro degli storici, il cui compito è ricordare ciò che altri dimenticano, è ancora più essenziale ora di quanto mai lo sia stato nei secoli scorsi”: nel suo lavoro più conosciuto Il Secolo breve, Eric Hobsbawm, il grande storico inglese, parlava così. Erano gli anni Novanta, e si iniziava a fare i conti con quel “Secolo breve” che stava cambiando radicalmente, secondo lo storico, il modo in cui l’uomo si relazionava al progresso e al proprio futuro. La necessità palesata da Hobsbawm è oggi passata sotto silenzio: scegliere di privare i giovani degli strumenti essenziali di lettura della realtà storica vuol dire privarli della possibilità di scegliere e determinare il loro futuro. La storia infatti è il presente che in qualche modo è già stato sperimentato, analizzato e vissuto: senza di esso, siamo come ciechi senza una guida. la storia serve a impadronirsi sempre più della nostra vita presente e futura; la storia serve a farci sentire e ad essere in realtà più liberi.
Dunque la storia non serve soltanto a divenire un po’ più colti, quindi un po’ meno ignoranti. Serve per saper “leggere” e interpretare la realtà, i fatti gli accadimenti: a tal fine la storia, che già per Cicerone era magistra vitae, non costituisce una semplice raccolta di fatti, date o nomi noiosissimi da imparare, come le genealogie dei carolingi o merovingi o il numero di battaglie vinte da Napoleone e Cesare o le date esatte di una serie indefinita di eventi: insomma l’equivalente di un concorso a quiz.
Al contrario la storia serve per conoscere il passato del mondo, la sua struttura geografica, gli eventi sociali, l’arte e la religione, la filosofia, l’economia, le scienze.
Liberissimo il governo di ritenere che i ragazzi debbano studiare solo cose utili. Ma, chiediamoci, utili a chi? Utili a che cosa? Utili a tranquillizzare le scarse e distratte opinioni delle famiglie che spesso vogliono inserirsi nei programmi scolastici senza capirne un accidente? Utili forse ai ragazzi stessi, molti dei quali sembrano credere che, nelle migliori delle ipotesi, si va a scuola solo per cercare di imparare un mestiere più redditizio, qualcosa che serva a far subito soldi?
Ma allora se la storia è inutile, magari come il greco o il latino o la musica e l’arte, o la poesia e la letteratura, che cosa mai sarà utile? L’inglese? L’informatica? O quale altra materia?
La verità è che la scuola non può essere impostata in modo utilitaristico, né secondo le mode e i gusti del tempo, ma deve essere impostata in modo formativo..
Dobbiamo essere consapevoli che la storia, il passato non è mai del tutto passato ma è ancora e sempre presente, nei suoi riverberi nell’oggi: E comunque la storia è la radice del nostro essere, della nostra realtà e identità collettiva e individuale: nessun individuo come nessun popolo può realmente e autenticamente vivere senza la conoscenza e coscienza della sua identità, della sua biografia, dei vari momenti del suo farsi capace di ricostruire il suo vissuto personale.
Sostiene Umberto Eco nel suo monumentale romanzo L’Isola del giorno prima: “Io sono memoria di tutti i miei momenti passati, la somma di tutto ciò che ricordo”. Mentre Benedetto Croce a chi gli chiedeva cosa sia il carattere di un popolo rispose che “Il carattere di un popolo è la sua storia, tutta la sua storia”. Parole non nuove – ricorda Corrado Augias in I segreti d’Italia – più volte ripetute, fra gli altri da Ugo Foscolo, che nell’orazione inaugurale all’Università di Pavia (22 gennaio 1809) conosciuta con il titolo Dell’origine e dell’ufficio della letteratura ammoniva: “Vi esorto alle storie…”
E l’afgano Khaled Hosseini, nel suo primo romanzo di grande successo Il cacciatore di aquiloni, scrive che: “Non è vero come dicono molti che si può seppellire il passato. Il passato si aggrappa con i suoi artigli al presente”.
E dunque, se non è una scempiaggine, è per lo meno un’ingenuità ritenere che il passato sia passato del tutto o stia sepolto o per lo meno fermo nella teca del tempo. Al passato, anche il più gravoso – certo se ne abbiamo la forza e la capacità –, può essere restituita energia, fino a farne sprizzare fuori qualcosa di utile non solo per il presente ma anche per il futuro.

La genesi storica della questione palestinese e il dramma odierno

La genesi storica della questione palestinese e il dramma odierno

Francesco Casula

La questione palestinese è di vecchia data ed è insieme problema etnico e politico, nazionale e sociale, con plurimi risvolti internazionali. Essa affonda le sue radici nella travagliata vicenda della Palestina fra le due guerre mondiali.
Nel 1945 resta un mandato britannico: in essa abitano 1.250.000 palestinesi e 560.000 ebrei: immigrati questi, in maggioranza fra le due guerre. L’Inghilterra, che inizialmente aveva favorito il flusso migratorio, all’inizio del 1945 adottò una politica restrittiva, per mantenere buoni i rapporti con gli Stati arabi e anche perché non voleva che fossero i Palestinesi a pagare al posto degli europei, per colpe che non avevano commesso.
“L’atteggiamento inglese irritò l’opinione pubblica europea e americana, convinta che la creazione di uno Stato sionista in Palestina fosse il giusto indennizzo per le stragi perpetrate dai nazisti nei campi di stermini, e spinse gli ebrei all’azione. Dall’ottobre 1945 le milizie sioniste di autodifesa dell’«Haganà» (difesa) cominciarono ad attaccare i militari inglesi e il movimento terrorista dell’«Irgum» (organizzazione estremista ebraica) moltiplicò gli attentati, il più grave dei quali fu l’esplosione che distrusse l’hotel «King David» di Gerusalemme, sede dell’Amministrazione civile mandataria, in cui persero la vita più di cento persone”(1).
L’Inghilterra a questo punto, incapace di gestire la situazione, all’inizio del 1947 affida la questione alle Nazioni Unite che nel novembre dello stesso anno approvarono un piano che prevedeva la divisione della Palestina in tre parti: uno Stato ebraico, uno Stato arabo-palestinese e Gerusalemme internazionalizzata, sotto il controllo dell’ONU.
Il Piano fu respinto dai palestinesi perché favoriva nettamente gli ebrei. Così il 14 maggio 1948, alla partenza degli inglesi, gli ebrei proclamarono la nascita dello Stato d’Israele. E’ soprattutto da quel momento che inizia drammaticamente, la “Questione palestinese”.
In seguito alla guerra arabo israeliana (1948-49) infatti, lo Stato israeliano vincitore, allarga i suoi confini, “ampliati con Gerusalemme ovest e altri territori che portarono la sua superficie dal 55% al 78% dell’antica Palestina” (2).
Di contro “lo Stato palestinese non vide la luce, perché il resto della Palestina (tranne la striscia di Gaza, amministrata dall’Egitto) fu annesso alla Transgiordania, che acquisì così la Cisgiordania e Gerusalemme-est e che nel 1950 prese il nome di Giordania” (3) .
Per circa 900.000 palestinesi ci fu l’inizio dell’espulsione e del forzato esodo dalla Palestina ai paesi arabi vicini (Siria, Libano, Egitto soprattutto) e altrove.
Verso la metà degli anni ’50 assunse la fisionomia di una vera e propria diaspora e per l’identità dei profughi dispersi nelle varie parti del mondo (1.250.000) e, al tempo stesso, per il loro tenace e sacrosanto attaccamento alla propria identità nazionale e al loro legittimo territorio Da quel momento si infittirono le politiche discriminatorie e repressive da parte del Governo israeliano, sia nei confronti di quelli rimasti che degli esuli sistemati dei campi di raccolta dei paesi arabi ospitanti.
Dopo la guerra dei sei giorni del 1967 l’intera Palestina storica sarà consegnata a Israele e ciò porterà il numero dei profughi palestinesi intorno ai 2.500.000. La storia, relativamente più recente fa parte di una cronaca drammatica: pensiamo solo al massacro di Tal-El Zaatar nell’agosto del 1976 in Libano, con centinaia e centinaia di morti, la maggior parte civili, opera dei partiti libanesi di destra accompagnati da milizie filo-Israeliane. O all’eccidio di Sabra e Shatila, compiuto dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano del sud, con la complicità dell’esercito israeliano, di migliaia di civili, prevalentemente palestinesi e sciiti libanesi.
Il massacro avvenne fra le 6 del mattino del 16 e le 8 del mattino del 18 settembre 1982 nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Shatila, entrambi posti alla periferia ovest di Beirut.
Il conflitto continua con l’Intifada del 1987 e anche dopo che Arafat, dal 1969 Presidente dell’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), dalla tribuna dell’ONU annuncia nel 1988, il riconoscimento del diritto di Israele all’esistenza e la rinuncia ad azioni terroristiche, accettando la risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, concernente la restituzione dei territori occupati dagli israeliani nel 1967.
Non se ne farà niente. E servono a poco anche gli accordi di Waschington nel settembre 1993 fra i premier israeliano Yitzhak Rabin e Arafat: con l’autonomia amministrativa dei 900.000 palestinesi nella cosiddetta “striscia di Gaza” (occupata militarmente da Israele nel 1967) e della città di Gerico, situata in Cisgiordania (anch’essa occupata da Israele) e divenuta sede di un governo provvisorio palestinese.
E neppure servono gli ulteriori accordi fra OLP e Israele del 1995 che stabilivano le modalità del ritiro dell’esercito israeliano e un governo civile palestinese in Cisgiordania. Tali accordi saranno rifiutati sia dagli integralisti palestinesi di Hamas che dagli integralisti ebraici, con uno stillicidio di sanguinosi attentati: fra cui quello attuato da estremisti religiosi ebraici con l’assassinio del premier Rabin, più disponibile al dialogo e l’elezione a primo ministro de Benjamin Natanyahu, “capo di una coalizione di nazionalisti e religiosi ultraortodossi, ostili alla concessione di una reale autonomia ai Palestinesi” (4) .
In seguito all’assassinio di Rabin e con il governo di Natanyahu, in questi 25 anni e più, il dramma palestinese si acuisce: ed è caratterizzato soprattutto da una ulteriore “colonizzazione”: tanto che il numero di coloni israeliani in Cisgiordania avrebbe raggiunto i 475.000, cui vanno aggiunti altri 300.000 coloni a Gerusalemme Est. Ovvero nei territori “palestinesi”.
E’ frutto di una ulteriore colonizzazione anche il conflitto fra Israele e Hamas di del mese di maggio nel 2021, con 232 morti Palestinesi e 12 israeliani. Con 75 mila Palestinesi in fuga dai bombardamenti israeliani.
Questa la storia e la cronaca. Per quanto attiene il giudizio, ad iniziare da quello concernente l’ultimo conflitto, faccio mio quello espresso da un intellettuale e artista come Moni Ovadia che ha scritto:” “Io sono ebreo, anch’io vengo da quel popolo. Ma la risposta all’orrore dello sterminio invece che quella di cercare la pace, la convivenza, l’accoglienza reciproca, è questa? Dove porta tutto questo? Il popolo palestinese esiste, che piaccia o non piaccia a Nethanyau. C’è una gente che ha diritto ad avere la propria terra e la propria dignità, e i bambini hanno diritto ad avere il loro futuro, e invece sono trattati come nemici”.
E sulle reazioni della comunità politica internazionale e in particolare dell’Italia, Ovadia è netto: “Ci sono israeliani coraggiosi che parlano e denunciano. Ma la comunità internazionale no, ad esempio l’Italia si nasconde dietro la sua pavidità, un colpo al cerchio e uno alla botte. Ci dovrebbe essere una posizione ferma, un boicottaggio, a cominciare dalle merci che gli israeliani producono in territori che non sono loro”.
E arriviamo alla tragedia di oggi. Con centinaia per non dire migliaia di morti distruzione e devastazione.
Ma la condanna del terrorismo di Hamas, sanguinario omicida e suicida, non solo a livello politico, non basta. Perché se il terrorismo allontana drammaticamente la risoluzione del problema palestinese, ovvero la creazione di uno Stato libero e indipendente, che coesista, nella sicurezza, con lo Stato d’Israele, ancor più l’allontana la politica aggressiva e vendicativa, ieri come oggi, di Israele e del governo israeliano. Che, al di là delle chiacchiere sottende di fatto un’idea: I Palestinesi? “Non esistono”.

Già all’indomani della costituzione dello Stato d’Israele (14 maggio 1948), la posizione dei leader come Ben Gurion (e poi Golda Meir) era quello di negare ogni diritto dei Palestinesi a una loro patria – e dunque a un loro Stato – in quanto essi erano considerati parte integrante del mondo arabo, all’interno del quale dovevano essere integrati e assorbiti.

E’ illuminante, a questo proposito una frase di Golda Meir: ”Quando c’è stato un popolo palestinese indipendente in uno Stato palestinese? I Palestinesi non esistono”.
A tal proposito, come non ricordare quanto sostenuto da Erdogan a proposito dei Kurdi, altro popolo da sempre oppresso, che sarebbero “Turchi della montagna”, non riconoscendo loro neppure il nome?

In altre parole non si riconosce e anzi si nega l’Identità nazionale dei Palestinesi e, dunque il loro diritto all’autodeterminazione. E al loro territorio, che a parere degli israeliani Sionisti, sarebbe tutto israeliano, di qui le continue “occupazioni”, in quanto loro appartenuto, fin dall’antichità.
Questo atteggiamento di negazione dei loro diritti permane ancora oggi, soprattutto, ripeto, nella destra sionista. Un noto esponente, il generale Moshe Aron ebbe a dire “Uno Stato può riconoscere un altro Stato, ma mai un popolo”.
Alla base dunque della Questione palestinese vi è la negazione, da parte israeliana, della “Nazionalità palestinese”. Di qui lo sterminio di un intero popolo.

Riferimenti bibliografici
1.Franco della Paruta, Storia del Novecento-dalla Grande Guerra ai nostri giorni, le Monnier, Firenze, 1991, pagine 286-287.
2. Ibidem, pagina 287.
3. Ibidem, pagina 287.
4.F. Della Paruta- G. Chittolini- C. Capra, Il Novecento, Le Monnier, Firenze, 1997, pagina 412.

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Berto Cara ( 1906 _ 1964 )

CONNOSCHERE SU TEATRU IN LIMBA SARDA: Berto Cara (1906 – 1964)

di Francesco Casula

Berto (Filiberto) Cara nasce a Barisardo, il 12 aprile 1906. Finito il ginnasio, impossibilitato a proseguire gli studi per motivi economici, viene assunto come impiegato nelle Poste nel suo paese. Verrà poi trasferito a Mamoiada e, quindi, ad Orotelli, dove nel 1925 conosce e poi sposerà Salvatora Pintori, la madre dei suoi 5 figli.
Il giovane Cara, intanto, continua a pubblicare poesie, novelle, atti unici, riflessioni varie sulla società sarda, saggi di critica letteraria in diversi giornali dell’Isola e della Penisola. In questa sede ci interessano solo le sue opere teatrali e dunque ricorderemo Sa Lampana, dragma in tres actos, pubblicata nel 1929.
Sa Lampana è scritta in sardo-nuorese. A questo proposito Tonino Loddo, valente studioso di Berto Cara, ricorda che esso scrisse l’opera,”più che per i cosiddetti istruiti, principalmente per il popolo, per il popolo sardo, che non ha ancora una letteratura o, meglio, un teatro suo proprio. Or ecco – sostiene Cara – perché ho anche preferito scrivere la triste storia di Manzela e di Stene Mura in dialetto, e nel loro dialetto, anziché in lingua italiana o anche semplicemente logudorese. Il mio lavoro è scritto nella lingua della taciturna Barbagia, alla quale lo dedico e consacro come una primizia del genere”.
Nel tempo libero dagli impegni di lavoro, Cara si dedica allo studio, nel tentativo di realizzare un suo antico sogno: laurearsi in Lettere.
Nel 1936 riesce a fare il primo passo in tale direzione, ottenendo a Cagliari il diploma magistrale.
Nello stesso anno scriverà Marytria, la sua opera teatrale più importante. Questa appena pubblicata, verrà ritirata dalla circolazione con un decreto della censura fascista, perché vi comparirebbero alcune figure con connotazioni ritenute offensive per il regime: ad iniziare da Nanni Dore, il podestà di Araè. Questi invaghitosi della sorellastra Marytria Albais, con prepotenza e brutalità, approfittando del suo ruolo politico e amministrativo, condanna al confino Badore ‘e Ligios il giovane poeta amante di Marytria, da cui aspetta un figlio segreto, In tal modo pensa di eliminare il suo competitore.
A parte questo, di per sé si tratta di un’opera “antifascista” se pensiamo che già nella prefazione al testo, in evidente polemica col divieto fascista della lingua sarda, Berto Cara scriveva: Custa limba podet esprimere totu sos sentimentos, finzas sos pius tragicos e soberanos. E custa limba tantu donosa, meritat abberu sa morte e s’esiliu?
Commenterà Francesco Masala: Il fascismo non riuscì a eliminare il bilinguismo e neppure riuscì a eliminare dalle scene sarde, le antiche farse in limba, esse continuarono ad essere allestite nelle filodrammatiche parrocchiali nei villaggi di Sardegna.
Nel 1947 partecipa e vince il Concorso per Direttore didattico: gli verrà assegnata la sede di Orbetello. Nel 1948 da Cagliari si trasferisce a Siena.
Giunto in Toscana, per prima cosa, il Cara pone mano alla versione italiana di Marytria il cui titolo modifica in Paska che conserva però alla lettera lo svolgimento scenico di Marytria.
Lavora, contestualmente, alla redazione del suo primo romanzo, Dio non si cura dei funghi. Contemporaneamente, apre un’intensa e lunga collaborazione poetica con la prestigiosa rivista sarda S’Ischiglia, fondata da Angelo Dettori, che nella sua lunga storia ospiterà e sarà palestra di una buona parte dei poeti in lingua sarda, strumento indispensabile perché la stessa continui a vivere anche nei momenti più difficili.
Dopo quindici anni egli si trasferirà a Grosseto dove morirà il 31 luglio 1964. Per sua volontà le spoglie furono riportate in Sardegna, precisamente a Cagliari, dove riposano nel monumentale cimitero di Bonaria.