S’ ISCUSORGIU DE S’ AMMENTU di ida Patta

S’ISCUSORGIU DE S’AMMENTU di Ida Patta
A cura di Francesco Casula

Conoscevo Ida Patta naschìa in Fiume ma pàschia in Samugheo, soprattutto come poetessa de balia in lingua sarda, avendola premiata più volte, in qualità di Giurato o di Presidente di Giuria, in svariati Concorsi letterari.
Ora leggo “S’ISCUSORGIU DE S’AMMENTU” (Lo scrigno dei ricordi) e scopro una poetessa che racconta, in modo egregio, Contos e Paristorias, “storie attinte da su connotu”, scrive l’Autrice, “preziose memorie della vita del passato, dolce e amara, come sempre sono stati i miei pensieri”.
In alcuni di questi Contus, è sempre l’Autrice a ricordarlo, riporta accadimenti di cui fu testimone, come per esempio in Parigheddu. Altri sentiti in famiglia o dai “cantagontos chi iscriiant in is libureddos contos gòccios e cantzones e totu su chi sutzediat in Sardinnia”.
Racconti, con lacerti lirici e poetici. Pieni di ispantos, maravillas e de miragulos. Con frebotos chi srangànta e sananta is males cun erbas e ateros improddos; con bruscias e relative istrias. Fattucchiere e sortilegi. Con vecchie e ormai sorpassate tradizioni de is nobiles chi pro no amesturare sa nobiltàde cun sa preballìa si cosciuant tra issos, fintes fra fradiles: pro cussu medas figios ‘essiant scimproteddos.
Con frastimos e irrocos, alcuni particolarmente fulminanti, come quelli presenti nell’Atto teatrale: “Ite as nadu? Mortu in galera? Ogos de tzrepeddera ti dda tupas cussa buca ‘e bascia? Morta aintru de una cascia! O: “Ancu t’ispergiat sa pesta niedda!
Con personaggi, suggestivi e drammatici: come Mamai Chicca, che l’Autrice descrive in termini lirici e struggenti: povera e viuda chentza fizos, is parentes ca no teniat sienda, dd’iant iscavulàda. Fiat che unu pigione orrutu de s’aera. Donosa contando dicios antigos, nos a mesu merie andaiaus po ddi fare cumpangia mancari cun cosingiu arrecramu o filongiu. Nesciunu ddi connoschiat s’edade poite no si dd’arregordàt mancu issa. Arrotigàt che una frache, pariat becia meda, forzis no teniat mancu sessant’annos. No aiat mai carta catzolas e cando is righina nde dd’iat comporau una pariga, is pes furint aladiados, atrotigados e tzacados de no ddos podet cartzare.
Mamai Chicca mi ricorda, emotivamente, Sa Tia de filare di Montanaru, altra donna tragica: anche lei “sa tia de patire”.
O come Chicchedda Melone chi po no si fare possedire da su mustru, aiat isceberau sa morte.
O, come Mariedda, che pro disisperu, pro sa bregungia partìat in cunventu pro si fare mongia de clausura. E inìe naschiat su figiu de Pitanu, genera cussas notes chi dd’iat tenta prescionera in domo.
O, come Mamai Derudu,una pobera becia, isciusta cola cola, iscurza e morta de fridu, fascàda cun dun’isciallu nieddu, sinnu de sa fiudesa, in manu poderat unu botigheddu de launa. Andàt a pedire brascia po si podet caentare primu de si crocàre.
Con is moros chi furànt is piccioccas:Oi mama su moro in crebetura/Oi mama su moro in su padente/Abisu mèu c anca beniu gente/Po nde leàre sa tzeraca a fura!
Con sas attitadoras, postas a cabudu de sa mesa chi attitant su poberu sodrau mortu in gherra.
Ma anche con le Novene in sas cumbessias, in sos muristenes in cui insieme alle preghiere si svolgono ballos cantos e giogos a sa murra, un’ispassu de mannos e pitios.

Ma questi Contus, questo materiale che la tradizione popolare, soprattutto del suo paese Samugheo, le mette a disposizione, Ida Patta lo arricchisce, lo trasforma e modifica, producendo e creando veri e propri “pezzi” d’autore: sia dal punto di vista del racconto e dello stile narrativo sia a livello lessicale e linguistico. Con l’inserimento di decine e decine di espressioni e lessemi “preziosi”, spesso desueti: s’approponitu (accessorio), gallosa (elegante), anivini (consumata dal dolore), accatu (accoglienza-ospitalità) in pantèos (di peso), lea (zolla), cannadas (forme di formaggio).
O idiomatici e dunque, altamente significanti e pregnanti, penso a “Cando sa picciocchedda aiat cumenciau a frammentare…” (quando la ragazzina aveva cominciato a mettere su forme sinuose…). O metaforici: “cottu che pisu in padedda”

I vecchi racconti popolari vengono trasformati in racconti d’autore grazie a uno stile e un registro linguistico alto, grazie anche a un suo personale, ampio e corposo tentativo di censimento, di scavo, di esplorazione, di ricerca, di studio e di sperimentazione di un progetto di lingua sarda ricca ed espressiva con cui racconta, almanacca, rappresenta, inventa, costruisce gerghi, coltiva registri, coccola forme in cui predilige costrutti e lessemi vigorosi e vivaci, icastici e suggestivi.
In cui la parola signoreggia e lievita. Una parola che evoca e tesse metafore e virtuosistiche analogie, crea similitudini, allegorie,perifrasi, litoti e iperboli, che incentivano il pensiero oltre il dettato asciutto ed essenziale.
Una parola che, grazie anche al suo stile immaginoso e alla sua raffinatezza lessicale, si carica spesso di una valenza e di un timbro onomatopeico: tanto che di decine e decine di vocaboli il lettore carpisce e intuisce il senso e il significato dal semplice suono: penso, ma sono solo degli esempi, a iscandranchillàdos, trotogiat schintiddiant.
In una lingua, quella sarda, che si porta appresso un variegato e sterminato carico etno-storico, linguistico, antropologico, sociologico,
La lingua sarda con tutti i suoi suoni, i suoi continui concreti richiami all’ambiente, alle tradizioni, ai riti e miti, all’economia, alla alimentazione, ai saperi.
La lingua sarda come lingua materna, familiare, concreta, immaginosa: un medium caldo, che lega la parola alle cose, alle emozioni, ai sentimenti, alla fantasia, all’ironia, alla saggezza. Ma anche alle manie, alle ubbie. Sa limba de su trigu e de su pane, direbbe il nostro più grande poeta etnico, Cicitu Masala.
Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenia hanno cercato di recidere, insieme all’identità della nostra Terra, come canta in maniera struggente e addolorata l’Autrice in “Lettera d’amore a sa terra mia”: Oe ses cambiàda/martoriàda,chentza mudongiu/tant uscàu, aundàu e alluàau,/bendia a su mengius oferidore…!/Fines sa limba t’ant istrupiau/cun paraulas istrambeccas./Idorrobada ‘e s’identidàde/no tenes prus bandera…!
Consapevole com’è, Ida Patta che “chenza una limba tu/Sardinnia ses isfroria”! Io direi di più, utilizzando l’espressione di Cicitu Masala: ”a unu populu nche li podes moere totu e sighit a bivere, si nche li moes sa limma si nche morit”.
Concludo: questi Contos più che essere commentati analizzati e chiosati hanno bisogno di essere letti, per essere gustati assaporati fruiti. Letti e riletti. Soffermandosi. Bisogna fermarsi su ogni singola parola, immagine, metafora. Frequentarla a lungo, farsela amica, riempirla di domande, attenderla con trepidazione. Abitarla. Per vivere emozioni. Per poterla godere. Oltre che capirla.

SIGNIFICATO STORICO E SIMBOLICO DI SA DIE:

Francesco Casula
SIGNIFICATO STORICO E SIMBOLICO DI SA DIE:
la Festa nazionale dei Sardi e della Sardegna di Francesco Casula Senza grandi clamori mediatici ci avviciniamo a Sa Die de sa Sardigna, istituita dalla Regione il 14 settembre 1993. Ma poi sostanzialmente dimenticata dalla stessa Regione ma anche dalle altre Istituzioni. A ricordarla e “festeggiarla”, come negli anni scorsi sarà l’Assemblea nazionale sarda (ANS), un’associazione culturale aperta, democratica e apartitica, particolarmente attiva nel lavoro e nelle iniziative per la costruzione di una coscienza nazionale sarda. Una Festa del popolo sardo in cui identificarsi e nel contempo un’occasione per studiare e conoscere – segnatamente da parte dei giovani – la nostra storia, compressa e manipolata quando non abrasa e cancellata. Si è detto e scritto che l’evento del 28 aprile del 1794 sarebbe debole: una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini e illuministi, per cacciare l’odioso vice re Balbiano e qualche centinaio di piemontesi, nizzardi e savoiardi. Non sono d’accordo. A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni Girolamo Sotgiu. Non sospettabile di simpatie “nazionalitarie” o sardo-identitarie, il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data al 28 aprile da storici filo sabaudi, come il Manno o l’Angius, considerato alla stregua, appunto, di una congiura. “Simile interpretazione offusca – scrive Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali». Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale,di fedeltà al re e alle istituzioni”. A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni. Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona. Secondo il Napoli “l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona. L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti come molenti, inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione”. Questo a livello storico: c’è poi il significato simbolico dell’evento: i Sardi dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”. “Fu un momento esaltante – scrive Lilliu –, il tentativo di ottenere il passaggio da una Sardegna asservita al feudalesimo a una Sardegna libera, fondando nell’autonomia, nel riscatto della coscienza e dell’identità di popolo una nuova patria sarda, una nazione protagonista”.
 
 
 
 
 
 
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Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.

Gli 11 anni di Pontificato di Papa Francesco.
di Francesco Casula
Il 13 marzo del 2013 veniva eletto papa il gesuita Bergoglio, che non a caso sceglieva il nome di “Francesco”: nomen omen! Fin da subito ha voluto imprimere alla Chiesa cattolica un radicale cambio di rotta, trovando all’interno stesso della Chiesa, ma soprattutto fra la gerarchia sorde ampie e corpose resistenze alla sua “rivoluzione”: di qui lo “scontro” sotterraneo (ma non troppo). Schematizzando (e necessariamente semplificando) a confrontarsi (o combattersi?) sono due Chiese contrapposte: quella di Bergoglio e quella rappresentata emblematicamente dai “bertoniani”. Insomma la Chiesa dei poveri e la Chiesa “costantiniana”: una dialettica, un confronto, uno scontro che ha attraversato la sua storia millenaria. E che nella storia carsicamente emerge in alcuni periodi, per inabissarsi in altri. Da quando con l’imperatore Costantino appunto, inizia a mutare “pelle”, DNA: trasformandosi gradatamente, da Chiesa come Comunità di base, povera e solidale, perseguitata e martirizzata, in Chiesa gerarchica, di potere e di dominio: di potere economico e politico. Nel Medioevo al fine di giustificare e “legittimare”, tale potere “temporale”, dei papi e della Chiesa – evidentemente hanno la coda di paglia – gli storici “cristiani” fra l’altro “inventarono” un documento secondo cui l’imperatore Costantino con un decreto avrebbe donato a Papa Silvestro i territori di Roma e del Lazio. Ci avrebbe poi pensato Lorenzo Valla, umanista brillante e colto, a demistificare e sbugiardare tale falso, tale documento apocrifo, con le armi finissime e scientifiche della filologia, della paleografia e dell’archeologia, con un celebre opuscolo ” De falso credita et ementita Constantini donatione” del 1440. Ma non solo su questo versante muta la Chiesa: nata per annunziare il messaggio evangelico, diventa “altro”: si dota e costruisce un apparato dottrinale e teologico, di norme, precetti, divieti, dogmi, riti, culti: che di fatto tendono a “sostituire” il messaggio originale cristiano o, comunque, lo “declassano”, lo diluiscono e, talvolta, lo stravolgono, facendolo di fatto evaporare. Il “fedele” è tale più per l’osservanza della “pratica religiosa” e cultuale o della lettera della dottrina, quasi fosse un’ideologia astratta, che per la “pratica etica” e i comportamenti morali. Il Papa gesuita invece si ispira al messaggio evangelico primigenio: dandone l’esempio e iniziando a praticarla, la povertà, evocata dalla scelta del nome: Francesco appunto. Così ai sontuosi appartamenti papali preferisce la modesta foresteria di Santa Marta, dove consuma i pasti insieme agli altri. Di contro la Chiesa “costantiniana” rappresentata in modo esemplarmente paradigmatico da Bertone che – già potente Segretario di Stato – abita in un sontuoso e lussuoso e superaccessoriato attico. Papa Francesco non riduce la communio e la vita stessa della Chiesa alla struttura ecclesiastica e all’estabilishement: anzi. Di qui la sua apertura agli extracomunitari, ai migranti, alle altre confessioni religiose. Per lui infatti il contenuto della fede non è la gerarchia ma l’evento di Cristo vivente che essa custodisce. E la Chiesa per lui è chiamata a servire tutti gli uomini, segnatamente gli ultimi e quelli che chiama con un lessico molto pregnante, gli scartati, e non solo i fedeli. Il suo servizio non è un mestiere e, ancor meno una carriera, con privilegi ed emolumenti principeschi, come troppo spesso lo è stato nel passato (e lo è ancora) per molti ecclesiastici: che Bergoglio denuncia con reprimende severe. Per lui è un ministero evangelico e profetico di salvezza che si dispiega nella situazione storica concreta in cui vive e opera, accettando e incrociando il frastuono dell’esistenza, occupandosi degli uomini e delle donne, quali sono, e non solo delle loro anime. Egli non è il capo di una setta religiosa: è il fratello e il padre di tutti, ma soprattutto dei diseredati, dei dannati della terra: anche se, formalmente, non appartengono alla Chiesa. Di qui la simpatia, l’apertura e il sostegno deciso e convinto alle problematiche ambientali (penso alla recente enciclica Laudato si’) e ai nuovi processi di liberazione, in sintonia con i soggetti emergenti delle trasformazioni sociali: alle donne che pur continuando ad essere discriminate, iniziano ad acquisire potere e ruoli; alle culture e lingue, un tempo distrutte che rivendicano la propria identità; alle comunità indigene che rivendicano le loro visioni del mondo autoctone non soggette alla colonizzazione occidentale; alle comunità contadine che si mobilitano contro il capitalismo selvaggio. Di qui soprattutto la sua battaglia permanente e assillante per la Pace, il disarmo, la lotta alle fabbriche di armi e di morte. Di qui la sua proposta di “negoziati” per interrompere “l’inutile strage” e la “gigantesca carneficina” (per utilizzare le locuzioni di Benedetto XV a proposito della Prima Guerra mondiale). O il suo accorato appello perché in Palestina si ponga fine al macello in atto., A tali aperture si oppone la Chiesa “costantiniana”, di fatto preconciliare, più legata alla religio che alla religiosità, ma soprattutto non disposta a rinunciare ai privilegi di casta e al potere.
 
 
 
 
 
 
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Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).
di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

La mia Intervista a “Servizio Pubblico” di Michele Santoro su Prima Guerra mondiale e dintorni. (nessi su sutzu per chi non l’avesse vista e sentita).

di Francesco Casula

Quando scoppia il primo grande conflitto mondiale nel 1914, dopo l’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria il 28 agosto a Sarajevo, l’Italia non entra in guerra: il Parlamento, composto soprattutto da liberali, socialisti e cattolici, era neutralista.
La stragrande maggioranza era infatti contrario alla guerra: i liberali, per motivi politici ed economici, perché ritengono la guerra strumento di distruzione di persone e cose; i socialisti, per motivi ideologici e politici, perché nella guerra, qualunque Stato vinca, a essere macellati sono i proletari, essi sostengono invece la lotta di classe e la rivoluzione proletaria non la guerra; i cattolici per motivi dottrinali e religiosi: solo Dio è padrone della vita.
A fronte della neutralità del Parlamento il re Vittorio Emanuele III (noto come Sciaboletta) con il ministro degli esteri Sidney Sonnino e il Primo ministro Antonio Salandra sfiancano il Parlamento, per un intero anno, costringendolo alla fine a cambiare opinione e a entrare in guerra il 24 maggio del 1915.
Dopo lo scoppio della guerra, il re con il ministro degli esteri e il capo del governo hanno colloqui sia con le potenze dell’Intesa che con gli Imperi centrali. Ebbene l’Austria si dichiara disponibile a cedere all’Italia, se solo fosse rimasta neutrale, le cosiddette terre irredente. E Giolitti, il gran capo dei liberali, in una lettera privata, poi pubblicata dal quotidiano “La Tribuna”, aggiungerà che “era disponibile a cedere le terre irredente e parecchio di più”.
La Stampa e i Media si guardarono bene dal darne notizia, anche dopo la desecretazione della trattative. Solo don Lorenzo Milani, parroco di Barbiana, a più riprese ne parlò e ne scrisse in “Lettera ai giudici” (1965), denunciando che quella guerra si poteva evitare. Fu inascoltato.
L’Italia nonostante tale disponibilità dell’Austria, entrerà in guerra, con la stragrande maggioranza della popolazione contraria. Le punte di diamante dei guerrafondai e bellicisti sono i nazionalisti, i futuristi (per il loro capo, Marinetti, la guerra è “la sola igiene del mondo”) i dannunziani, Mussolini con “Il popolo d’Italia”. A favore della guerra si dichiarano anche i grandi Giornali e Quotidiani ma soprattutto la grande industria metallurgica e meccanica che vede nella guerra un’occasione formidabile per fare immani profitti con la vendita delle armi e le sicure commesse da parte dello Stato.
Una guerra “inutile strage” e “gigantesca carneficina”, come denuncerà il Papa Benedetto XV nell’enciclica Ad Beatissimi Apostolorum Principis. Con 10 milioni di morti. Per non parlare dei dispersi e mutilati. Cui la Sardegna, in proporzione agli abitanti pagherà il fio più alto: 13.602 morti.
Quella guerra che Emilio Lussu nel suggestivo libro testimoniale “Un anno sull’Altopiano” descriverà mirabilmente. Lui che da “convinto e chiassoso interventista” si arruolerà volontario ma al fronte ne sperimenterà l’atrocità l’assurdità e l’insensatezza: con la protervia e la stupidità dei generali che manderanno al macello i soldati; con i miliardi di pidocchi e di topi; con la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti.
In cambio delle migliaia di morti – scriverà il grande storico sardo Raimondo Carta Raspi – ci sarà il retoricume delle medaglie de dei ciondoli. Ma la gloria delle trincee non avrebbe sfamato la Sardegna, perché le patacche, anche se seminate, non produrranno grano.
E la guerra di oggi in Crimea? Ha analogie con quella del Quindici/Diciotto? Sì. Questa come quella, continua ad essere voluta dagli Stati (Europei e America) ma non dai popoli; continua ad essere sostenuta dai Grandi Giornali e, soprattutto dalle industrie belliche per ingrassarsi con ciclopici profitti. Esattamente come nella Prima Guerra mondiale.
E la nostra Isola? Gravata dal 65% delle servitù, basi e poligoni militari per l’esercitazione e la sperimentazione di armi degli eserciti di mezzo mondo. E noi sardi? A produrre armi munizioni e bombe nella RWM di Domusnovas.
Da Isola di pace a Isola di guerra.

L’ Astensionismo? Lo producono i Partiti e il sistema elettorale maggioritario

L’ASTENSIONISMO? LO PRODUCONO I PARTITI
e il sistema elettorale maggioritario.

di Francesco Casula

L’astensionismo c’è sempre stato. E’ un dato fisiologico. Ma era minimo: soprattutto nella repubblica incipiente, dopo il crollo del Fascismo e la cacciata dei tiranni sabaudi, ma anche nell’intero trentennio (1946-1976) quando la partecipazione elettorale era elevatissima e stabile.
Ancora nelle elezioni politiche del 1976 l’astensionismo è stato del 6,6%. Aumenterà enormemente invece nel ventennio 1979-99: sia nelle elezioni politiche che in quelle regionali e locali e, persino nelle consultazioni referendarie.
Ma ancor più si accentuerà, arrivando a percentuali colossali (oggi siamo a circa il 50%) nell’ultimo ventennio.
Le cause: due in modo particolare: la trasformazione del sistema politico e dei Partiti e l’introduzione dei sistemi elettorali basati sul maggioritario.
I Partiti, segnatamente negli ultimi venti/trent’anni si sono ridotti a ectoplasmi. A comitati elettorali (quando non comitati d’affari). Lontani dai bisogni della gente e dei territori: specie dei più periferici. Viepiù omologhi fra di loro. Tanto che qualche anno fa i due “poli” di centro-destra e di centro-sinistra si scambiarono reciproche accuse di plagio dei programmi. E negli ultimi anni si sono addirittura organicamente alleati, prima con il governo Monti e poi con quello di Draghi: in nome, si è sostenuto,della governabilità e della stabilità, considerata alla stregua di una vera e propria finalità politica.

A tutto ciò aggiungasi i sistemi elettorali – a livello statale come a livello regionale – i vari Porcelli (nomen omen!) basati sostanzialmente sul maggioritario, la cui fascistissima legge elettorale Acerbo,del 1923, in confronto, era ultrademocratica!
Sistemi elettorali – come quello attualmente ancora in vigore in Sardegna per le elezioni regionali – che producono disastri e devastazioni infliggendo colpi mortali alla democrazia; alla stessa libertà elettorale; al diritto all’ esistenza politica delle minoranze “fastidiose” per l’establishment: che lasciano senza rappresentanza istituzionale decine e decine di migliaia di elettori: com’è successo nel 2014 con Michela Murgia, Pili, Devias e Sanna (con più di 130 mila sardi senza rappresentanza in Regione, il 17% ), nel 2019 con Maninchedda, Pili e Andrea Murgia (con più di 56 mila, circa l’8%) e oggi con Soro e Chessa (con più di 70 mila, 9.6%) .
Abbiamo così cittadini di serie A: il cui voto conta. E cittadini di serie Z, il cui voto non conta.

Possiamo tollerare simil infamia? E per quanto tempo ancora? E poi ci si stupisce se il 50% degli elettori, semplicemente a votare non vanno? E saranno loro gli irresponsabili e non chi produce tale vergogna?

GLI SVARIONI E/O IMPRECISIONI SU ELEONORA D’ARBOREA

GLI SVARIONI E/O IMPRECISIONI SU ELEONORA D’ARBOREA
 OIP
di Francesco Casula
Continuo a sentire e leggere: la Giudicessa Eleonora d’Arborea. Anche recentemente da parte di importanti personaggi politici. E’ vero: ma a livello di comunicazione, rivolta a un pubblico generico, simile locuzione (Eleonora giudicessa) può ingenerare equivoci e confusione. L’ascoltatore (o il lettore) comune) sentendo/leggendo “Giudicessa”, a cosa pensa? A un semplice magistrato? Per evitare simili equivoci, a mio parere occorre sempre dire e scrivere “Eleonora d’Arborea Giudicessa-regina. I Giudicati sono infatti dei veri e propri Regni: sos Rennos sardos: con ordinamenti propri, un territorio, frontiere, accordi interni, rapporti esterni e esteri. C’è di più: in tutte le iscrizioni e i sigilli appare la scritta: Iudex sive rex (Giudice ossia re). Investito della summa potestas (somma potestà): non cognoscens superiorem (che non riconosce uno superiore). Certo di tratta dei “regni” particolari e specifici: intanto erano regni non patrimoniali (cioè di proprietà del sovrano), come erano quelli del medioevo italiano ed europeo feudale, ma superindividuali (o subiettivi). Ma soprattutto il giudice-re governava sulla base di un patto con il popolo (chiamato bannus consensus). Scrive a questo proposito lo storico medievista Francesco Cesare Casula: “Contrariamente agli stati continentali dell’epoca, i giudicati sardi non erano patrimoniali ma super-individuali (o subiettivi) “dipendenti dalla volontà del popolo – precisa F. Cesare Casula – il quale, per mezzo dei suoi procuratores, concedeva al giudice il potere (bannus) e acconsentiva a sottomettersi a lui in cambio del rispetto delle proprie prerogative (consensus). In caso di violazione del vincolo, il re spergiuro poteva essere barbaramente ucciso dallo stesso popolo in rivolta, come in effetti capitò più volte nel corso della storia giudicale” 1. In altre parole il re governava sulla base di un patto con il popolo: il potere veniva infatti concesso al Giudice-re (con l’intronizzazione) in cambio del rispetto delle prerogative popolari, tramite la Corona de Logu, ovvero il Parlamento. Di qui dei regni che possiamo definire semidemocratici: scelti con un sistema misto: da una parte vige l’ereditarietà dall’altra l’elezione da parte della della Corona De Logu. Il re-giudice governava sulla base di un patto con il popolo: se non lo rispettava poteva essere detronizzato e persino – come ho già detto – legittimamente giustiziato dal popolo stesso. Sempre a proposito del Giudicato-Regno, basta riferirsi al Proemio alla Carta De Logu in cui Eleonora stessa precisa che la Carta di Mariano IV da sedici anni non era stata rivista e poiché non rispondeva più ai bisogni delle nuove condizioni sociali, occorreva rivederla e aggiornarla:”pro conservari sa Justicia et in bonu, pacificu e tranquillu istadu dessu pobulu dessu RENNU nostru…dessa terra nostra e dessu RENNU de Arbarèe”. Certo si potrà persino obiettare che Eleonora pur chiamandosi giudicessa, ovvero regina, non fu regina regnante ma reggente (il figlio maggiore Federico Doria-Bas, non aveva la maggiore età e lei governò in sua vece) ma si tratta di una distinzione da azzeccagarbugli, di formalismo giuridico (peraltro del diritto di quei tempi). Ma la sostanza non cambia.
 
 
 
 
 
 
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Ricordando Giovanni Maria Angioy a 216 anni dalla sua morte

Ricordando Giovanni Maria Angioy a 216 anni dalla sua morte
di Francesco Casula
1. La figura di Giovanni Maria Angioy La sua figura – scrive lo storico sassarese Federico Francioni (1)- nella storia del suo tempo è stata a lungo oggetto di controversie, a volte di esaltazioni, a volte di accuse, spesso condizionate da un dibattito politico contingente, che prendevano particolarmente di mira sue indecisioni e «doppiezze». Oggi invece è necessario cercare di capire nel profondo le ragioni dei dubbi ed anche delle ambiguità che, ad un primo esame, sembrano le fasi e le caratteristiche piú marcate della biografia angioyna. Ma è indispensabile, prima di tutto, indagare sulle origini delle lotte antifeudali con le quali giunsero a maturazione istanze comuni sia al mondo delle campagne che ai gruppi della nascente borghesia isolana. È essenziale, inoltre, non perdere di vista il quadro in cui vanno collocati gli avvenimenti sardi: il drammatico scenario dominato dal crollo dell’ancien régime, dalle attese quasi messianiche di emancipazione delle masse rurali, dall’azione di élites audaci ed intransigenti e dagli «alberi della libertà». Solo così sarà possibile rimettere in discussione stereotipi – in larga parte ancora vigenti – su una Sardegna tagliata fuori, sempre e comunque, da tutte le grandi correnti rivoluzionarie, politiche, culturali ed intellettuali dell’Europa moderna. 2. Angioy coltivatore ed imprenditore, professore di diritto canonico, giudice della Reale Udienza. La vita dell’Angioy non è solo una traccia, un frammento, nella storia sotterranea delle longues durées e dei processi di trasformazione che hanno attraversato la società sarda. La sua vicenda politica ed umana assume infatti un valore emblematico perché riflette la parabola di un’intera generazione di sardi, vissuta fra le realizzazioni del «riformismo» sabaudo, un decennio di sconvolgimenti rivoluzionari e la spietata restaurazione dei primi anni dell’Ottocento. In quel contesto si inserisce anche l’attività di Angioy, nato a Bono il 21 ottobre 1751, dopo aver studiato a Sassari nel Collegio Campoleno ed essersi addottorato in Legge, nel 1773 a Cagliari inizia la pratica forense. Imprenditore agrario e manifatturiero oltre che professore di diritto canonico, è un alto funzionario dello Stato (fra l’altro giudice della Reale Udienza) colto ed efficiente, oltre che intellettuale aperto agli stimoli e agli influssi dei “lumi” e delle riforme. Come giudice della Reale Udienza fa parte della Giunta stamentaria costituita di due membri di ciascuno dei bracci parlamentari. Pur rimanendo nell’ombra negli anni delle sommosse cittadine e dei moti antipiemontesi, – anche se il Manno, cercando di metterlo in cattiva luce, insinua che egli tramasse dietro le quinte anche in quelle circostanze e dunque fosse coinvolto nella cacciata dei piemontesi- secondo molti storici sardi – ad iniziare dal Sulis – si affermerebbe come il capo più autorevole del Partito democratico e come l’esponente più importante di un gruppo di intellettuali largamente influenzato dall’illuminismo e dal Giacobinismo: fra i più importanti Gioachino Mundula, Gavino Fadda, Gaspare Sini, il rettore di Semestene Francesco Muroni con il fratello speziale Salvatore, il rettore di Florinas Gavino Sechi Bologna e altri. 3. Angioy e i moti del 1795. I moti del 1795 – scrive ancora Francioni – a differenza di quelli del 1793, che in genere erano stati guidati da gruppi interni ai villaggi, sono preceduti da un’intensa attività di propaganda non solo antifeudale ma anche politica. Infatti insieme alle ribellioni nelle campagne si darà vita ai cosiddetti “strumenti di unione” ovvero a “patti” fra ville e paesi – per esempio fra Chiesi, Bessude, Brutta e Cheremule il 24 novembre 1795 e in seguito fra Bonorva, Semestene e Rebeccu nel Sassarese. In essi le persone giuravano di “non riconoscere più alcun feudatario”. Lo sbocco di questo ampio movimento – autenticamente rivoluzionario e sociale perchè metteva radicalmente in discussione i capisaldi del sistema vigente nelle campagne – fu l’assedio di Sassari – scrivono gli storici Lorenzo e Vittoria Del Piano (2). Con cui si costrinse la città alla resa dopo uno scambio di fucilate con la guarnigione. I capi, il giovane notaio cagliaritano Francesco Cilocco e Gioachino Mundula arrestarono il governatore Santuccio e l’arcivescovo Della Torre mentre i feudatari erano riusciti a fuggire in tempo rifugiandosi in Corsica prima e nel Continente poi. Dentro questo corposo movimento antifeudale, di riscatto economico, sociale e persino culturale-giuridico dei contadini e delle campagne si inserisce il ”rivoluzionario” Giovanni Maria Angioy. 4. Angioy “Alternos”. Mentre nel capo di sopra divampa l’incendio antifeudale, con le agitazioni che continuano e si diffondono in paesi e ville del Sassarese, gli Stamenti propongono al viceré Vivalda di nominare l’Angioy alternos con poteri civili, militari e giudiziari pari a quelli del viceré. Il canonico Sisternes si sarebbe poi vantato di aver proposto il nome dell’Angioy per allontanarlo da Cagliari e indebolire il suo partito. Certo è che il suo nome venne fatto perché persona saggia e perché solo lui, grazie al potere e al prestigio che disponeva nonché alla competenza in materia di diritto feudale ma anche perché originario della Sardegna settentrionale, avrebbe potuto ristabilire l’ordine nel Logudoro. L’intellettuale di Bono accettò, ritenendo che con quel ruolo avrebbe rafforzato le proprie posizioni ma anche quelle della sua parte politica incentrate sicuramente nella abolizione del feudalesimo in primis. Il viaggio a Sassari fu un vero e proprio trionfo: seguaci armati ed entusiasti si unirono con lui nel corso del viaggio, vedendolo come il liberatore dall’oppressione feudale. E giustamente. Anche perché riuscì a comporre conflitti e agitazioni, a riconciliare molti personaggi, a liberare detenuti che giacevano – scrive Vittorio Angius “in sotterranee oscure fetentissime carceri”. 5. L’Angioy a Sassari Accolto a Sassari dal popolo festante ed entusiasta – persino i monsignori lo ricevettero nel Duomo al canto del Te Deum di ringraziamento – in breve tempo riordinò l’amministrazione della giustizia e della cosa pubblica, creò un’efficiente polizia urbana e diede dunque più sicurezza alla città, predispose lavori di pubblica utilità creando lavoro per molti disoccupati, si fece mandare da Cagliari il grano che era stato inutilmente richiesto quando più vivo era il contrasto fra le due città: per questa sua opera ottenne una vastissima popolarità. Nel frattempo i vassalli, impazienti nel sospirare la liberazione dalla schiavitù feudale (ovvero“de si bogare sa cadena da-e su tuiu” come diceva il rettore Murroni, amico e sostenitore di Angioy) e di ottenere il riscatto dei feudi, proseguirono nella stipulazione dei patti dell’anno precedente: il 17 marzo 1796 ben 40 villaggi del capo settentrionale, confederandosi, giuravano solennemente di non riconoscere più né voler dipendere dai baroni. Angioy non poteva non essere d’accordo con loro e li riconobbe: in una lettera spedita il 9 giugno 1796 al viceré da Oristano, nella sfortunata marcia su Cagliari che tra poco intraprenderà cercò di giustificare l’azione degli abitanti delle ville e dei paesi riconoscendo la drammaticità dell’oppressione feudale che non era possibile più contenere e gestire e assurdo e controproducente cercare di reprimere. Non faceva però i conti con la controparte: i baroni. Che tutto voleva fuorché l’abolizione dei feudi: ad iniziare dal viceré. Tanto che i suoi nemici organizzarono durante la sua stessa permanenza a Sassari una congiura, scoperta ad aprile. Si decise perciò di “impressionare gli stamenti con una dimostrazione di forza, che facesse loro comprendere come il moto antifeudale era seguito da tutta la popolazione e che era ormai inarrestabile” (3). Lasciò dunque Sassari e si diresse a Cagliari. 6. L’Angioy e la marcia verso Cagliari, la sua fine e la fine di un sogno… Il 2 Giugno 1896 l’Alternos si dirige verso Cagliari, accompagnato da gran seguito di dragoni, amici e miliziani: nel Logudoro si ripetono le scene di consenso entusiastico dell’anno precedente. A Semestene però ebbe una comunicazione da Bosa circa i preparativi che erano in atto per fronteggiare ogni sua mossa e a San Leonardo, “fatta sequestrare la posta diretta a Sassari, ebbe conferma delle misure che venivano prese contro di lui” (4). Difatti a Macomer popolani armati, sobillati pare da ricchi proprietari, cercarono di impedirgli il passaggio, sicchè egli dovette entrare con la forza. Poiché anche Bortigali gli si mostrava ostile, si diresse verso Santu Lussurgiu e l’8 giugno giunse in vista di Oristano. Nella capitale la notizia che un esercito si avvicinava spaventò il viceré che radunò gli Stamenti. Tutti furono contro l’Angioy: anche quelli che erano stati suoi partigiani come il Pintor, il Cabras, il Sulis. Ahimè ritornati subito sotto le grandi ali del potere in cambio di prebende e uffici. Sardi ancora una volta pocos, locos y male unidos: l’antica maledizione della divisione pesa ancora su di loro. Questa volta per qualche piatto di lenticchie. Così il generoso tentativo dell’Angioy si scontra con gli interessi di pochi: fu rimosso dalla carica di Alternos, si posero 1.500 lire di taglia sulla sua testa e da leader prestigioso e carismatico, impegnato nella lotta antifeudale, per i diritti dei popoli e, in prospettiva nella costruzione in uno stato sardo repubblicano, divenne un volgare “ricercato”. Occorre infatti dire e sostenere con chiarezza che l’Angioy aveva in testa – come risulta dal suo Memoriale (5)- non solo la pura e semplice abolizione del feudalesimo ma una nuova prospettiva istituzionale: la trasformazione dell’antico Parlamento in Assemblea Costituente e uno stato sardo indipendente che “doveva comporsi di quattro dipartimenti (Sassari, Oristano, Cagliari e Orani) suddivisi a loro volta in cantoni ricalcanti le micro-regioni storiche dell’Isola”(6). Riferimenti bibliografici 1. Federico Francioni, Giommaria Angioy nella storia del suo tempo, Editore Della Torre, Cagliari 1985 2. Lorenzo e Vittoria Del Piano, Giovanni Maria Angioy e il periodo rivoluzionario 1793-1812,Edizioni C. R, Quartu, 2000 3. Natale Sanna op. cit. 4. Lorenzo e Vittoria Del Piano op. cit. 5. II testo integrale in francese del memoriale angioiano, con il titolo Mémoire sur la Sardaigne, si trova in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, 1967, sp. pp. 181-182. Di esso aveva già fornito un sunto J. F. Mimaut, Histoire de Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne considérée dans ses loìs, sa topographìe, ses productìons et sa moeurs, t. II, Paris, 1825, pp. 248-253. Tradotto in italiano si può leggere in A. Boi, Giommaria Angioy alla luce di nuovi documenti, Sassari, 1925 (v. sp. p. 80). 6. Antonello Mattone, Le radici dell’autonomia. Civiltà locale ed istituzioni giuridiche dal Medioevo allo Statuto speciale, in La Sardegna cit., 2, pp. 19-20; vedi, anche La Sardegna di Carlo Felice cit., pp. 194-196; C. Ghisalberti, Le costituzioni «giacobine» 1796-1799, Milano, 1973.
 
 
 
 
 
 
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SA DIE INTERNATZIONALE DE SA LIMBA NADIA

SA DIE INTERNATZIONALE DE SA LIMBA NADIA
di Francesco Casula
Oe 21 de freàrgiu si festat sa “Die internatzionale de sa limba materna”,detzidia dae sa Cunferèntzia Generale de s’Organizatzione de sas Natziones Unidas po s’Educatzione, sa Scièntzia e sa Cultura (UNESCO) in su mese de donniassantu de su 1999. Dae su 2000 s’afestat cad’annu, po amparare e balorizare sa diversidade linguìstica e culturale e duncas su blilinguismu e su plurilinguismu. Bene. Sa limba sarda arrischiat de si nche morrere. Non prus faeddada in familia (ca babos e mamas non l’imparant prus a sos figios/as, ca issos/as etotu gasi semper mancu l’ischint), s’unicu mediu pro l’imparare oe a sos pitzinnos est s’iscola. Chi duncas depet diventare bilingue. Comente bilingue depet diventare totu sa sociedade sarda. Cun sa parificatzione giurìdica e pràtica de su Sardu cun s’Italianu e, duncas cun s’ufitzializatzione. Ma custu est su puntu, (hic Rhodus hic salta) sa limba sarda non podet èssere ufutzializada (ne imparada in sas iscolas) sena unu istandard, lassende sa dialetizatzione de oe. E, sena istandard, e sena ufitzializatzione sa limba sarda est destinada a si nche mòrrere o a èssere cunfinada in carchi furrungone, in carchi festa folcloristica. O impreada pro nàrrere brullas, carchi paristòria o, si nono, paràulas malas, e frastimos. Deo so cumbintu chi oe, subra de s’istandardizatzione, pro lu nàrrere a sa latina: ”non est discutendum”. Ca ischimus bene chi sena s’unificatzione de s’iscritura, peruna limba si podet imparare in sas iscolas, si podet impreare in sos ufìtzios, in sos giornales, in sas televisiones, in sas retes informàticas, in sa publicidade, in sa toponomastica. Sena ufitzializatzione, pro nàrrere, in sos litzeos o in sas Universidades sardas, “cale Sardu” imparamus? E in sos giornales e in sas televisiones, chi allegant a totu sos Sardos, ite impreamus? Calincunu narat: faghimus duos istandard: unu pro su logudoresu e unu pro su campidanesu. Semus giai male unidos e cherimus galu ateras divisiones? E, in prus: pro ite duos e non tres, bator, deghe, 365, cantas sunt sas biddas sardas e su “dialetto”, s’allegatzu issoro? E in ue agabbat su campidanesu e in ue cumintzat su logudoresu? E esistit unu campidanesu e unu logudoresu o bi nd’at medas? Sa LSC no andat bene? La curregimus, la megioramus, la irrichimus: ma dae issa depimus mòere. Ca est s’istandard chi tenimus, a pustis de trinta annos de brias e de cuntierras subra de custa chistione. E sos “dialetos locales”? Chi sunt una richesa manna, non b’at perìgulu chi si nche mòrgiant? Est a s’imbesse: cun una limba ”istandardizada”, una limba chi siat una “cobertura” pro totus, est prus fatzile chi sigant a campare; sena limba istandart si nche morint peri issos.
 
 
 
 
 
 
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Fratelli d’Italia è un Inno massonico e non della repubblica italiana.

Fratelli d’Italia è un Inno massonico e non della repubblica italiana.
di Francesco Casula
La locuzione “Fratelli d’Italia” è una gravissima e inaccettabile manomissione e falsificazione storica. Più correttamente occorre chiamare l’Inno “Fratelli massoni d’Italia”. Il giovane Goffredo Mameli, massone, con quell’inno voleva rivolgersi ai suoi “fratelli muratori” e non agli italiani. Siamo nell’autunno del 1847, quando Mameli genovese ma di origine sarda (il padre Giorgio, cagliaritano, è comandante di una squadra della flotta del Regno di Sardegna) allora ventenne studente e patriota scrive l’Inno che sarà poi musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, anch’esso massone. Siamo alla vigilia della Prima guerra di indipendenza e il giovane ingenuamente e in modo sprovveduto e spericolato, si lancia in una serie di affermazioni, storicamente false. Possiamo capire il suo afflato bellicista e retorico ma non la manomissione della storia. Che c’entrano infatti con l’Unità d’Italia gli Scipioni o i combattenti della Lega lombarda, i Vespri siciliani, Francesco Ferrucci, morto nel 1530 nella difesa di Firenze, o Balilla, ragazzino che nel 1746 avvia una rivolta a Genova contro gli austriaci? Si tratta di sciocchezze sesquipedali. Machines e tontesas. Ha scritto a questo proposito Alberto Mario Banti grande studioso del Risorgimento su “Il Manifesto” del 26 febbraio 2011 :”Francamente non lo sapevo. Cioè non sapevo che tutte queste persone, che ritenevo avessero combattuto per tutt’altri motivi, in realtà avessero combattuto già per la costruzione della nazione italiana. Pensavo che questa fosse la versione distorta della storia nazionale offerta dai leader e dagli intellettuali nazionalisti dell’Ottocento. E che un secolo di ricerca storica avesse mostrato l’infondatezza di tale pretesa. Ma c’è dell’altro. Abbiamo scoperto che tutti questi «italiani» erano buoni, sfruttati e oppressi da stranieri violenti, selvaggi e stupratori, stranieri che di volta in volta erano tedeschi, francesi, austriaci o spagnoli”. Ma tant’è: questo sciocchezzaio viene ancora riproposto oggi. Di più: l’Inno massonico dopo essere stato “in sonno” per 71 anni nel 2017 è diventato l’Inno ufficiale della repubblica italiana, suscitando il plauso entusiasta della massoneria che attraverso il gran maestro Stefano Bisi ha scritto: “Ora ci sentiamo ancor di più Fratelli d’Italia e canteremo l’inno orgogliosamente, come abbiamo sempre fatto, durante le nostre tornate rituali e le manifestazioni pubbliche”. Il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, infatti plaude con soddisfazione alla notizia che dopo 71 anni di provvisorietà finalmente il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli, sia adesso a tutti gli effetti l’inno ufficiale della Repubblica Italiana. “Per noi, “Fratelli d’Italia”, al di là delle questioni burocratiche, e’ stato sempre l’inno che abbiamo portato impresso nel cuore e nella mente, perché in esso c’è la storia d’Italia e del Risorgimento che sfociò nell’Unità. Scritto dal massone Goffredo Mameli e musicato dal fratello Michele Novaro, esso fa vibrare da sempre l’animo dei liberi muratori e dei cittadini italiani” Amen!
 
 
 
 
 
 
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La fine dei Savoia è festa per noi sardi

La fine dei Savoia è festa per noi sardi
di Antonangelo Liori
Pare non si debba parlare male dei morti, e forse è vero. Ma la morte di Vittorio Emanuele deve essere festeggiata in Sardegna in quanto fine di una dinastia criminale che ha massacrato in modo cinico e spietato noi sardi. Avidi, ignoranti e senza scrupoli, i Savoia hanno perpetrato per 3 secoli un tentativo di genocidio del nostro popolo. Se avessimo un presidente della Regione con le palle, dovrebbe insinuarsi nella causa fatta dai Savoia per riavere indietro i loro gioielli dallo Stato italiano perché quei gioielli devono essere acquisiti dalla Nazione sarda a parziale risarcimento dei danni subiti dal nostro popolo. L’amico Francesco Casula ha scritto sull’argomento un bellissimo libro dal titolo: “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”. Tiranni che depredarono la Sardegna, la disboscarono, imposero folli balzelli, legge delle chiudende, fucilazioni di massa dove persero la vita donne vecchi e bambini. Possiamo accodarci al funerale del rampollo di questi cialtroni? E meno male che questo decerebrato di figlio – Emanuele Filiberto – ha fatto figlie femmine estinguendone quanto meno il ramo maschile. E’ morto Vittorio Emanuele? In corrias de fogu andede…
 
 
 
 
 
 
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