Carlo Emanuele IV (1796-1802)

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Carlo Emanuele IV (1796-1802)

Succeduto nell’ottobre del 1796 al padre Vittorio Amedeo III, fu costretto ad abbandonare i suoi domini in terraferma e a rifugiarsi in Sardegna. In seguito all’occupazione del Piemonte da parte di Napoleone.

Appena arrivato in Sardegna uno dei primi atti sarà quello di aumentare a dismisura le tasse (triplicando il donativo: così si chiamava allora il totale delle imposte “dovute” alla Corona) ed estromettendo tutti i Sardi dalle cariche (politiche, militari, burocratiche) importanti.

  1. Il re sabaudo, arrivato a Cagliari, triplica il donativo.

“I Sardi – scrive Raimondo Carta Raspi – che avevano visto fugacemente qualche re di Spagna, non avevano ancora conosciuto né un re né un principe di casa Savoia. Da quando ne cinsero la corona, non si erano curati nep­pure di far atto di presenza; e forse anche perciò gli isolani, ma più i Cagliaritani avevano perpetuato in loro quella specie di mistica devozione che già ebbero per i grandi sovrani di las Españas. Gran­de fu perciò l’attesa ma non altrettanta la gioia allorché nel golfo degli Angeli apparvero non una ma ben sette navi, che vi conduceva­no non solo il re e la sua famiglia, ma anche i principi, ministri, uffi­ciali e dignitari, accompagnati perfino dal servidorame piemontese. Fra gli acclamanti al pittoresco corteo di pennacchi e livree, forse qualche raro cagliaritano dovette pensare che cinque anni prima tut­ta la città si era sollevata per cacciare poche decine di Piemontesi insolenti: ora tornavano, regali padroni, esigenti, e sprezzanti, in­sofferenti dell’ospitale esilio. Giungevano in molti e privi di tutto, a mani vuote. Senza che neppure ne fosse stato richiesto, «per una continenza che mai non si potrà abbastanza lodare e per debito di religione, come protestava», il re aveva lasciato nelle stanze regali «le gioie preziose della corona, tutte le argenterie e sette­centomila lire in doppie d’oro» (Botta, Storia d’Italia). Gesto tutt’altro che regale, poiché dovette poi farlo pesare sui misera­bili sudditi isolani, con nuove imposte e fin dai primi giorni attin­gendo «dalle casse minori, dacché la maggiore priva era di de­naro».

Appena sbarcato a Cagliari, il 3 marzo 1799, Carlo Emanuele che prima di partire in esilio aveva invitato i suoi sudditi ad obbe­dire al nuovo governo, lesse una vibrata protesta contro la forza rinuncia ai suoi stati di terraferma, e ritrattò l’abdicazione. Buona precauzione, ma prematura. Urgeva ben altro: gli appannaggi . Una somma globale eccessiva per le entrate del regno: 227.000, per la Corte, 35.000 per il re, 18.000 spillatico per la regina, 10.000 per la principessa Felicita, 95.000 per il duca d’Aosta, 60.000 per il duca di Monferrato, 40.000 per il duca del Genovese, altrettante il conte di Moriana e 75.000 per il duca del Chiablese. Una cifra globale di 600.000 lire, corrispondente al triplo del donativo fino al­lora stabilito; e poiché il disavanzo in quell’anno era di L. 484.885, non trovando prestiti, fu necessario intanto sospendere lo stipendio agli impiegati e vendere a basso prezzo tutto il piombo esistente nei magazzini; ripieghi di troppo breve respiro, si che per coprire il disavanzo dovette essere decretata un’imposta straordinaria di 412.500 lire sarde. «Grave oltremodo riuscì questa imposta – scrive giustamente il Martini – ad un’isola, come la Sardegna, abbattuta da lunghe sventure, vessata dalle due aristocrazie (laica ed eccle­siastica), povera di denaro, d’industria, di commercio, avvezza da se­coli alla sola prestazione del donativo ordinario, equivalente, ad un terzo circa del novello tributo. Sollevossi dunque l’opinione pub­blica contro gli stamenti ed i loro deputati, e si cominciò a tenere come un danno la venuta del re produttrice di tale gravezza», E non si era che al principio, ancora lontano dal 1814!

Stabiliti gli appannaggi, con un secondo provvedimento il re nominò ministro il conte di Chialamberto e distribuì le più alte cariche ai fratelli: il duca d’Aosta fu governatore della città di Cagliari, del capo Meridionale e della Gallura, oltre che generale delle armi; il duca di Monferrato, governatore della città di Sas­sari e del capo Settentrionale; il duca del Genovese, comandante della fanteria e dei miliziani; il conte di Moriana comandante la cavalleria; il duca del Chiablese, zio del re, fu presidente dell’am­ministrazione delle torri. Tutti i Sardi che fino a quel momento ri­coprivano quelle cariche furono estromessi e destinati a minori funzioni., Ciò contrastava con le precedenti concessioni fatte agli isolani, di occupare tutte le cariche e gli impieghi con la sola esclu­sione di quella di viceré. Nessuno osò protestare allora e neppure quando al sopruso s’aggiunse la beffa: perché non vi fosse più nes­suna distinzione fra le due popolazioni, quella isolana e quella di terraferma, il re volle nominare alcuni piemontesi a importanti funzioni in Sardegna, come Giuseppe De Maistre a reggente la Real Cancelleria, e alcuni Sardi ad altrettanto importanti cariche in Piemonte; col risultato, naturalmente, che i Piemontesi presero subito possesso dell’impiego, e i Sardi rimasero in Sardegna solo col titolo onorifico, essendo il Piemonte occupato dai Francesi” 1.

  1. Il giudizio di un contemporaneo del re Carlo Emanuele IV e del vicerè Carlo Felice, Giovanni Lavagna, (nobile algherese e filosabaudo) sull’aumento spropositato del Donativo.

“L’arrivo della famiglia reale a Cagliari e i primi atti di clemenza del sovrano sono visti in una luce favorevole, nel senso che Carlo Emanuele IV, nonostante le pressioni contrarie del ceto feudale, bene fece ad estendere l’amnistia generale ai rei di delitti e di opinioni po­litiche. Qui si manifesta l’avversione del Lavagna ai feudatari, del cui accanimento contro i presunti giacobini dà una giustificazione abba­stanza sensata: ai baroni cioè non importavano in sé e per sé le con­vinzioni politiche dei villici e dei loro sostenitori cittadini; importava invece ottenere dal governo i mezzi e i modi per costringere con la forza i riluttanti a pagare i tributi. Affiora in ciò l’interpretazione in chiave economico-sociale dei sommovimenti del I795, che molti scrittori dell’800 hanno poi colorato di motivazioni ideologiche.

Il motivo dominante della critica del Lavagna è però la condotta politica del ministro Chialamberto, orientata essenzialmente verso due fini: ottenere con imposizioni fiscali straordinarie un cospicuo aumento del «donativo» per far fronte alle esigenze finanziarie della corte esiliata e del governo, e abolire progressivamente i benefici del Diploma dell’8 giugno ‘96 affidando le leve del potere politico, mili­tare ed economico ad elementi piemontesi e a pochi sardi supina­mente ligi alle sue direttive.

Sul primo punto il dissenso del Lavagna è netto. In sostanza egli nega ogni legittimità in fatto e in diritto all’Editto con cui Carlo Ema­nuele IV, sentita una delegazione stamentaria, decreta un esorbitante «donativo» straordinario e ne fissa il «riparto» fra le varie classi della popolazione. Il tributo è ritenuto illegittimo sia perché troppo gravoso in relazione alle disperate condizioni economiche del paese e troppo sproporzionato rispetto a simili «donativi» imposti nel passato, sia perché approvato in contrasto con le leggi fondamentali del Regno, cioè da una ristretta delegazione stamentaria e non dai tre Bracci appo­sitamente convocati e investiti della pienezza dei loro poteri,

Certe inadempienze costituzionali non potevano sfuggire a un giurista ben provveduto di dottrina come il Lavagna, il quale per al­tro non si perita di accusare i principi reali di altrettanto gravi inos­servanze; come quella di non aver prestato il dovuto giuramento nel­l’assumere le rispettive elevate cariche: il duca d’Aosta quella di Generale delle Armi e di Governatore del Capo di Cagliari e Gallura, il duca di Monferrato quella di Governatore del Capo di Sassari e Lo­gudoro, Carlo Felice, duca del Genevese, quella di Vicerè.

Alle spese di mantenimento e suntuarie della corte il Lavagna dedica particolare attenzione: egli le considera uno sperpero del pub­blico denaro che, già inammissibile in tempi normali, diventa addi­rittura delittuoso se fatto in momenti di carestia e a carico di un po­polo povero e oppresso dai tributi. Ne sarebbero risultati riflessi ne­gativi sotto tutti i riguardi: il popolo, già cullatosi nella speranza di poter contare sui tesori e sulle ricchezze che il re profugo avrebbe portato con sé per dispensarli ai sudditi, incominciava a ricredersi e a mormorare contro lo sfarzo inutile e offensivo della corte e dei cor­tigiani; da parte loro gli aristocratici sardi, stando a contatto con que­sto ambiente, erano portati a gareggiare con la famiglia reale nel lusso, e siccome per gli eventi trascorsi anche le loro finanze apparivano in dissesto, c’era il pericolo che per far fronte alle nuove esigenze si ac­canissero maggiormente sui vassalli nell’esazione dei tributi” 2.

  1. Pietro Martini.: “La corte a Cagliari fu una grandissima ventura per i baroni e nobili sardi”.

“Questa venuta della famiglia reale fu una grandissima ventura per i baroni e i nobili sardi. I quali affettando devozione illimitata al trono e all’altare e lamentando la malvagità dei tempi, seppero immedesimare la causa loro con quella della dinastia regnante. Quanto vollero ottennero quei magnati; onoranze di corte, insegne cavalleresche, alte cariche civili e militari, riserve di gradi sì maggiori che minori nell’armata, more a pagar debiti, giudizi eccezionali in controversie civili, ordinazioni precise per la salvezza degli amplissimi privilegi. Queste aristocratiche fortune provennero anche dall’alleanza dei sardi patrizi con quelli che dal Piemonte avevano seguito i passi del re e dei reali principi: uomini, quanto volgari di mente, altrettanto alteri e propugnatori dell’antico. Costoro erano l’anello che stringeva l’aristocrazia sarda alla casa regnante.

Alla laicale dava la mano l’aristocrazia di chiesa, bisogna pur essa dell’egida della monarchia assoluta per la salvezza della decima e degli immensi suoi privilegi” 3.

La permanenza di Carlo Emanuele IV in Sardegna fu di pochi mesi soltanto, perché dopo i successi in Italia degli austro-russi fece ritorno nei suoi Stati, sui quali dopo il pericolo francese incombeva ora quello austriaco; ma dal Piemonte fu costretto a fuggire, poi, precipitosamente, incalzato ancora una volta dagli eserciti di Napoleone.

Per lui la Sardegna fu una brevissima e non esaltante paren­tesi: “Partì finalmente da Cagliari per Livorno il 19 settembre re Carlo Emanuele, ebbe acclamazioni, ma poche, e queste o furono comprate o vennero dagli uomini del privilegio, del favore e della reazione; e se alcuni di cuore gli fecero plau­so, più che al re, mirarono al principe colmo di virtù private (sic!). Né altrimenti poteva avvenire. Stavano in duolo i sinceri so­stenitori del diploma del 1796 poco anzi distrutto, il medio ceto calpestato dalle due aristocrazie, i nemici al feudalismo, gli amatori del progresso politico e civile, irati al ribadimento delle catene feudali, ai reintegrati ordini militari e dispotici. Dolevansi i Cagliaritani del comando passato in mani a loro nemiche. In una generale era il contristamento per le nuove gravezze, per la tema di maggiori, pel terrore destato dalle recenti incarcerazioni arbitrarie e dalla crescente reazione. Ondeché, se il 3 marzo fu d’entusiasmo, di speranza, d’amo­re, il 19 settembre fu giorno di tristezza, di disinganno, di timore di tempi peggiori”4.

Dopo aver errato per la Toscana, l’Umbria, Roma e Napoli, il 22 maggio decise di rinunziare al trono a favore del fratello, duca d’Aosta, riservandosi, precisa sempre il Martini, il titolo e la dignità di re, ed una annua pensione vitalizia di dugento mila lire, da aumentar si proporzionalmente [col miglioramento dello] stato delle regie finanze.

I protagonisti  del nuovo corso politico furono perciò in un primo momento Carlo Felice, divenuto viceré alla partenza di Carlo Emanuele IV per il Piemonte, e successivamente Vitto­rio Emanuele I, costretto dalle strepitose vittorie francesi a slog­giare definitivamente da Napoli, dove si era rifugiato, e a rien­trare a Cagliari nel febbraio 1806.

 

Note Bibliografiche

  1. Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 838.

-839).

2.  da Le Carte Lavagna e l’esilio di Casa Savoia in Sardegna di Carlino Sole (Giuffrè editore, Milano 1970, pagina 26-27.

  1. Pietro Martini, Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816, a cura di Aldo Accardo, Ed. Ilisso, Nuoro, 1999, pagine 63-64.
  2. Ibidem, pagina 86.
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