Grazia Deledda

 

Il 15 agosto scorso ricorreva il 77° anniversario della morte di Grazia Deledda

1. Grazia Deledda e il suo linguaggio*.

Per comprendere bene la lingua che utilizza la Deledda nei suoi scritti occorre partire da questa premessa: La lingua sarda non è un dialetto italiano –come purtoppo ancora molti affermano e pensano, in genere per ignoranza- ma una vera e propria lingua. Noi sardi dunque, siamo bilingui perché parliamo contemporaneamente il Sardo e l’Italiano. Anche la Deledda era bilingue. Era una parlante sarda e i suoi testi in Italiano rispecchiano, quale più quale meno le strutture linguistiche del sardo, non tanto o non solo in senso tecnico quanto nei contenuti valoriali, nei giudizi, nei significati esistenziali, nelle struttura di senso inespresse ma presenti nel corso della narrazione.

A parere di uno dei più grandi linguisti sardi, Massimo Pittau, la povertà nel lessico italiano della Deledda, è determinato da un fatto psichico: la paura di sbagliare. Dunque noi bsardi non adoperiamo –come la Deledda- mai vocaboli come: arena, brocca, chicchera, fontana, padella, pigliare, rammentare, tappo, tornare etc. etc. perché pensiamo che siano altrettanti “sardismi”, quando invece non lo sono e utilizziamo solo sinonimi: sabbia, anfora, tazzina, fonte, pentola prendere, ricordare, turacciolo, restituire etc.etc.

Per colpa di questa paura –almeno, ripeto, a parere di Pittau- il lessico degli scrittori sardi come la Deledda, risulta impoverito, soprattutto nei suoi scritti giovanili, perché in quelli della maturità risulta più ricco.

L’altro elemento che occorre ricordare è che il più delle volte la Deledda –ma succede anche a molti sardi, pure grandi scrittori- pensa in sardo e traduce meccanicamente in italiano, soprattutto “nel parlare dialogico” –è sempre Pittau a sostenerlo e io sono d’accordo_ come in :”Venuto sei? –che traduce il sardo:Bennidu ses?; o “Trovato fatto l’hai?-Accatadu fattu l’as?: o ancora “A Luigi visto l’hai? –A Luisu bidu l’as?; o “Quando è così, andiamo –Cando est gai, andamus.

Gli scritti della Deledda sono zeppi di queste frasi.

Infine vi sono innumerevoli vocaboli tipicamente sardi e solamente sardi che Deledda inserisce nelle sue opere quando attengono all’ambiente sardo: pensiamo a tanca (terreno di campagna chiuso da un recinto fatto in genere di sassi), socronza- usatissima in Elias Portolu (consuocera), corbula (cesta), bertula (bisaccia), tasca (tascapane), leppa (coltello a serramanico), leonedda /zufolo), cumbessias o muristenes (stanzette tipiche delle chiese di campagna un tempo utilizzate per chi dormiva là per le novene della Madonna o di Santi), domos de janas (tombe rupestri e letteralmente “case delle fate”).

Vi sono inoltre intere frasi in sardo come: frate meu (fratello mio), Santu Franziscu bellu (San Francesco bello), su bellu mannu (il bellissimo, letteralmente il bello grande), su cusinu mizadu (il borghese con calze), a ti paret? (ti sembra?), corfu ‘e mazza a conca (colpo di mazza in testa), ancu non ch’essas prus (che tu non ne esca più :è un’imprecazione).

Per non parlare dei nomi che risultano tronchi nella sillaba finale quando è  “complemento vocativo”, tipico modo di dire sardo ma soprattutto nuorese e barbaricino: Antò (Antonio), Colù (Colomba), Zosè= Zoseppe (Giuseppe), Zuamprè=Zuampredu (Giampietro), pride Defrà= pride Defraia (prete Defraia).

Qualche volta Deledda ricorre a frasi italiane storpiate in sardo o frasi sarde storpiate in italiano, quelle minsomma che noi barba ricini chiamiamo italiano “porcheddino”: ”Come ho ammaccato questo cristiano così ammaccherò te (…) Avete compriso?”.

Pro finire ricordo anche che la Deledda traduce vocaboli sardi o espressioni tipicamente sarde, quando non mesiste il corrispondente in italiano: Perdonate= perdonae in nugoresu (voce verbale con cui ci si scusa con un accattone quando non gli si può o non gli si vuole fare l’elemosina); botteghiere= buttegheri in nugoresu (invece di bottegaio); male donne= malas feminas in nugoresu (invece di donnacce); maestra di parto= mastra ‘e partu in nugoresu (invece di levatrice); maestro di muri, maestro di legno, maestro di ferro= mastru ‘e muru, mastru ‘e linna, mastru ‘e ferru (invece di muratore, falegname, fabbro)

Occorre però chiarire che i sardismi linguistici della Deledda non derivano dalla sua incapacità di utilizzare correttamente la lingua italiana ma da una scelta voluta e consapevole.

L’influsso della Sardegna e della lingua sarda nelle opere della Deledda non riguarda solo le forme sintattiche o il lessico ma anche –per non dire principalmente- le tematiche, i costumi, le immagini, i detti, i proverbi: per dirlo con una sola parola: l’intera civiltà sarda.

Ma sui “Sardismi” della Deledda ecco cosa scrive una critica sarda, Paola Pittalis [in Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81]: “La Deledda utilizza costantemente “Zio” –e più spesso ziu– per indicare “signore”. Si tratta di uno dei tanti “sardismi” presenti nella sua opera insieme a numerosi vocaboli tipicamente ed esclusivamente sardi (socronza:consuecera; bertula:bisaccia, leppa:coltello); o a calchi sintattici (come venuto sei? Traduzione letterale del sardo bennidu ses?).

L’uso dei “sardismi” linguistici da parte della Deledda anche nelle opere della maturità –è il caso di Elias Portolu– è consapevole e voluto. Rappresenta anzi una chiara e decisa scelta di linguaggio letterario, di canone stilistico e fa parte del suo essere “bilingue”. Ciò non significa che in questa scelta non sia stata condizionata da fenomeni letterari e culturali esterni, -come il verismo- che prevedevano la raffigurazione oggettiva della realtà da parte dello scrittore che doveva riportare fedelmente il linguaggio popolare e “dialettale” dei personaggi.

A questo proposito occorre secondo molti critici liquidare risolutamente il luogo comune della “cattiva lingua” e della “mancanza di stile” appoggiato alla valutazione di intellettuali di prestigio da Dessì (le “sgrammaticature” di Deledda) a Cecchi (la sua lingua “spampanata”). Si tratta invece –secondo Paola Pitzalis- “di forme nate dall’incontro fra dialetto e italiano nel momento di formazione delle varietà designate oggi come <italiani regionali>. L’uso di vocaboli dialettali, sardismi sintattici e atti linguistici frequenti in Sardegna è intenzionale, tanto è vero che scompaiono quando l’interesse di Deledda si sposta dal romanzo <verista> e <regionale> al romanzo <psicologico> e <simbolico> (dopo il 1920). La sintassi prevalentemente paratattica, non equivale alla mancanza di stile; deriva dal trasferimento nella scrittura di modalità anche linguistiche di costruzione del racconto orale (è questo un percorso suggestivo sul quale da tempo lavora con esiti personali Sole). Ed è il contributo modernizzante di Deledda allo snellimento della lingua letteraria italiana costruita sul modello della frase manzoniana…” [Paola Pittalis, Il ritorno alla Deledda, <Ichnusa>, rivista della Sardegna, anno 5, n.1 Luglio-Dicembre 1986, pag.81].

 

2. Una poesia di Deledda in lingua sarda. 

Massimo Pittau, -che ho già nominato parlando del linguaggio della Deledda- il  19-2-1993 ha ritrovato una sua poesiola in lingua sarda. E’ lui stesso a riferirci come l’la “scoperta”: “Ebbene, uno di questi librai, sotto la firma di LIM Antiquaria sas – Studio Bibliografico, via di Arsina 216/A, 55100 Lucca, nel suo catalogo 35 intitolato “Autografi”, pagg. 25, 26, mette in vendita un autografo di Grazia Deledda ventunenne, che riporta una poesiola scritta in lingua sarda, ma con la traduzione italiana, intitolata “America e Sardigna”. Io ritengo che si tratti di un componimento inedito e per questo mi piace darne comunicazione con questo mio breve scritto”.

 

La poesia s’intitola

America e Sardigna

– O limbazu chi ammentas su romanu

durche faeddu de sa patria mea,

tristu comente cantu ‘e filumena

chi in sas rosas si dormit a manzanu,

– cola su mare, e cando in sa fiorida

America nche ses a tottus nara

chi s’isula ‘e Sardigna isettat galu

de esser iscoperta e connoschida…

 

Certo, scrive Pittau, è una poesiola di poco valore poetico, però è importante perché segna l’attività letteraria della scrittrice sarda ma soprattutto è un documento da cui si evince  il desiderio e l’apirazione della poetessa nuorese a far conoscere la Sardegna che aspettava, ai suoi tempi, e ancora aspetta, di essere scoperta e conosciuta.

 

*Tratto da Uomini e donne di Sardegna, di Francesco Casula, Alfa editrice, Quartu Sant’Elena, seconda edizione, 2010. (pagg.133-135)

Grazia Deleddaultima modifica: 2013-08-28T07:14:09+02:00da zicu1
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