CICERONE E I SARDI

 

 

Cicerone, gli scrittori latini, la Sardegna e i sardi.

di Francesco Casula

I giudizi e le valutazioni degli scrittori classici latini nei confronti della Sardegna e dei Sardi non sono benevoli: sia quelli di Orazio che di Livio. Quelli di Cicerone sono anzi infamanti e insultanti.

Orazio (65-8 a.c.), il poeta latino famoso soprattutto per le Satire, parlando di Tigellio – musico e cantore sardo, amico di Cesare e di Ottaviano  – nella Satira 1.3 scrive che tutti i cantanti hanno questo difetto: che se sono pregati non cantano ma quando cominciano spontaneamente non la smettono più. E questo è il difetto che aveva il sardo Tigellio che non riusciva a far cantare neppure Cesare….

In un’altra satira 1.2 dice che per la morte di Tigellio Le suonatrici di flauto, i ciarlatani che vendono rimedi, i mendicanti, le ballerine e i buffoni, tutta questa gente è mesta e addolorata per la morte del cantante Tigellio; e ciò è naturale poiché egli fu generoso.

A significare che il musico sardo era esagerato e stravagante.

 

Livio (59 a.c.-17 d. c.) autore della monumentale Storia di Roma Ab urbe condita libri parlando dei sardi sostiene che erano facile vinci (avvezzi ad essere battuti  facilmente). Un giudizio senza alcun fondamento storico e anzi contraddetto dallo stesso Livio, in un altro passo della sua storia, in cui parla di gente ne nunc quidem omni parte pacata  (popolazione non ancora del tutto pacificata). E siamo alla fine del 1° secolo a. c.! Dopo l’arrivo infatti delle legioni romane in Sardegna nel 237 a.c. la resistenza alla dominazione romana sarà lunghissima e dura. E’ lo stesso Livio – insieme ad altri storici – a scandire decine e decine di guerre contro la popolazione sarda da parte dei consoli romani: fin dal 236 un anno dopo la conquista da parte romana del centro sardo-punico della Sardegna, i Romani condussero operazioni contro i Sardi che rifiutavano di sottomettersi. Per continuare nel 235, quando i Sardi si ribellano e vengono repressi nel sangue  da Manlio Torquato, lo stesso console che sarà scelto per combattere Amsicora e che celebrerà il trionfo sui Sardi, il 10 Marzo del 234, come attesteranno i Fasti trionfali capitolini. Nel 233 ulteriori rivolte saranno represse dal Console Carvilio Massimo, che celebrerà il trionfo il Primo Aprile del 233. Nel 232 sarà il console Manio Pomponio a sconfiggere i Sardi e a meritarsi il trionfo celebrandolo il 15 Marzo. Nel 231 vengono addirittura inviati due eserciti consolari, data la grave situazione di pericolo, uno contro i Corsi, comandato da Papirio Masone e uno, guidato da Marco Pomponio Matone, contro i Sardi. I consoli non otterranno il trionfo, a conferma che i risultati per i Romani furono fallimentari. E a poco varrà a Papirio Masone celebrare di sua iniziativa il trionfo negatogli dal senato, sul monte Albano anzichè sul Campidoglio e con una corona di mirto anzichè di alloro. In questa circostanza il console Matone – la testimonianza è sempre dello storico Zonara – chiederà segugi addestrati nella caccia e adatti nella ricerca dell’uomo per scovare i sardi barbaricini che, nascosti in zone scoscese e difficilmente accessibili, infliggevano dure perdite ai Romani.

Nel 226 e 225 si verificherà una recrudescenza dei moti, ma ormai – come sottolinea lo storico sardo PietroMeloni (in La Sardegna romana ,Chiarelli editore) Roma è intenzionata fortemente al dominio del Mediterraneo e dunque al possesso della Sardegna che continua ad essere di decisiva importanza e l’Isola unita con la Corsica – come la Sicilia – dopo il 227 ha avuto la forma giuridica di Provincia con l’invio di due pretori per governarla.

Ci saranno infatti rivolte ancora nel 181 che nel 178 a.c: gli Iliesi con l’aiuto dei Balari avevano attaccato la Provincia, la zona controllata da Roma e i Romani non potevano opporre resistenza perché le truppe erano colpite da una grave epidemia, forse la malaria.

Nel 177 e 176 nuove e potenti sommosse costringeranno il Senato romano ad arruolare sotto il comando del console Tiberio Sempronio Gracco – lo stesso console della conquista romana del 238-237 – due legioni di 5.200 fanti ciascuna, più di 300 cavalieri, 10 quinquiremi cui si associeranno altri 12.000 fanti e 600 cavalieri fra alleati e latini.

Commenta (in Barbaricini e la Barbagia nella storia della Sardegna)) lo storico sardo Salvatore Merche: La grandezza di questa spedizione militare e lo sgomento prodotto nell’urbe dal solo accenno a una sollevazione dei popoli della montagna, dimostra quanto questi fossero terribili e temuti, anche dalla potenza romana, quando si sollevavano in armi. Evidentemente poi, perdurava in Roma la terribile impressione e i ricordi delle guerre precedenti con i Pelliti di Amsicora e di Iosto, nelle quali i Romani avevano dovuto constatare d’aver combattuto con un popolo d’eroi, disposti a farsi ammazzare ma non a cedere. Altro che Sardi facile vinci!

Alla fine dei due anni di guerra – ne furono uccisi 12 mila nel 177 e 15 mila nel 176 – nel tempio della Dea Mater Matuta a Roma fu posta dai vincitori questa lapide celebrativa, riportata da Livio: Sotto il comando e gli auspici del console Tiberio Sempronio Gracco la legione e l’esercito del popolo romano sottomisero la Sardegna. In questa Provincia furono uccisi o catturati più di 80.000 nemici. Condotte le cose nel modo più felice per lo Stato romano, liberati gli amici, restaurate le rendite, egli riportò indietro l’esercito sano e salvo e ricco di bottino, per la seconda volta entrò a Roma trionfando. In ricordo di questi avvenimenti ha dedicato questa tavola a Giove.

Gli schiavi condotti a Roma furono così numerosi che “turbarono“  il mercato degli stessi nell’intero mediterraneo, facendo crollare il prezzo tanto da far dire a Livio Sardi venales : da vendere a basso prezzo. 

Ma le rivolte non sono finite neppure dopo il genocidio del 176 da parte di Sempronio Gracco. Altre ne scoppiano nel 163 e 162. Non possediamo informazioni – perché andate perse le Deche di Tito Livio successive al 167 – sappiamo però da altre fonti che le rivolte continueranno: sempre causate dalla fiscalità esosa dei pretori romani e sempre represse brutalmente nel sangue. Così ci saranno ulteriori guerre nel 126 e 122: tanto che l’8 Dicembre di quest’anno viene celebrato a Roma il trionfo ex Sardinia di Lucio Aurelio; nel 115-111, con il trionfo il 15 Luglio di quest’anno di Marco Cecilio Metello ben annotato nei Fasti Trionfali, e infine nel 104 con la vittoria di Tito Albucio, l’ultima ribellione organizzata che le fonti ci tramandano, ma non sicuramente l’ultima resistenza che i Sardi opposero ai Romani.

 

Ma è Cicerone lo scrittore latino più malevolo nei confronti dei Sardi e della Sardegna, di cui parla soprattutto in  Pro M. Aemilio Scauro oratio.

L’orazione, dell’anno 54 a.c. è in difesa di Emilio Scauro ex governatore della Sardegna. Questi è accusato di tre “crimini”: aver avvelenato nel corso di un banchetto Bostare, ricco cittadino di Nora, per impossessarsi del suo patrimonio; aver insistentemente insidiato la moglie di tal Arine, tanto che essa si sarebbe uccisa piuttosto che divenirne l’amante: i due reati (veneficio il primo e intemperanza sessuale il secondo, – sottolinea lo storico sardo Raimondo Carta-Raspi (in Storia della Sardegna, Mursia editore) –  non erano tali da preoccupare un avvocato dell’abilità di Cicerone e infatti egli riuscì a confutare queste accuse volgendole anzi al ridicolo.

Insieme a lui difendevano Scauro altri 5 avvocati di grido, tra i quali Ortensio e il tribuno Clodio e ben nove consolari come testimoni – laudatores – a difesa dell’imputato, uno era addirittura Pompeo. Oltre agli avvocati infatti l’imputato poteva avvalersi di laudatores appunto, che ne facevano l’apologia con argomenti che talora erano semplici sviluppi di testimonianze in stile ornato.

Cicerone sosterrà infatti che Scauro non aveva alcun interesse a fare avvelenare Bostare, perché non era il suo erede e non aveva nessun motivo di odio personale, mentre trova alla madre di quest’ultimo un movente che giustificherebbe l’avvelenamento del figlio; per quanto attiene alla seconda imputazione, sostiene che la moglie di Arine era vecchia e brutta quindi non si vedeva la smania di sedurla da parte di Scauro.

Di ben altra importanza era invece il terzo reato addebitato all’ex propretore, accusato di malversazione nella sua amministrazione della Sardegna, con l’esazione di tre decime: oltre a una decima normale e a una seconda straordinaria ma ugualmente legale, Scauro infatti ne impose una terza a suo esclusivo beneficio. Peccato che la confutazione dell’accusa più grave per i romani, quella appunto di aver ordinato le illegali esazioni di frumento, non ci sia pervenuta.

Ci è però pervenuta la parte in cui Cicerone si impegna com’è suo stile a lodare la specchiata onestà di Scauro (figlio di Cecilia Metella, moglie di Silla) e a insultare i suoi accusatori. Essi sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero, ma non sanno neppure parlare la lingua latina e sono vestiti con le pelli (pelliti testes).

Ma c’è di più: per screditare i 120 testimoni sardi non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (mastrucati latrunculi), inaffidabili e disonesti, la cui vanità è così grande da indurli a credere che la libertà si distingua dalla servitù solo per la possibilità di mentire: la loro inaffidabilità viene da lontano, dalle loro stesse radici che sono rappresentate dai fenici e dai cartaginesi, guarda caso nemici storici dei Romani. Di qui l’accusa più grave e insultante, oggi diremmo “razzistica”: Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? (E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gentenemmeno all’o­rigine, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?)

Proprio per questo motivo l’appellativo afer è più volte usato come equivalente di sardus e l’espressione Africa ipsa parens illa Sardiniae viene adottata dall’oratore romano per affermare che dai fenici sono discesi i Sardi, formati da elementi africani misti, razza che non aveva niente di puro e dopo tante ibridazioni si era ulteriormente guastata, rendendo i sardi ancor più selvaggi e ostili verso Roma tanto che i sardi mescolati con sangue africano non strinsero mai con i Romani rapporti di amicizia né patti d’alleanza e che la Sardegna era l’unica provincia priva di città amiche del popolo romano e libere.

A questo proposito però Cicerone innanzitutto dovrebbe mettersi d’accordo con il suo “compare” Tito Livio che nelle sue storie (XXIII,40) ricorda città sarde socie di Roma devastate da Amsicora; in secondo luogo l’oratore romano ignora evidentemente che i Fenici arrivano in Sardegna intorno al IX secolo e che le popolazioni nuragiche nel mediterraneo occidentale erano giunte duemila anni prima della fondazione di Cartagine. Ma si tratta – si chiede lo storico Carta-Raspi nell’opera già citata – di artificio oratorio o ignoranza?

Probabilmente dell’uno e dell’altra insieme.

Fatto sta che Scauro fu assolto con 62 voti a favore e con soli 8 voti contrari, furono screditati i testimoni sardi, fu infangata la memoria di Bostare e Arine, fu razzisticamente insultato l’intero popolo sardo e la sua “origine”.

Scauro fu assolto nonostante le accuse gravissime e  Cicerone considererà questa una delle sue più belle orazioni, tanto che più volte nelle lettere ne cita delle parti con compiacimento. Pare comunque che non sia stata l’orazione di Cicerone ad assolvere Scauro: protetto da Pompeo potè corrompere i giudici che lo mandarono assolto.

Ma uno degli accusatori, Publio ValerioTriario, non si dà per vinto e riuscì a fare condannare Scauro costringendolo a prendere la via dell’esilio, in seguito ai brogli che commise nelle elezioni per console, nonostante fosse ancora difeso da Cicerone,

E pochi anni dopo, come ricorda nella tragedia Ulisse e Nausica in sa Cost’Ismeralda, (Editziones de Sardigna) il poeta e studioso di cose sarde Aldo Puddu, Cicerone viene decapitato dal centurione di Marc’Antonio mentre cerca di sfuggire alla proscrizione e come estremo sfregio la nobile Fulvia infilza la sua esanime lingua con uno spillo da fermaglio: ut sementem feceris ita metes: mieterai a seconda di ciò che avrai seminato, ipse dixit.

Su Cicerone e la sua difesa di Scauro scrive parole molto severe Filippo Vivanet: “Pagato da Emilio Scauro,egli impiegò la sua magnifica quanto venale eloquenza a dipingere coi più neri colori chi voleva colpire onde rinfrancare le parti del suo cliente. La sua foga oratoria non trovò limiti allora nella impudenza e nella falsità delle accuse; i suoi periodi sonanti, la sua parola meravigliosa bastarono a tergere d’ogni imputazione un concussionario esecrato dalla Sardegna, e la posterità senza indagare la giustizia dei suoi giudizi imparava a ripetere per strascico di erudizione una triste calunnia dacché essa era vestita del più sonoro ed abbagliante latino che labbro romano avesse fatto echeggiare dai rostri”.

Difficile dare torto a Vivanet.

 

Lettura: Testo tratto da [PRO M. AEMILIO SCAURO ORATIO di M. Tulli Ciceronis, introduzione, testo critico, traduzione, note a cura di Alfredo Ghiselli, seconda edizione riveduta, Casa editrice Prof. Riccardo Pàtron, Bologna, pagine 82-85]

“…At creditum est aliquando Sardis. Et fortasse credetur aliquando, si integri uene­rint, si incorrupti, si sua sponte, si non alicuius impul­su, si soluti, si liberi. Quae si erunt, tamen sibi credi gaudeant et mirentur. Cum uero omnia absint, tamen se non respicient, non gentis suae famam perhorrescent?

Fallacissimum genus esse Phoenicum omnia monu­menta uetustatis atque omnes historiae nobis prodi­derunt. Ab his orti Poeni multis Carthaginiensium re­bellionibus, multis uiolatis fractisque foederibus nihil se degenerasse docuerunt. A Poenis admixto Afrorum genere Sardi non deducti in Sardiniam atque ibi consti­tuti, sed amandati et repudiati coloni. Qua re cum integri nihil fuerit in hac gente piena, quam ualde eam putamus tot transfusionibus coacuisse? Hic mihi ignos­cet Cn. Domitius Sincaius, uir ornatissimus, hospes et familiaris meus, ignoscent de(nique omn)es ab eo­dem Cn. Pompeio ciuitate donati, quorum tamen om­nium laudatione utimur, ignoscent alii uiri boni ex Sar­dinia; credo enim esse quosdam. Neque ego, cum de uitiis gentis loquor, neminem excipio; sed a me est de uniuerso genere dicendum, in quo fortasse aliqui suis moribus et humanitate stirpis ipsius et gentis uitia uicerunt. Magnam quidem esse partem sine fide, sine societate et coniunctione nominis nostri re(s) ipsa declarat.

Quae est enim praeter Sardiniam prouincia quae nullam habeat amica(m) populo Romano ac libe­ram ciuitatem? Africa ipsa parens illa Sardiniae, quae plurima et acerbissima cum maioribus nostris bella ges­sit, non solum fidelissimis regnis sed etiam in ipsa pro­uincia se a societate Punicorum bellorum Vtica teste defendit. Hispania ulterior Scipionum int(eritu) ***…”.

Traduzione  “…«Qualche volta – si dirà – si è pur voluto credere ai Sardi73 ».E forse qualche altra volta si crederà, se verranno qui da perso­ne oneste, incorrotte, di loro iniziativa, non spinti da qualcuno, indipendenti, liberi. Se così sarà, potrebbero alla fine gioire della nostra fiducia e restarne ammirati. Ma siccome tutto ciò è lungi dall’essere, non vorranno una buona volta rivolgere gli occhi su se stessi, sentire orrore per la cattiva fama della loro gente?La stirpe più falsa è quella dei Fenici: tutti i docu­menti dell’antichità, tutta la storia ce lo tramanda. Di­scesi da questi, i Punici, per le molte insurrezioni dei Cartaginesi, per i patti tante volte violati e infranti, ci hanno mostrato che non sono affatto degeneri. Dai Punici, ai quali si è mescolato un ramo degli Africani, i Sardi non furono regolarmente mandati in Sardegna per fondare città e fissarvisi stabilmente, ma in qualità di coloni relegati ed esiliati. E allora, dal momento che nulla di puro c’è stato in questa gente74 nemmeno all’o­rigine75, quanto dobbiamo pensare che si sia inacetita per tanti travasi?Qui vorrà perdonarmi Gn. Domizio Singaio, persona degnissima, ospite e amico mio; lo vorranno coloro (tutti) che come lui, da Gn. Pompeo so­no stati gratificati della cittadinanza romana, gli elogi unanimi dei quali tornano a nostro favore; vorranno perdonarmi gli altri galantuomini della Sardegna; io cre­do che alcuni ve ne siano. E del resto, quando parlo dei difetti di un popolo, non è già che io non eccettui nes­suno; ma io debbo parlare di una nazione in generale, ed è verosimile che in essa alcuni, in virtù dei loro costu­mi e della loro umanità, siano riusciti a trionfare dei di­fetti della gente e della stessa origine. Ma è evidente che la maggior parte è senza lealtà, senza possibilità di associarsi e di congiungersi col nostro popolo. Quale provincia c’è, eccetto la Sardegna, che non abbia nes­suna città amica del popolo romano e libera76? La stes­sa Africa, la madre della Sardegna, quella che condusse contro i nostri avi moltissime e accanitissime guerre, si è ben guardata dal partecipare, non solo coi regni più fedeli, ma nell’ambito della provincia stessa, alle guerre puniche, e Utica ne è testimone. La Spagna Ul­teriore (alla morte) degli Scipioni ***…”

Note (presenti nel testo)

73. tipica occupatio introdotta da at

74. Gens ha qui il valore di «popolo barbaro», che ri­corre già in Nevio: cfr. M. BARCHIESI, Nevio epico, Padova 1962 p. 458.

75. Plana: la correzione Poena del Francken ha avuto un certo credito, ma Celso I 6 ha uinum plenum, onde plenus viene a quadrare perfettamente con transfusionibus e con coa­cuisse, nella metafora del vino schietto che si fa aceto attra­verso molteplici trasfusioni.

76. “Talune città poste fuori dall’Italia «si legarono a Ro­ma con foedera, costituendo quella categoria di alleati che si dissero socii exterarum nationum; altre, pur senza foedus, per atto unilaterale del popolo vincitore furono dichiarate li­berae, conservando così anch’esse la loro autonomia nel diritto privato, nonché le loro magistrature ed assemblee: la qualifica di ciuitates liberae non escludeva che potessero essere obbligate al pagamento di un tributo (ciuitates stipendiariae) ma vi fu­rono ciuitates liberae et immunes (ad es., fra le siciliane, Pa­lermo e Segesta) che dal tributo furono esenti » (ARANGIO-RUIZ, St. del Dir. Rom., p. 115 s.). L’intero territorio della Sardegna era soggetto fin dalla conquista al pagamento della decima e dello stipendium, mentre nessuna città sarda godette di auto­nomia comunale.

 

 

 

CICERONE E I SARDIultima modifica: 2014-01-14T17:38:01+01:00da zicu1
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